CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – SEZIONE SECONDA – SENTENZA del 05/03/2025 n. 5744

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA

Presidente: MANNA FELICE

Relatore: CRISCUOLO MAURO

– OMISSIS –

 

 

 

 

SENTENZA

 

sul ricorso 34774-2019 proposto da:

 

OMISSIS, rappresentato e difeso da se stesso, nonché dall’avvocato STEFANO DEMURO giusta procura in calce al ricorso;

 

– ricorrente –

 

contro

 

CAGLIARI  CALCIO  SPA,  rappresentata  e  difesa  dall’avvocato

 

WALETR MARINI, giusta procura in calce al controricorso

 

controricorrente–

 

 

avverso l’ordinanza del TRIBUNALE DI CAGLIARI n. 101/2019,

 

depositata il 19 aprile 2019;

 

lette  le   conclusioni   d  el   Pubblico   Ministero,   in   persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. ALDO CENICCOLA, che ha concluso l’accoglimento solo del tredicesimo motivo di ricorso; lette le memorie delle parti;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20

 

febbraio 2025 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

 

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. ALDO CENICCOLA, che ha concluso l’accoglimento solo del tredicesimo motivo di ricorso;

uditi gli avvocati OMISSIS e Stefano Demuro per il ricorrente e l‘avvocato Water Roberto Marini per la controricorrente;

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

 

  1. L’Avv. OMISSIS, previo rilascio del parere di congruità da parte del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Cagliari, relativamente ai compensi per l’attività asseritamente svolta in favore della società Cagliari Calcio S.p.A. (di seguito “Cagliari Calcio”), depositava sette autonomi ricorsi innanzi al Tribunale di Cagliari al fine di ottenere altrettanti decreti ingiuntivi contro la società.

Ricevuta  la  notifica  dei  setti  decreti  ingiuntivi,  emessi  in

 

accoglimento dei ricorsi proposti dal professionista, la Cagliari Calcio proponeva altrettante tempestive opposizioni.

Nelle  more,  al  fine  di  evitare  il  rischio  di  plurime  iniziative

 

giudiziarie da parte dellAvv. OMISSIS, che le aveva comunicato l’esito positivo delle delibere adottate dal Consiglio dellOrdine degli Avvocati di Cagliari e preannunciato  la volontà di adire l’autorità giudiziaria per ottenere il soddisfacimento del suo credito, la società Cagliari Calcio instaurava, con atto di citazione notificato in data 16 novembre 2015, la causa per l’accertamento negativo dei crediti nei confronti dello stesso avvocato innanzi al Tribunale di Cagliari.

Con comparsa di risposta depositata in data 29 febbraio 2016 si costituiva in giudizio l’Avv. OMISSIS che, avendo nelle more già esercitato le sue pretese per undici delle quaranta parcelle menzionate attraverso la proposizione dei ricorsi monitori innanzi al Tribunale di Cagliari e di uno innanzi al Giudice di Pace di Cagliari, chiedeva il rigetto della domanda ed in via riconvenzionale la liquidazione dei compensi per l’attività difensiva svolta in altri procedimenti giudiziari di cui ad altre parcelle per le quali non erano stati emessi decreti ingiuntivi.

Nel corso della trattazione, su invito del Tribunale adito, la società

 

attrice limitava la propria domanda di accertamento negativo ai soli crediti oggetto della domanda riconvenzionale dell’Avv. OMISSIS, con la conseguenza che, non rientrando tra essi i crediti oggetto dei decreti ingiuntivi contro i quali la stessa società aveva instaurato i giudizi di opposizione, non sussisteva coincidenza tra l’oggetto della causa di accertamento negativo dei crediti e quello dei giudizi di opposizione ai decreti monitori.

