DECISIONE C.F.A. – SEZIONI UNITE: DECISIONE N. 84CFA DEL 27/03/2019 (MOTIVI) CON RIFERIMENTO AL COM. UFF. N. 078/CFA DEL 6 MARZO 2019
Decisione Impugnata: Delibera del Tribunale Federale Nazionale – Sezione Disciplinare Com. Uff. n. 70/TFN del 11.6.2018
Impugnazione Istanza: RICORSO DELLA SOCIETA’AC TRENTO SCSD AVVERSO LA DECLARATORIA DI INAMMISSIBILITÀ E IMPROCEDIBILITÀ DEL RICORSO EX ARTT. 25, 30 E 32 C.G.S. CONI
Massima: la C.F.A., preso atto della rinuncia agli atti, accerta il non luogo a procedere e dichiara estinto il giudizio.
Decisione C.F.A. Sezioni Unite: C. U. n. 67/CFA del 12 Dicembre 2017 (motivazioni) - www.figc.it
Decisione Impugnata: Delibera del Tribunale Federale Nazionale - Sezione Disciplinare - Com. Uff. n. 17/TFN del 9.10.2017
Impugnazione – istanza: RICORSO DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA ARBITRI AVVERSO LA DECISIONE PRONUNCIATA NEI CONFRONTI DEL SIG. G. G.(ARBITRO EFFETTIVO), SEGUITO – COM. UFF. N. 1 DELL’1.7.2017 AIA
Massima: La Corte, preso atto che l’arbitro nelle more del procedimento ha formulato, innanzi alla Procura Arbitrale Nazionale «le proprie irrevocabili dimissioni dall’A.I.A. con effetto immediato (come si provvede con apposito atto)» e rinunciato «a qualsivoglia azione avverso tutti gli atti indicati nel ricorso introduttivo nonché ad ogni effetto della decisione di primo grado», allo stesso favorevole, dichiara cessata la materia del contendere, e per l’effetto annulla la decisione del Tribunale Federale Nazionale (che a sua volta aveva annullato la delibera adottata dall’AIA con la quale al ricorrente è stata impedita la progressione dalla C.A.I. alla C.A.N. D e, quindi, è stato dismesso per limite di permanenza nel ruolo C.A.I.; dei criteri utilizzati per la formazione dell’elenco trasmesso al Comitato Nazionale; del provvedimento con il quale sono stati ripartiti tra le singole Regioni nell’ambito dell’indice numerico generale (n. 60) i posti degli arbitri effettivi che sarebbero transitati dalla C.A.I. alla C.A.N. D; della delibera del Comitato Nazionale dell’AIA presupposta al Comunicato impugnato; delle previsioni degli atti normativi in ordine alla formazione degli organi che decidono sulle sorti degli arbitri e per l’effetto dichiara estinto il giudizio)….Per effetto del combinato disposto delle norme di cui all’art. 1, comma 2, C.G.S. («Per tutto quanto non previsto dal presente Codice, si applicano le disposizioni del Codice della Giustizia Sportiva emanato dal CONI») e all’art. 2, comma 6, Codice di Giustizia Sportiva CONI («Per quanto non disciplinato, gli organi di giustizia conformano la propria attività ai principi e alle norme generali del processo civile, nei limiti di compatibilità con il carattere di informalità dei procedimenti di giustizia sportiva»), la fattispecie deve ritenersi regolata dalle disposizioni del codice di rito civile e, segnatamente, da quelle che disciplinano l’istituto dell’estinzione del processo. Non è, infatti, applicabile alla fattispecie la disposizione, invocata dall’AIA, di cui all’art. 37, comma 4, C.G.S., che disciplina altra e diversa ipotesi. Ciò premesso, occorre, anzitutto, operare una distinzione tra rinuncia agli atti del giudizio e rinuncia all’azione. Come noto, l’istituto della rinuncia, quale espressione tipica della autonomia negoziale privata, nel nostro ordinamento giuridico può avere per oggetto ogni diritto di carattere sostanziale e processuale, anche futuro ed eventuale, con l’unico limite che non osti un espresso divieto di legge, ovvero che non si tratti di un diritto irrinunciabile o indisponibile. La rinuncia agli atti del giudizio comporta, è noto, l’estinzione del processo quando la stessa è accettata dalle parti costituite che, invece, potrebbero avere interesse alla prosecuzione dello stesso. Secondo il consolidato principio di diritto sancito dalla Suprema Corte, in difetto di accettazione l’estinzione del giudizio può essere dichiarata qualora la controparte non abbia un