T.A.R. LAZIO – SENTENZA N. 12516/2018

Pubblicato il 24/12/2018

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Prima Ter)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale (…), proposto da OMISSIS, rappresentato e difeso dall'avvocato Mauro De Carolis, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Serena Raffaelli in Roma, via Faà di Bruno 15;

contro

Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per l'annullamento

previa sospensione,

del provvedimento nr. 230/2017 del 31.10.2017 emesso dalla Questura di Roma, notificato al ricorrente in data 5/11/2017;

di ogni altro atto presupposto, connesso e comunque consequenziale, ancorché di data e tenore sconosciuto, ivi compreso il provvedimento prot. n. 0119157 dell’11/12/2017 della Questura di Roma di diniego di accesso agli atti, che incida sfavorevolmente sulla posizione giuridica del ricorrente;

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 ottobre 2018 la dott.ssa Francesca Petrucciani e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Con il ricorso in epigrafe OMISSIS ha impugnato il provvedimento con cui la Questura di Roma gli ha vietato, per anni cinque dalla data di notifica del provvedimento stesso, di accedere all’interno degli stadi e di tutti gli impianti sportivi del territorio nazionale ove si disputano incontri di calcio a qualsiasi livello, agonistico o amichevole, calendarizzati e pubblicizzati, estendo tale divieto anche agli incontri di calcio disputati all’estero dalle squadre italiane e dalla nazionale italiana di calcio.

Al fine di esaminare gli atti del procedimento il ricorrente ha proposto altresì istanza di accesso agli atti, respinta dalla Questura di Roma con provvedimento prot. n. 0119157 dell’11/12/2017.

A sostegno del ricorso sono state formulate le seguenti censure:

1.violazione e falsa applicazione del combinato disposto di cui all’art. 2, comma 3, della legge n. 205/93 e all’art. 6 della legge n. 401/1989 - eccesso di potere per difetto di motivazione e travisamento dei presupposti di fatto e di diritto per l’applicazione del c.d. DASPO, non avendo l’Amministrazione fornito alcuna motivazione concreta sulle circostanze che l’hanno indotta ad adottare tale misura nei confronti del ricorrente, avendo descritto i fatti in occasione dei quali lo stesso era stato identificato in maniera del tutto generica e senza individuare la condotta specificamente allo stesso addebitata;

2. violazione e falsa applicazione del combinato disposto di cui all’art. 2, comma 3, legge 205/93 e all’art. 6 della legge n. 401/1989 – eccesso di potere per difetto di motivazione e travisamento dei fatti, in considerazione della omessa motivazione circa la pericolosità del ricorrente, non tifoso né facente parte di tifoserie organizzate e/o gruppi e/o movimenti e/o associazioni di carattere politico e soprattutto xenofobo;

3. violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990 – carenza di motivazione ed eccesso di potere per carenza di presupposti di urgenza, non essendo stato comunicato l’avvio del procedimento;

4. violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 241/90 e dell’art. 6 della legge n. 481/89 – eccesso di potere sotto il profilo dell’incongrua e/o insufficiente motivazione – genericità del divieto, con riferimento all’indicazione dei luoghi interessati dal divieto stesso;

5. violazione dell’art 24 della Costituzione in ordine al diritto di difesa, non essendo stato consentito all’interessato l’accesso agli atti del procedimento.

Si è costituito il Ministero dell’Interno resistendo al ricorso.

All’esito della camera di consiglio del 13 febbraio 2018 questa Sezione ha ritenuto che le esigenze cautelari prospettate dal ricorrente, nel caso di specie, fossero tutelabili adeguatamente con la sollecita definizione del giudizio nel merito e ha fissato a tal fine l’udienza pubblica del 9 ottobre 2018, nella quale il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Il ricorso deve essere respinto.

Il divieto di accesso alle manifestazioni sportive è stato introdotto, al fine di prevenire gli episodi violenti nel contesto delle manifestazioni sportive, dalla legge 13 dicembre 1989, n. 401 ("Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive").