Il Tribunale di Cagliari, con ordinanza n. 101 del 19 aprile 2019, nel rigettare le domande della società Cagliari Calcio, accoglieva quelle del convenuto e condannava la società al pagamento di € 135.105,20, oltre accessori di legge, interessi e spese legali, a titolo di compenso in favore dellAvv. OMISSIS per le diverse attività professionali svolte, con detrazione della somma di € 34.275,22 già versata dalla società, compensando tra le parti le spese di lite in misura pari alla metà e con condanna della Cagliari Calcio alla rifusione della restante metà a favore del professionista.

  1. Per la cassazione di tale ordinanza l’Avv. OMISSIS ha proposto ricorso sulla base di quattordici motivi, illustrati da memorie.

La società Cagliari Calcio resiste con controricorso a sua volta illustrato da memorie.

Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte.

 

  1. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 2237, 1725, 1469, 1362, 1363, 1366,

1373 e 2697 c.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per

 

aver il Tribunale errato nel liquidare il compenso con riferimento all’assistenza legale stragiudiziale di cui alla convenzione per attività di consulenza e assistenza legale stragiudiziale stipulata tra la società Cagliari Calcio e l’Avv. OMISSIS in data 1° luglio 2009 e dalla quale la società ha receduto in data 24 ottobre 2014, con effetto dal 1°ottobre 2014. Il giudice di merito avrebbe erroneamente accolto la domanda riconvenzionale, sullassunto che non fosse stata provata la presenza di una manifesta volontà delle parti di addivenire ad una deroga convenzionale al potere di recesso ad nutum della società committente. In particolare, a parere del ricorrente, il Tribunale adito non avrebbe tenuto conto del fatto che la giurisprudenza di legittimità sarebbe costantemente orientata nel ritenere che l’apposizione di un termine ad un rapporto di collaborazione professionale continuativo, come nel caso di specie, sarebbe sufficiente di per sé ad escludere la facoltà di recesso ad nutum ex art. 2237, co. 1, c.c.,  senza  la  necessità  dellulteriore  indagine  in  concreto,  in

relazione alle pattuizioni convenute, della volontà delle parti di escludere il recesso tramite la previsione di un termine di durata massima del relativo rapporto.

Inoltre, secondo il ricorrente sarebbe applicabile in via analogica –

 

sulla base di un’equiparazione tra il contratto di mandato ed il contratto d’opera intellettuale - l’art. 1725 c.c. in tema di revoca del mandato oneroso, il quale prevede a carico del mandante, che recede prima della scadenza del termine o del compimento dell’affare, un’obbligazione risarcitoria.

Ulteriore errore in cui sarebbe incorso il giudice di merito secondo

 

il ricorrente sarebbe l’aver trascurato la circostanza che la convenzione prevedeva, oltre al termine di durata, anche il compenso stabilito in misura forfettaria fissa annua e non determinata in modo variabile in proporzione all’attività svolta rendendo il contratto aleatorio, con la conseguenza che il professionista avrebbe diritto di conseguire il compenso previsto per l’intera durata del rapporto anche a seguito del recesso della società.

Il motivo è infondato.

 

Tra le parti era stata conclusa una convenzione di assistenza legale stragiudiziale in data 1 luglio 2009 che prevedeva una durata di due anni, con un compenso forfetario annuale di € 30.000,00. All’articolo 5 era poi previsto che la convenzione si sarebbe rinnovata automaticamente “di volta in volta, in assenza di disdetta da comunicarsi almeno due mesi prima della scadenza”.

Ad avviso del Tribunale tale previsione non giustifica una deroga

 

alla disciplina di cui all’art. 2237 c.c., in tema di recesso ad nutum

 

da parte del committente, ed ha quindi concluso nel senso che la volontà di recedere manifestata in data 24 ottobre 2014 dalla società era pienamente efficace, e legittimava la richiesta di pagamento del compenso da parte del professionista solo per 24 giorni del mese di ottobre, compenso calcolato sulla base della somma dovuta per singolo mese in base alla convenzione, a sua volta divisa per il numero dei giorni del mese di ottobre e moltiplicata per i giorni dal 1 al 24 ottobre.