interesse alla prosecuzione del giudizio, identificato nella possibilità, giuridica e concreta, di ottenere attraverso la pronuncia di merito vantaggi ulteriori conseguenti all’estinzione, cioè l’attualità dell’interesse processuale (ex multis, Cassazione, 24.3.2011, n. 6850; Cassazione, 21.6.2002, n. 9066; Cassazione, 3.8.1999, n. 8387). La rinuncia all’azione, ovvero all'intera pretesa azionata dall'attore nei confronti del convenuto, presuppone una incompatibilità, assoluta, tra il comportamento dell’attore e la sua volontà di proseguire nella domanda proposta (cfr. Cassazione, sez. III civ., 9.11.2005, n. 21685). Quanto agli effetti, la rinuncia all’azione, diversamente dalla rinuncia agli atti, non richiede l’accettazione della controparte e comporta l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere (cfr., ex multis, Cassazione, sez. I civ., 10.9.2004, n. 18255). La controparte del rinunciante, infatti, difetta di un interesse alla prosecuzione del processo e, pertanto, si impone la declaratoria di cessazione della materia del contendere (cfr. Cassazione, III sez. civ., 1.4.2004, n. 10478), peraltro espressione e realizzazione del principio dispositivo (cfr. Cassazione, sez. I civ., 8.5.1992, n. 5506). La rinuncia all’azione, in altri termini, è immediatamente efficace a prescindere da eventuale accettazione della controparte e determina il venir meno del potere – dovere del giudice di pronunciare (cfr. Cassazione, sez. II civ., 3.8.1999, n. 8387). Preclude, quindi, ogni attività giurisdizionale indipendentemente dall’accettazione della controparte, poiché, estinguendo l’azione, ha l’efficacia di un rigetto nel merito della domanda giudiziaria, comportando, quindi, il venir meno dell’interesse della controparte alla prosecuzione del giudizio e ad una diversa soluzione della lite o ad ottenere una pronuncia negativa sull’azione proposta dall’attore (cfr. Cassazione, sez. lav., 13.3.1999, n. 2268). La formula della cessazione della materia del contendere, ormai largamente diffusa, pur non trovando specifica previsione nel codice di rito civile, realizza un vero e proprio istituto processuale di cui la giurisprudenza di legittimità ha definito i confini. La cessazione della materia del contendere può, in sintesi, definirsi come quella situazione obiettiva che si viene a creare per il sopravvenire di ragioni di fatto che estinguono la situazione giuridica posta a fondamento della domanda, sicché viene a mancare la stessa "materia" su cui si fonda la controversia. La Suprema Corte ha precisato che la cessazione della materia del contendere del giudizio civile costituisce un’ipotesi di estinzione del processo da pronunciarsi con sentenza, d’ufficio o su istanza di parte, ogniqualvolta venga meno l’interesse delle parti alla naturale definizione del giudizio (cfr. Cassazione, sezioni unite, 28.9.2000, n. 1048). E’ noto che l’interesse ad agire consiste nell’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice, la verifica della cui esistenza si risolve nel quesito se l’istante possa conseguire attraverso il processo il risultato che si è ripromesso, a prescindere dall’esame del merito della controversia e della stessa ammissibilità della domanda sotto altri e diversi profili (cfr. Cassazione, 20.1.1998, n. 486). Siffatto interesse deve sussistere al momento in cui il giudice pronuncia la decisione e il suo difetto è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, in quanto esso costituisce un requisito per la trattazione del merito della domanda (cfr. Cassazione, sez. lav., 7.6.1999, n. 5593; Cassazione, sez. lav., 6.4.1983, n. 24069). Gli eventi capaci di generare la definizione del giudizio con la formula della cessazione della materia del contendere possono essere di natura fattuale, come anche discendere da atti posti in essere dalla volontà di una o di entrambe le parti. In particolare, in materia di contenzioso ordinario, la cessazione della materia del contendere è stata ravvisata in