T.A.R. LAZIO – SENTENZA N. 3024/2018
Pubblicato il 19/03/2018
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Ter)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale (…), proposto da: OMISSIS, rappresentato e difeso dall'avvocato Michele Damiani, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Mordini, 14;
contro
Federazione Italiana Pallacanestro, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati Guido Valori e Paola Maria Angela Vaccaro, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Guido Valori in Roma, viale delle Milizie,106;
CONI - Comitato Olimpico Nazionale Italiano, non costituito in giudizio;
per il risarcimento
del danno subito in conseguenza dell’esecuzione del provvedimento del 25 novembre 2010 che ha respinto l’istanza del ricorrente di tesseramento nella F.I.P. quale atleta di formazione italiana.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio della Federazione Italiana Pallacanestro;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 gennaio 2018 la dott.ssa Francesca Petrucciani e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Con il ricorso in epigrafe OMISSISh a chiesto il risarcimento del danno subito per effetto del provvedimento della F.I.P. che ha respinto la sua istanza di tesseramento quale atleta di formazione italiana.
Il ricorrente, nato in Italia, cittadino italiano e figlio di cittadini italiani, ha esposto di essersi trasferito, a seguito del divorzio dei genitori, avvenuto nel 1993, negli Stati Uniti, dove aveva vissuto fino alla maggiore età, partecipando al campionato di basket statunitense NCAA.
Nell’estate del 2009 era stato convocato dalla Nazionale italiana Under 20 per disputare una serie di partite e, divenuto maggiorenne, aveva deciso di rientrare stabilmente in Italia, avendo ottenuto una proposta di ingaggio della società Reyer Venezia, squadra di pallacanestro della serie A/2.
Le trattative intercorse per l’ingaggio, tuttavia, venivano interrotte a causa del diniego opposto dalla FIP al riconoscimento in favore del ricorrente dello status di giocatore di formazione italiana, che aveva fatto sì che egli potesse essere inserito solo su una quota di 4/10 dei posti di ciascuna squadra, come previsto per i giocatori di formazione straniera, anziché sulla quota di 6/10 riservata ai giocatori di formazione italiana.
Il diniego era fondato sul fatto che il ricorrente, secondo la FIP, non risultava tecnicamente formato in Italia, qualificazione che, secondo l’art. 11 bis del Regolamento FIP, richiedeva la formazione nei vivai italiani e la partecipazione ai campionati giovanili FIP per almeno quattro stagioni sportive.
Ciò aveva comportato il venir meno dell’accordo con la OMISSIS, la diminuzione del valore del cartellino del ricorrente ed una consistente riduzione delle possibilità di essere ingaggiato dalle società sportive italiane, che avrebbero dovuto schierare nel campionato 6 atleti di formazione italiana su 10.
Il ricorrente aveva poi presentato al Consiglio Federale istanza motivata di deroga, rappresentando di avere iniziato la formazione in Italia e di non aver potuto giocare nei campionati italiani in quanto, a seguito della separazione dei genitori, le autorità giurisdizionali statunitensi avevano disposto che dovesse restare a vivere negli Stati Uniti fino al compimento della maggiore età, ma anche tale istanza era stata respinta, per i medesimi motivi già espressi.
Il ricorrente aveva quindi proposto ricorso innanzi al Tribunale Amministrativo del Lazio avverso i provvedimenti della FIP; il ricorso, respinto in primo grado con la sentenza n. 8153/2011, era stato accolto in appello dal Consiglio di Stato che, con la sentenza del 17 giugno 2014, n. 3037, aveva ritenuto illegittima la disposizione dell’art. 11 bis del Regolamento esecutivo settore professionistico della FIP, nella parte in cui richiedeva la formazione tecnica in Italia anche per i cittadini italiani, discriminando l’atleta italiano formato all’estero rispetto allo straniero formato in Italia, in contrasto anche con la tutela dei cittadini dell’Unione Europea.
Il ricorrente ha dunque lamentato il danno conseguente ai provvedimenti adottati dalla Federazione, assumendone l’illegittimità, come affermato dal Consiglio di Stato, e deducendo la ricorrenza dei presupposti oggettivi e soggettivi della responsabilità della Federazione ai sensi dell’art. 2043 c.c..