La evidente sussunzione del rapporto tra le parti nella fattispecie

 

della prestazione d’opera intellettuale denota con evidenza come sia inconferente il richiamo della difesa del ricorrente alla disciplina di cui all’art. 1725 c.c., essendo la disciplina del recesso rinvenibile nella specifica previsione di cui all’art. 2237 c.c., che consente al committente il recesso ad nutum, fatti salvi il diritto del professionista a ricevere il rimborso delle spese sostenute ed il corrispettivo per l’opera svolta (conf. Cass. n. 3707/1989, secondo cui, in tema di professioni intellettuali, non è applicabile la disposizione di cui all'art. 1725 cod. civ. secondo cui in caso di revoca del mandato oneroso, senza che ricorra una giusta causa, il mandante è obbligato al risarcimento del danno nei confronti del mandatario, poiché il recesso, in materia di incarichi professionali, è disciplinato espressamente dall'art. 2237 cod. civ., il quale, tenendo conto del particolare rapporto fiduciario che deve intercorrere tra cliente e professionista, concede al primo la facoltà di recedere unilateralmente dal contratto, restando a suo carico il solo obbligdi rimborsare  al professionista le spese sostenute ed il compenso per l'opera prestata fino al momento del recesso).

Quanto alla incidenza su tale diritto della previsione di un termine

 

di durata del rapporto, la decisione impugnata ha fatto corretto

 

riferimento alla più recente giurisprudenza di questa Corte che, a partire da Cass. n. 469/2016, ha chiarito che la previsione di un termine di durata del rapporto non esclude di per sé la facoltà di recesso "ad  nutum" previsto, a favore del cliente, dal primo comma dell'art. 2237 c.c., dovendosi accertare in concreto, in base al contenuto del regolamento negoziale, se le parti abbiano inteso o meno vincolarsi in modo da escludere la possibilità di scioglimento del contratto prima della scadenza pattuita.

In linea con tale orientamento si è posta la prevalente successiva giurisprudenza, sottolineando come la sola apposizione di un termine non deponga per la deroga alla citata norma, essendo sempre necessaria una verifica in concreto di quella che è stata l’intenzione delle parti, ancorché non sia necessaria la conclusione di un patto specifico ed espresso (Cass. n. 21904/2018; Cass. n. 25668/2018; Cass. n. 27938/2024).

La peculiare modalità di manifestazione del recesso ex art. 2237 c.c., consentito al cliente ad nutum nei confronti del professionista intellettuale, si collega proprio alla natura prettamente fiduciaria di tale rapporto (Cass., 10/1/1962, n. 10), la quale postula una costante adesione del committente alle modalità della sua attuazione (Cass., sez. 2, 17/3/1980, n. 1760, che sottolinea il carattere particolarmente fiduciario del rapporto avente ad oggetto una prestazione d’opera intellettuale sicché la facoltà di recesso del committente risulta elemento caratterizzante del rapporto; anche Corte cost., sentenza n. 25 del 1974, ha reputato che il recesso ad nutum del cliente deriva dalla circostanza che la prestazione del professionista è basata sulla fiducia e non è fungibile).

Si è anche rimarcato in dottrina che il recesso (straordinario) irretroattivo ad nutum spettante al cliente si fonda su: accentuata fiduciarietà; obbligazione potestativa ex parte creditoris; tutela del contraente “debole”. Tutti elementi che convergono a garantire l’interesse all’estinzione, rovesciando l’ordine sancito dall’art. 1372 c.c.