una molteplicità di situazioni, tra loro comparabili in relazione ad un unico elemento costituito dal fatto che è venuto meno l’interesse delle parti ad una decisione sulla domanda giudiziale, come proposta o come venuta ad evolversi nel corso del giudizio, per effetto di attività dalle parti stesse poste in essere – per le più diverse ragioni – nelle varie fasi processuali, o di eventi incidenti sulle parti in conseguenza della natura personalissima ed intrasmissibile della posizione soggettiva dedotta, in ordine ai quali – anche se enunciati o risultanti dagli atti – non viene richiesto al giudice alcun accertamento, diverso da quello del venir meno dell’interesse alla pronuncia (cfr. Cassazione, sezioni unite, 18.5.2000, n. 368). Del resto, la deroga al principio per cui il processo dovrebbe restare insensibile ai fatti sopravvenuti dopo la proposizione della domanda si giustifica alla luce del principio di economia dei mezzi processuali (cfr. Cassazione, 21.5.1987, n. 4630; Cassazione, 22.7.1981, n. 4719). Perché il giudice possa definire la controversia con la formula di cui trattasi occorre che, congiuntamente, ricorrano i seguenti presupposti:- il fatto (i.e. evento) generatore deve essere sopravvenuto alla proposizione della domanda giudiziale (in caso contrario, infatti, la domanda medesima sarebbe improponibile ab origine per difetto di interesse all'azione); - il fatto sopravvenuto abbia determinato l'integrale eliminazione della materia della lite;- il fatto di cessazione deve aver eliminato ogni posizione di contrasto e risultare pacifico in tutte le sue componenti, anche per quanto attiene alla rilevanza giuridica delle vicende sopraggiunte. Presupposti, questi, che, nel caso di specie, pacificamente ricorrono. In definitiva, la declaratoria di cessazione della materia del contendere, quale evento preclusivo della pronunzia giudiziale, è l’effetto del sopravvenire, nel corso del processo, di una situazione che, eliminando radicalmente la posizione di contrasto tra le parti e privando le stesse di ogni interesse a proseguire il giudizio (cfr. Cassazione, sez. V civ., 26.7.2002, n. 11038), fa venire meno la necessità (rectius: possibilità) della decisione (cfr. Cassazione, sez. lav., 27.1.1998, n. 801). Avendo l’efficacia di un rigetto nel merito della domanda, la rinuncia all’azione comporta, altresì, quale conseguenza della declaratoria di cessazione della materia del contendere, la necessità di provvedere all’annullamento della decisione impugnata, nel caso di specie, quella di cui al Com. Uff. n. 17/TFN del 9.10.2017, che ha accolto il ricorso del dott. - omissis - (ricorrente che, correttamente, ha già, peraltro, anche formalmente rinunciato ai relativi effetti). Infatti, la cessazione della materia del contendere postula il sopravvenire, in corso di giudizio, di fatti che determinano il venir meno delle ragioni di contrasto tra le parti e, con ciò, dell’interesse al ricorso o alla impugnazione. Siffatta modalità di composizione della controversia giustifica non già l’inammissibilità del ricorso in appello, bensì la rimozione della decisione di prime cure, ormai priva di attualità (cfr. Cassazione, sez. I civ., 13.9.2007, n. 19160). Sotto tale profilo, dunque, questa Corte non può limitarsi a dichiarare estinto solo il presente giudizio di appello, pronuncia, questa, che esplicherebbe l'effetto di far passare in giudicato la decisione impugnata, ma deve anche dichiarare l’estinzione del giudizio di primo grado ed annullare la relativa decisione. In breve, a fronte della dichiarazione di rinuncia da parte dell'appellato all'azione intrapresa ed agli effetti in suo favore derivanti dalla sentenza di primo grado (ciò che, come detto, dimostra il venir meno dell'interesse al ricorso in ordine al quale è intervenuta una pronuncia e preclude il riesame della questione già decisa), occorre disporre l'annullamento della sentenza di primo grado e non l'estinzione del solo giudizio di appello (Consiglio