Sotto il profilo soggettivo, le disposizioni discriminatorie del Regolamento citato evidenziavano la colpa della FIP.
Quanto al nesso di causalità, la proposta di contratto della OMISSISe ra stata ritirata a seguito del diniego di riconoscimento al ricorrente dello status di atleta di formazione italiana.
Il danno andava determinato tenendo conto dell’importo del contratto proposto, pari ad euro 120.000 annui, e nella perdita di chances, per i successivi eventuali contratti che il ricorrente avrebbe potuto stipulare, di pari importo.
Oltre a ciò, il ricorrente aveva subito il danno non patrimoniale dovuto al fatto che aveva lasciato gli Stati Uniti, la vita familiare e le possibilità di riscontro professionale in America, dovendo poi sostenere notevoli sforzi per reinserirsi in Italia senza alcuna sicurezza professionale.
Si è costituita la FIP resistendo al ricorso.
Alla pubblica udienza del 16 gennaio 2018 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
Il ricorso deve essere respinto in quanto infondato.
Il ricorrente ha richiesto in questa sede il risarcimento dei danni subiti in quanto, per effetto dell’illegittimo diniego di riconoscimento dello status di giocatore di formazione italiana, non avrebbe potuto essere ingaggiato dalle squadre partecipanti al campionato italiano.
Nel caso di specie non sono ravvisabili, tuttavia, i presupposti per l’affermazione di una responsabilità della Federazione, sia sotto il profilo del nesso di causalità, che della condotta colposa della FIP.
Deve osservarsi, in primo luogo, che, come eccepito dalla Federazione, il mancato riconoscimento come atleta di formazione italiana non avrebbe comunque impedito al ricorrente di giocare in Italia nei campionati professionistici, potendo lo stesso essere tesserato ed ingaggiato come giocatore di formazione straniera, andando a comporre il coefficiente di quattro giocatori per squadra previsto in tal caso.
La differenza, infatti, sarebbe stata solo nel concorrere su quattro posti anziché sei, non essendo certo impedito al giocatore di partecipare al campionato.
Né, sotto tale profilo, il ricorrente ha in alcun modo dimostrato la perdita di occasioni favorevoli in conseguenza del diniego impugnato.
Non risulta infatti in alcun modo dagli atti prodotti l’esistenza di una trattativa con la società OMISSIS, essendo stata prodotta unicamente una email inviata al ricorrente dal proprio agente (doc. 7), nella quale si menziona il fatto che, dopo la richiesta di tesseramento a Venezia, appreso che il ricorrente non poteva essere considerato giocatore di formazione italiana, non era stato possibile reperire un altro contratto.
Non vi è quindi alcuna prova dell’esistenza di una effettiva proposta contrattuale, né del fatto che effettivamente le possibilità di stipulare un contratto siano state compromesse dal diniego di riconoscimento come giocatore italiano, in quanto l’agente si limita ad addurre tale circostanza come motivo della difficoltà di inserimento nelle squadre, ma tale assunto è dallo stesso unilateralmente addotto (anche a discarico della propria responsabilità), senza che emerga da alcun altro documento.
Di contro, i documenti prodotti dalla FIP (docc. 3, 4 e 15 di parte resistente) comprovano che il ricorrente, dopo il diniego espresso il 25.11.2010, è stato tesserato per la società OMISSIS Basket nel campionato professionistico Legadue, lo stesso in cui giocava la OMISSIS, dal febbraio del 2011 al termine della stagione.
Anche sotto tale profilo, quindi, emerge l’assenza del danno lamentato e della riconducibilità causale dello stesso al provvedimento sfavorevole.
Per completezza deve rilevarsi che anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo risulta carente l’individuazione di una condotta colposa dell’Amministrazione.
Al riguardo deve sottolinearsi, in primo luogo, che il ricorso non apporta alcun argomento a sostegno della sussistenza di un profilo di colpa, limitandosi ad affermare apoditticamente la stessa sulla base della accertata illegittimità della disposizione regolamentare alla base del diniego, così postulando una sorta di culpa in re ipsa a fronte del provvedimento illegittimo.