Una volta riconosciuta la possibilità di derogare alla previsione di

 

cui all’art. 2237 c.c., è stato altresì specificato (cfr. Cass. n. 27938/2024), che, ove tale deroga non si ravvisi, poiché in caso di recesso del cliente non spetta il mancato guadagno, ma solo il compenso per la porzione di opera svolta, il recesso del cliente, giustificato o meno, non incide sulla determinazione della misura del compenso, se non nel senso che esso è dovuto non per tutta l'opera commessa, ma solo per l'opera svolta. Sicché, anche in caso di pattuizione forfettaria del corrispettivo, correttamente la parte di esso spettante per le prestazioni rese alla data del recesso viene determinata in misura proporzionale rispetto all'intero compenso (Cass., 29/12/2020, n. 29745; di recente Cass.,  sez.  1,  26/4/2024,  n.  11264;  Cass.  n.  1375/2025,

richiamata dalla difesa del ricorrente, che però ha cassato la

 

sentenza impugnata perché il giudice di merito non aveva verificato se vi fosse stata una deroga in concreto alla norma di cui all’art. 2237 c.c.). Se quindi vi è stata tra le parti una valida determinazione convenzionale del compenso, essa - salvo che le parti stesse abbiano manifestato una volontà contraria - rimane pur sempre applicabile anche nel caso di recesso del cliente, con la sola conseguenza che il compenso pattuito per l'intera opera dovrà essere proporzionalmente ridotto in relazione all'opera prestata (Cass., sez. 3, 11/10/1973, n. 2558; di recente Cass.,


 

 

sez. 2, 9/12/2022, n.  36071,  con riferimento  al  contrattdi prestazione professionale dell’avvocato in materia stragiudiziale). Tali considerazioni escludono, quindi, al fine del riscontro circa la possibilità di rinvenire nelle previsioni negoziali una volontà di deroga  alla norma  di      cui all’art.             2237 c.c.,      che la     sola determinazione             convenzionale     di    un compenso    forfetario, correlato  all’intera  durata  prevista  del  contratto  implichi  una volontà in questa direzione.

Ritiene il Collegio che debba darsi continuità all’orientamento di Cass. n. 469/2016, e ciò alla luce delle considerazioni acutamente espresse da Cass. n. 25668/2018, che ha sottolineato come la sola previsione di un termine di durata non sia espressione inequivoca della volontà di escludere il recesso ad nutum, e ciò perché il termine normalmente vale ad assicurare al cliente che il prestatore d'opera sia  vincolato per un  certo tempo nei suoi confronti, riferendosi all'andamento ordinario del rapporto, e non alla sua fase di risoluzione. In questo senso va evidenziata la diversità strutturale e funzionale tra termine finale di efficacia del contratto e recesso fondato sulla fiduciarietà del contratto, di guisa che la sola previsione del termine biennale della convenzione e la regolamentazione delle modalità con le quali effettuare la disdetta in occasione della scadenza convenzionale non equivalgono a configurare anche una, quanto meno implicita, volontà di derogare alla facoltà di recedere ad nutum.

A supporto di tale conclusione, si consideri, in materia di appalto

 

di servizi, per il quale opera la norma di cui all’art. 1671 c.c., che del pari accorda al committente la facoltà di recedere ad nutum, quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui nessun  valido  motivo  consente  di  escludere,  per  l'appalto  di


 

 

prestazione continuativa di servizi, l'applicabilità del disposto di cui all'art. 1671 cod. civ. (dichiarazione di recesso del committente), non rilevando, in proposito, la esistenza di una clausola convenzionale che attribuisca la facoltà della disdetta al committente entro un tempo predeterminato rispetto ad ogni scadenza contrattuale (Cass. n. 8254 del 29/08/1997; conf. Cass.