di Stato, sez. IV, 22.2.2017, n. 824). Occorre fare, infatti, applicazione del principio di diritto sancito dalle SS. UU. della Suprema Corte, secondo cui «… nel rito contenzioso ordinario, la cessazione della materia del contendere costituisce un’ipotesi di estinzione del processo - creata dalla prassi giurisprudenziale ed applicata in ogni fase e grado del giudizio - da pronunciare con sentenza, d’ufficio o su istanza di parte, ogniqualvolta non si può far luogo alla definizione del giudizio per rinuncia agli atti o per rinuncia alla pretesa sostanziale, per il venir meno dell’interesse delle parti alla naturale definizione del giudizio, che determina il venir meno delle pronunce emesse nei precedenti gradi e non passate in giudicato e che proprio perché accerta il venir meno dell’interesse non ha alcuna idoneità ad acquistare efficacia di giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere, ma solo sul venire meno dell’interesse e con l’ulteriore conseguenza che il giudicato si forma solo su quest’ultima circostanza, ove la relativa pronuncia non sia impugnata con i mezzi propri del grado in cui è emessa” (così, Cassazione, sezioni unite, 28.9.2000, n. 1048, già sopra richiamata, ove è stato precisato che l’emananda pronuncia non contiene alcuna statuizione sulla decisione impugnata, che resta così travolta e caducata e, quindi, inidonea a passare in giudicato). In diverse parole, la rinuncia all'azione comporta una pronuncia con cui si prende atto di una volontà del ricorrente di rinunciare alla pretesa sostanziale dedotta in giudizio, con la conseguente inammissibilità di una riproposizione della medesima domanda; in quest'ultimo caso, non vi può essere mera estinzione del solo giudizio d’appello, in quanto la decisione implica una pronuncia di merito, cui consegue l'estinzione del diritto di azione, atteso che il giudice prende atto della volontà del ricorrente di rinunciare alla pretesa sostanziale dedotta nel processo (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 21.6.2017, n. 3058). Insomma, questa Corte, nel prendere atto della formulata rinuncia all’azione da parte del dott. - omissis -, dichiarata, in via incidentale e per quanto occorra, la perdita, in capo allo stesso, del diritto azionato e la preclusione alla eventuale riproposizione della medesima domanda, è, altresì, tenuta a dichiarare estinto il giudizio e ad annullare la decisione del T.F.N.. Infatti, a fronte della dichiarazione dell’appellato di rinuncia all’azione intrapresa ed agli effetti in suo favore derivanti dalla sentenza di primo grado, occorre disporre l'annullamento di quest'ultima, e non già la sola estinzione del giudizio di appello, che esplicherebbe l'effetto di far passare in giudicato la sentenza impugnata. Ciò che nel processo amministrativo comporta, altresì e di conseguenza, la declaratoria di improcedibilità dell'appello proposto dalla parte soccombente in primo grado (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 3.8.2017, n. 3883).
Decisione C.F.A. – Sezioni Unite: Comunicato ufficiale n. 101/CFA del 08 Aprile 2016 e con motivazioni pubblicate sul Comunicato ufficiale n. 107/CFA del 18 Aprile 2016 e suwww.figc.it
Impugnazione – istanza: 1. RICORSO DELL’U.S. CITTA’ DI PALERMO S.P.A. AVVERSO LA DELIBERAZIONE ADOTTATA DALLA LEGA NAZIONALE PROFESSIONISTI SERIE A IL 26.2.2016, DI CUI AI NN. 3 E 4 DELL’ORDINE DEL GIORNO DEL 17 FEBBRAIO 2016
Massima: La Corte, dichiara estinto il procedimento per rinuncia poiché ai sensi dell’art. 33, comma 12, C.G.S., le parti hanno facoltà di non dare seguito al preannuncio di reclamo o di rinunciarvi prima che si sia proceduto in merito e che la rinuncia o il ritiro del reclamo non ha effetto soltanto per i procedimenti di illecito sportivo, per quelli che riguardano la posizione irregolare dei calciatori e per i procedimenti introdotti per iniziativa di Organi federali e operanti nell’ambito federale (circostanze, quest’ultime escludibili nel caso di specie).