Com’è noto, di contro, e ribadito dalla giurisprudenza anche di recente, l’illegittimità del provvedimento non implica ex se l’affermazione della colpa dell’Amministrazione procedente, dovendosi comunque accertare, al fine di affermare la responsabilità civile di quest’ultima, la sussistenza di ulteriori indici di rimproverabilità soggettiva della condotta contestata.
Infatti, al di fuori del peculiare settore degli appalti pubblici - dove la specialità del sistema di tutela (fortemente connotato dall'impronta derivante dalla normativa U.E.) giustifica un regime speciale di responsabilità di natura essenzialmente "oggettiva " - negli altri ambiti la responsabilità civile della Pubblica amministrazione continua ad essere di natura "soggettiva " e, quindi, fondata anche sull'elemento della colpa, in conformità con la regola che vale nei rapporti tra privati (art. 2043, c.c.); ma la colpa non si identifica nell'illegittimità del provvedimento, richiedendo un quid pluris, rappresentato dalla rimproverabilità soggettiva, in termini di inescusabilità, dell'errore che ha determinato il vizio di invalidità del provvedimento amministrativo, fonte materiale del danno (da ultimo Consiglio di Stato, sez. V, 19 giugno 2017 n. 2986; sez. IV, 30 gennaio 2017, n. 361; ).
Si deve, quindi, verificare se l'adozione e l'esecuzione dell'atto impugnato sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede alle quali l'esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi, con la conseguenza che il giudice amministrativo può affermare la responsabilità dell'Amministrazione per danni conseguenti ad un atto illegittimo quando la violazione risulti commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento normativo tali da palesare la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'assunzione del provvedimento viziato. Viceversa, la responsabilità deve essere negata quando l'indagine presupposta conduce al riconoscimento dell'errore scusabile, come ad esempio nel caso della sussistenza di contrasti giudiziari, di incertezza del quadro normativo di riferimento o di particolare complessità della situazione di fatto (T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 16/01/2017, n. 387).
Nel caso di specie, deve rilevarsi che lo stesso giudice di primo grado ha ritenuto legittima la disposizione dell’art. 11 bis del Regolamento esecutivo professionistico, non ravvisando i profili di irragionevolezza e disparità di trattamento poi accertati dal Consiglio di Stato.
Tale circostanza consente di escludere che l’individuazione della regola della formazione italiana anche per i giocatori italiani, e la conseguente adozione dell'atto impugnato, in applicazione di tale regola, siano avvenute in violazione dei principi di imparzialità, correttezza e buona fede, dovendosi ritenere comunque in parte opinabile la questione alla base del diniego, con conseguente non ravvisabilità di una ipotesi di negligenza o scorrettezza.
Pur a fronte delle censure di legittimità riscontrate all’esito del giudizio impugnatorio, quindi, nella peculiarità della fattispecie concreta non si rinviene a carico dell'autorità procedente una palese violazione delle comuni regole di buona amministrazione, correttezza, imparzialità e buon andamento.
Infine, anche con riferimento al danno deve evidenziarsi che per ogni ipotesi di responsabilità della Pubblica amministrazione per i danni causati dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa, spetta al ricorrente fornire in modo rigoroso la prova dell'esistenza del danno, non potendosi invocare il cd. principio acquisitivo perché tale principio attiene allo svolgimento dell'istruttoria e non all'allegazione dei fatti; sicché, quando il soggetto onerato della allegazione e della prova dei fatti non vi adempie, non può darsi ingresso alla valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c., perché tale norma presuppone l'impossibilità di provare l'ammontare preciso del pregiudizio subito, né può essere invocata una consulenza tecnica d'ufficio, diretta a supplire al mancato assolvimento dell'onere probatorio da parte dell’istante.
Anche sotto tale profilo non può non evidenziarsi che il ricorrente, pur avendo ipotizzato una quantificazione del danno sulla base della media dei guadagni ipotizzabili, non ha in alcun modo documentato la proposta contrattuale che avrebbe perso, né l’importo di eventuali contratti analoghi.
La domanda risarcitoria va, quindi, respinta.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge;
condanna il ricorrente alla rifusione in favore della FIP delle spese di lite, che si liquidano in complessivi euro 2.000 oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 gennaio 2018 con l'intervento dei magistrati:
Germana Panzironi, Presidente
Francesca Petrucciani, Consigliere, Estensore
Francesca Romano, Referendario