n.  15335/2024,  secondo  cui  l'accordo  circa  la  durata  e  la

 

rinnovazione del rapporto non comporta deroga all'art. 1671 c.c., trattandosi  di  previsioni  tra  loro  non  incompatibili,  giacché  il rinnovo automatico, in mancanza di disdetta entro il termine pattuito, produce i suoi effetti solo sulla durata del rapporto, ma lascia   inalterata   la   facoltà   del   committente   di   recedere dal contratto in qualsiasi momento, anche in corso di esecuzione). Una volta quindi escluso che la previsione di un termine di durata della convenzione, con la regolamentazione anche delle modalità di disdetta alla scadenza, e la predeterminazione del compenso in misura forfetaria possano costituire indici univoci circa la volontà delle parti di apportare una deroga convenzionale alla previsione di cui all’art. 2237 c.c., il motivo si risolve in una critica alla interpretazione  della  volontà  delle  parti  offerta  dal  giudice  di merito, attingendosi l’esito che non si connota di per sé né come direttamente violativo delle regole di ermeneutica contrattuale né come logicamente implausibile, il che ne denota l’infondatezza.

  1. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione o falsa

 

applicazione ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. degli artt. 4,

 

7 e 8 D.M n. 55/2014 e delle tabelle 1-2 dei parametri ad esso allegate, in relazione alla liquidazione del compenso nelle cause di cui ai capi nn. 1, 2, 4, 5, 7, 8, 10-27, 29 dell’ordinanza impugnata per aver il Tribunale errato nel liquidare i compensi professionali


 

 

relativi a determinate attività. A parere del ricorrente, il Tribunale avrebbe, in primo luogo, erroneamente ritenuto che, quando pdifensori siano nominati per la stessa causa, il loro compenso vada ridotto in ragione della loro cooperazione, con conseguente arbitraria ed aprioristica diminuzione del compenso dell’Avv. OMISSIS ogni qual volta, e per il solo fatto che, abbia prestato la sua opera in collaborazione con altri difensori. Il Tribunale avrebbe in tal modo operato una valutazione qualitativa e quantitativa di merito della prestazione d’opera intellettuale, indebita ed esclusa dal D. M. n. 55/2014.

Sempre in relazione allipotesi di pdifensori il Tribunale sarebbe

 

incorso in una contraddizione perché, nel riconoscere il diritto di ciascun difensore di pretendere per certe attività (come quella di studio) il pagamento dell’intero compenso anche nel caso di più difensori, avrebbe ridotto la retribuzione del professionista per la fase di studio.

Secondil professionista,  il  giudice  di  merito  avrebbe  inoltre

 

omesso non solo di tenere conto delle condizioni oggettive del cliente, criterio da intendersi sotto il profilo delle sue disponibilità economiche ex art. 4 D.M. n. 55/2014, ma anche di considerare la presenza costante del legale presso la società ed il diretto rapporto, attraverso la partecipazione nell’organo amministrativo, e ciun segno indicativo e sostitutivo del parametro generale della quantità e del contenuto della corrispondenza che risulta necessario intrattenere con il cliente e altri soggetti ai sensi dell’art. 1 D.M. n. 55/2014 ai fini della liquidazione del compenso professionale.

Il  ricorrente  lamenta  altre che  il  Tribunale,  pur  avendo

 

dichiarato infondata l’eccezione della società Cagliari Calcio, che


 

 

sosteneva che lAvv. OMISSIS fosse un mero domiciliatario, avrebbe erroneamente liquidato somme inferiori rispetto a quelle che sarebbero state liquidate se il professionista, nel domandarne la determinazione, avesse agito a titolo di mero domiciliatario.

La somma liquidata, secondo il ricorrente, sarebbe non adeguata in quanto in violazione dei parametri generali di cui al D.M. n. 55/2014, ed in particolare per aver il Tribunale, non solo diminuito il compenso in misura maggiore rispetto alla percentuale del 50% prevista ex lege, ma anche per aver applicato unulteriore riduzione dello stesso al di fuori dei casi previsti dal comma 9, art. 4, D.M. n. 55/2014 e aver operato la liquidazione di compensi al di sotto dei minimi tabellari in violazione della relativa disciplina.

Anche tale motivo deve essere disatteso.