Secondo l'art. 6, comma 1, della citata legge n. 401, come modificato dal d.l. 22 agosto 2014, n. 119, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 ottobre 2014, n. 146 ("Disposizioni urgenti in materia di contrasto a fenomeni di illegalità e violenza in occasione di manifestazioni sportive, di riconoscimento della protezione internazionale, nonché per assicurare la funzionalità del Ministero dell'interno"), il DASPO può essere disposto "nei confronti delle persone che risultano denunciate o condannate anche con sentenza non definitiva nel corso degli ultimi cinque anni per uno dei reati di cui all'articolo 4, primo e secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, all'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, all'articolo 2, comma 2, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, e all'articolo 6-bis, commi 1 e 2, e all'articolo 6-ter, della presente legge, nonché per il reato di cui all'articolo 2-bis del decreto-legge 8 febbraio 2007, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2007, n. 41, e per uno dei delitti contro l'ordine pubblico e dei delitti di comune pericolo mediante violenza, di cui al libro II, titolo V e titolo VI, capo I, del codice penale, nonché per i delitti di cui all'articolo 380, comma 2, lettere f) ed h) del codice di procedura penale ovvero per aver preso parte attiva ad episodi di violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive, o che nelle medesime circostanze abbiano incitato, inneggiato o indotto alla violenza".

Nel caso di specie, il divieto è stato applicato con riferimento al disposto dell’art. 2, comma 2, del d.l. n. 122/93, convertito in legge n. 205/93, secondo cui “3. Nel caso di persone denunciate o condannate per uno dei reati previsti dall'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, per uno dei reati previsti dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, o per un reato aggravato ai sensi dell'articolo 3 del presente decreto, nonché di persone sottoposte a misure di prevenzione perché ritenute dedite alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo la sicurezza o la tranquillità pubblica, ovvero per i motivi di cui all'articolo 18, primo comma, n. 2-bis), della legge 22 maggio 1975, n. 152 si applica la disposizione di cui all'articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, e il divieto di accesso conserva efficacia per un periodo di cinque anni, salvo che venga emesso provvedimento di archiviazione, sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento o provvedimento di revoca della misura di prevenzione, ovvero se è concessa la riabilitazione ai sensi dell'articolo 178 del codice penale o dell'articolo 15 della legge 3 agosto 1988, n. 327”.

A sua volta l’art. 3 del medesimo d.l., richiamato dal precedente art. 2, e il cui contenuto è oggi riportato nell’art. 604 ter del c.p., ha introdotto una circostanza aggravante, disponendo che “Per i reati punibili con pena diversa da quella dell'ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l'attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità, la pena è aumentata fino alla metà”.

Nel caso in esame, infatti, il ricorrente è stato denunciato, in concorso, per i reati di cui agli artt. 582 e 583 c.p., nonché dell’art. 3, comma 1, l. n. 205/93, perché in data 29 ottobre 2017, alle ore 2.35, avrebbe preso parte, con un gruppo di circa dieci giovani di nazionalità italiana, all’aggressione a due cittadini stranieri, senza alcuna motivazione; il gruppo, dopo aver insultato due cittadini stranieri che stavano transitando in quel momento sulla strada, proferendo al loro indirizzo le seguenti frasi di stampo discriminatorio “Negri di merda, immigrati del cazzo, ebrei”, li aveva contestualmente aggrediti con calci e pugni, procurandogli gravi lesioni.

Nell’immediatezza dei fatti il ricorrente è stato identificato dal personale di Polizia come appartenente al suddetto gruppo di persone sulla base della descrizione fornita da alcuni testimoni dell’accaduto.

Il provvedimento è stato quindi adottato con riferimento a tali circostanze, facendo espresso richiamo alla disposizione introdotta dall’art. 2 della l. 205/93, sopra riportato.

Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto che l’Amministrazione non avrebbe fornito alcuna motivazione concreta sulle circostanze che l’hanno indotta ad adottare la misura del c.d. DASPO, avendo descritto i fatti in occasione dei quali lo stesso era stato identificato in maniera del tutto generica e senza individuare la condotta specificamente allo stesso addebitata.

La doglianza è infondata.

Nel provvedimento impugnato, infatti, si dà ampiamente conto del fatto che, come emergeva dal rapporto redatto dalla forze dell’ordine, il 29 ottobre 2017, intorno alle ore 2.35, un cittadino straniero, rinvenuto a terra insanguinato, era stato aggredito da un gruppo di circa dieci giovani di nazionalità italiana, senza alcuna motivazione; il gruppo aveva dapprima insultato due cittadini stranieri, urlandogli le frasi “Negri di merda, immigrati del cazzo, ebrei”, e poi li aveva aggrediti con calci e pugni, procurando ad uno di essi fratture delle mascelle, delle cavità orbitarie e delle ossa nasali; l’Amministrazione ha specificato, altresì, che il ricorrente veniva identificato nell’immediatezza dei fatti, in quanto fermato a poca distanza dal luogo dell’aggressione, sulla base della descrizione di alcuni testimoni delle caratteristiche fisiche e dell’abbigliamento indossato, e tratto in arresto per tentato omicidio.