 

Innanzi tutto, deve ritenersi che, ancorché nel motivo si denunci indistintamente per tutte le controversie ivi indicate la violazione del DM n. 55/2014, sebbene per alcune di queste sia stata correttamente fatta applicazione delle previgenti previsioni di cui al DM n. 140/2012, l’errata indicazione della norma di riferimento non determini linammissibilità della censura, atteso che il contenuto delle previsioni tariffarie risulta nella sostanza connotato da una continuità disciplinare tra i due DDMM.

Quanto alle censure che investono la riduzione del compenso per

 

la presenza di una pluralità di difensori della società, la decisione gravata ha fatto corretta applicazione della previsione di cui all’art. 6 della legge n. 794/1942 (il cui contenuto risulta solitamente riprodotto all’interno delle varie previsioni tariffarie succedutesi  nel  tempo),  secondo  cui,  anche  in  caso  di  più


 

 

avvocati, ognuno di essi ha diritto al pagamento del compenso nei confronti del cliente, ma in relazione all’opera effettivamente prestata (cfr. ex multis Cass. n. 29822/2019; Cass. n. 22463/2010).

E’ stato altrechiarito che (Cass. n. 20554/2017), in virtù del

 

principio di cui all'art. 6 della l. n. 794 del 1942, ove più avvocati siano incaricati della difesa in un procedimento civile, ciascuno di essi ha diritto all'onorario nei confronti del cliente in base all'opera effettivamente prestata, che deve essere opportunamente dimostrata in caso di contestazioni del cliente, facendosi semplicemente salva dalla disposizione in esame la possibilità di apportare quella riduzione che fosse reputata giusta in rapporto al concorso degli altri avvocati.

Una volta che sia stato dimostrato l’effettivo apporto del singolo

 

professionista allattività difensiva svolta, resta però rimessa alla valutazione discrezionale del giudice stabilire, nei limiti consentiti dalle previsioni tariffarie, il quantum del compenso dovuto, commisurato allimpegno profuso, e secondo quanto previsto, per quanto rileva in questa sede, dagli artt. 4, co. 2, del DM n. 140/2012 e dall’art. 4, co. 1, del DM n. 55/2014.

In particolare, come previsto dall’art. 4 del DM n. 55/2014, ai fini

 

della liquidazione del compenso si tiene conto  delle caratteristiche, dell'urgenza e del pregio dell'attività prestata, dell'importanza, della natura, della difficoltà e del valore dell'affare, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate.

Quanto alla possibilità di riduzione dei compensi, mentre lart. 11

 

del DM n. 140/2012 prevede una generale possibilità di riduzione


 

 

degli stessi, senza dettare alcuna percentuale massima o minima, l’art. 4, co. 2, del DM n. 55/2014 prevede delle soglie,  ma facendo precedere tale indicazione dalla espressione “di regola”, che è scomparsa solo a seguito delle modifiche apportate nel 2018 al ricordato DM.

La giurisprudenza di questa Corte ha segnalato come tale modifica non sia priva di rilevanza, e ciò in quanto ai fini della liquidazione in sede giudiziale del compenso spettante all'avvocato nel rapporto col proprio cliente (ove ne sia mancata la determinazione consensuale), così come ai fini della liquidazione delle spese processuali a carico della parte soccombente o del compenso del difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, solo dopo le modifiche degli artt. 4, comma 1, e 12, comma 1, del d.m. n. 55 del 2014, apportate dal d.m. n. 37 del 2018, il giudice non può in nessun caso diminuire oltre il 50 per cento i valori medi di cui alle tabelle allegate (Cass. n. 10438/2023; Cass. n. 11102/2024).

Nella motivazione dei precedenti ora richiamati è stato ricordato

 

che la c.d. riforma Bersani (d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito in l. n. 248/2006), ha comportato l'abrogazione di tutte le disposizioni legislative e regolamentari che prevedevano, con riferimento alle prestazioni professionali, « l'obbligatorietà di tariffe fisse o minime », sul presupposto che tale scelta fosse imposta dalla normativa di rango comunitario, che non tollerava pun’imposizione vincolante delle tariffe professionali, essendo incompatibile con i principi comunitari di libera concorrenza e libera circolazione delle persone e dei servizi. L'art. 9, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in l. 24 marzo 2012, n. 27, ha provveduto all'abrogazione delle tariffe (comma 1), sostituendole


 

 

con i parametri (comma 2), ed a tale intervento normativo fece seguito l'emanazione della l. 31 dicembre 2012, n. 247, recante la nuova disciplina dell'ordinamento forense e dunque concernente, a differenza del d.l. n. 1/2012, soltanto gli avvocati e non anche le altre figure di professionisti, ma l'art. 13, commi 6 e 7, di tale legge riprende i parametri già introdotti per tutte le professioni intellettuali dal d.l. n. 1/2012. Nelle more dell’emanazione della legge n. 247/2012, stante l’avvenuta abrogazione delle tariffe, era stato però emanato il DM n. 140/2012, volto a fissare i nuovi criteri di determinazione dei compensi dei professionisti forensi che contiene l'esplicita affermazione del carattere sussidiario della liquidazione giudiziale del compenso rispetto all'accordo delle parti e della possibilità di ricorrere all'analogia per risolvere i casi non espressamente menzionati nel regolamento (entrambi esplicitati nell'art. 1, comma 1), nonché l'affermazione della non vincolatività delle soglie indicate per la determinazione del compenso, nelle tabelle allegate al regolamento, anche a mezzo di percentuale sia nei minimi che nei massimi.

L’art. 13 della legge n. 247/2012, per ciò che attiene alla determinazione dei compensi, al comma 6, dispone che: “I parametri indicati nel decreto emanato dal Ministro della giustizia, su proposta del CNF, ogni due anni, ai sensi dell'articolo  1, comma 3, si applicano quando all'atto dell'incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi e nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell'interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge”, ed al successivo comma 7 precisa che: “I parametri sono formulati in modo da favorire la


 

 

trasparenza nella determinazione dei compensi dovuti per le prestazioni professionali e l’unitarietà e la semplicità nella determinazione dei compensi”.

In attuazione di tale norma è stato poi emesso il DM 10 marzo

 

2014, n. 55, che ha sostituito integralmente, per gli esercenti la professione forense, sia la parte generale che quella che era loro specificamente dedicata (artt. 2 – 14) del DM 20 luglio 2012 n.

140.

 

La novella, pur avendo lasciato immutato il criterio di liquidazione, per le quattro fasi processuali distinte già individuate, secondo una ripartizione valida per tutti gli organi giurisdizionali davanti ai quali venga svolta l'attività, e onnicomprensive, ha però nella sostanza confermato la possibilità di deroga ai valori minimi e massimi, quali scaturenti dalle percentuali di aumento e diminuzione massimi che il giudice può apportare ai valori medi, essendo stato valorizzato l'utilizzo dell'inciso “di regolaper indicare l'entità dell'aumento o della diminuzione, in quanto volto a sottendere come tali indicazioni non sono vincolanti per il giudice che può quindi anche discostarsi da esse nella misura che ritenga adeguata al caso specifico, purché ne dia conto in motivazione. A conforto di tale  conclusione si pone anche la relazione illustrativa al DM n. 55/2014 che chiarisce tale aspetto laddove, nella parte dedicata ad illustrare la proposta del CNF, (par. b), affermando che il predetto inciso, così come l'avverbio “orientativamente”, erano stati introdotti al fine di sottolineare la non vincolatività dei parametri, in linea di continuità con quanto disposto dall'art. 1, comma 7, del DM n. 140/2012. La successiva giurisprudenza di legittimità ha avallato tale lettura della norma, essendo  pervenuta  reiteratamente  ad  affermare  che,  nella


 

 

vigenza delle previsioni di cui al DM n. 55/2014, l'esercizio del potere discrezionale del  giudice, contenuto tra il minimo e il massimo dei parametri previsti, non è soggetto al controllo di legittimità, attenendo pur sempre a parametri indicati tabellarmente, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo in tal caso necessario che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di esso (Cass. n. 14198 del 05/05/2022; Cass. n. 19989 del 13/07/2021; Cass. n. 89 del 07/01/2021, Cass. n. 2386 del

31/01/2017; Cass. n. 11601 del 14/05/2018).