Di conseguenza, la motivazione del provvedimento risulta più che adeguata ed idonea a sorreggere la misura adottata, in quanto vertente anche specificamente sul coinvolgimento del OMISSIS nei fatti descritti.

Quanto, poi, alla contestazione, di cui al secondo motivo, della omessa motivazione circa la pericolosità del ricorrente, non tifoso né facente parte di tifoserie organizzate o movimenti di carattere politico e soprattutto xenofobo, deve rilevarsi, in primo luogo, che il divieto di accesso alle manifestazioni sportive è stato adottato, nel caso in esame, sulla base dell’espressa previsione di cui all’art. 2 della l. n. 205/93, che estende l’applicazione dell’art. 6 della l. n. 401/89, ovvero del DASPO, proprio alle ipotesi di reati di particolare allarme sociale in quanto caratterizzati dalla manifestazione di odio razziale.

Tale previsione risponde proprio alla ratio di evitare che soggetti coinvolti in indagini per reati in tal modo caratterizzati, e pertanto suscettibili di sfociare in episodi di violenza immotivati e occasionati solo da un intento discriminatorio, possano accedere alle manifestazioni sportive, luogo in cui condotte analoghe potrebbero comportare una condizione di particolare rischio per l’ordine e l’incolumità pubblica, come testimoniato dal fatto che in più occasioni si sono verificate aggressioni o minacce correlate ad insulti di tipo razzista negli stadi.

Sotto tale profilo la previsione specifica dell’applicazione del DASPO non risulta irragionevole ma, anzi, si giustifica proprio con riferimento alle considerazioni che precedono.

Nel caso di specie, inoltre, non può non evidenziarsi la particolare aggressività e violenza delle condotte ascritte al ricorrente, e la gravità delle lesioni arrecate alle vittime, il tutto senza alcuna apparente motivazione se non quella della differente provenienza geografica delle stesse, di tal che, anche sotto questo profilo, la misura applicata deve ritenersi del tutto conforme al dato normativo ed alle circostanze del caso concreto.

Con riferimento alla omessa comunicazione dell’avvio del procedimento, dedotta con il terzo motivo, deve osservarsi che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, i provvedimenti quale quello in esame, essendo protesi alla più efficace tutela dell'ordine pubblico e ad evitare la reiterazione dei comportamenti vietati, possono anche prescindere dal previo coinvolgimento procedimentale del destinatario della misura di prevenzione. Secondo questo orientamento, "stante il carattere cautelare ed urgente della misura di cui all'art. 6 della legge n. 401 del 1989, volta a tutelare nel modo più efficace l'ordine pubblico e ad evitare la reiterazione di comportamenti vietati, quanto all'omessa comunicazione di avvio del procedimento, va esclusa la sussistenza dell'onere partecipativo di cui all'art. 7 della legge n. 241 del 1990" (T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, sez. I, 3.10.2018, n.591; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. IV, 9.2.2018, n. 324; T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna, sez. I, 23.3.2016, n. 343).

Infondata è, altresì, la censura relativa alla generica indicazione dei luoghi "ove si disputano incontri di calcio di qualsiasi livello" relativamente ai quali è stato imposto il divieto di accesso.

Ed invero, essendo stato comminato il divieto di accesso su tutto il territorio nazionale, la genericità della previsione deriva dall'oggettività difficoltà di conoscere a priori tutti i luoghi interessati allo spostamento di tifosi per l'intera durata delle manifestazioni sportive.

Inoltre, il contenuto di tale previsione è facilmente determinabile, giacché il provvedimento fa espresso riferimento alle aree individuate, a mezzo di transenne o altro, a cura del responsabile del servizio di ordine pubblico.

Infine, con riferimento al lamentato diniego di accesso agli atti del procedimento, deve rilevarsi che, come argomentato dalla Questura nel provvedimento di diniego, gli atti relativi al procedimento finalizzato all'emissione del divieto di accesso alle manifestazioni sportive, in quanto attinenti ad un provvedimento riferito alla tutela dell'ordine e della sicurezza come previsto dall'art. 3 del D.M. n. 415/1994, sono sottratti alla disciplina dell'accesso, e che, nel caso di specie, gli atti erano anche contenuti in una comunicazione di notizia di reato e, come tali, soggetti a segreto istruttorio in quanto atti di indagine.

Il ricorso va quindi respinto.

La peculiarità della questione giuridica sottesa all’applicazione del divieto giustifica comunque la compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge;

Compensa le spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni 9 ottobre 2018 e 17 dicembre 2018 con l'intervento dei magistrati:

Germana Panzironi, Presidente

Francesca Petrucciani, Consigliere, Estensore

Francesca Romano, Primo Referendario

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