 

Resta però in ogni caso precluso al giudice di poter liquidare, al netto degli esborsi, somme praticamente simboliche, non consone al decoro della professione» (cfr. ex plurimis Cass. civ., 31 gennaio 2017, n. 2386; Cass. civ., 31 luglio 2018, n. 20183;

contra, Cass. civ., 17 gennaio 2018, n. 1018 e Cass. civ., 5

 

novembre 2018, n. 28267).

 

Poste tali coordinate ermeneutiche, le censure del ricorrente appaiono prive di fondamento.

La decisione impugnata, in relazione a tutte le controversie in

 

relazione alle quali è formulato il motivo, ha valutato in concreto l’apporto fornito dal ricorrente nella complessiva attività difensiva, rimarcando come in molti casi la strategia difensiva e le relative scelte fossero state operate essenzialmente da altri difensori, non potendosi però disconoscere il ruolo di difensore anche per il ricorrente, per avere apposto la sottoscrizione agli scritti difensivi, assumendone la paternità, anche ai fini dell’assunzione della responsabilità.


 

 

Deve, pertanto, reputarsi che si sia tenuto conto proprio di quanto previsto dall’art. 6 della legge n. 794/1942, determinando il compenso sulla base della valutazione in fatto circa l’effettivo apporto arrecato dal ricorrente all’attività difensiva complessivamente svolta nell’interesse della cliente, individuando quindi, alla luce dei criteri dettati per la quantificazione, l’importo da riconoscere al professionista in relazione alle varie fasi nelle quali aveva svolto la sua attività, ed operando delle riduzioni in ragione della diversificazione delle attività svolte.

Si tratta di una valutazione dellimpegno professionale dell’avv.

 

OMISSIS che risulta imposta proprio dal dettato delle norme sopra richiamate, e che implica evidentemente una valutazione anche qualitativa e quantitativa delle prestazioni effettuate, valutazione doverosa ed evidentemente rimessa al giudice di merito, senza che possa reputarsi che si tratti di valutazione preclusa a colui cui sia richiesto di procedere alla liquidazione in via giudiziale. Piuttosto,  le  norme  indicate  impongono  al  giudice  di  dovere considerare, oltre che in via generale il pregio e la quantità delle prestazioni offerte, anche la loro incidenza e rilevanza nel caso, qui ricorrente, di attività svolta da una pluralità di difensori, al fine di addivenire, come sopra ricordato, a quelle riduzioni rispetto allo standard tariffario che si giustificano anche in ragione del diversificato              impegno           dei             difensori                     impegnati nella difesa congiunta.

In  disparte  la  non  condivisibilità  del  richiamo  alle  condizioni

 

oggettive del cliente (riferendosi l’art. 4 del DM n. 55 del 2014 a quelle soggettive), e la possibilità di includere in queste anche il riferimento alla situazione patrimoniale del cliente, deve ritenersi che però in ogni caso si tratti di un elemento che concorre,


 

 

insieme agli altri dettati dalla norma, nella formazione del convincimento del giudice in ordine alla individuazione del quantum da liquidare, ma senza che allo stesso possa attribuirsi carattere prevalente, ben potendo risultare recessivo, ove si reputi di dover valorizzare altri tra i criteri ivi indicati.

Ne consegue che lamentare l’omessa valutazione di siffatta circostanza, così come quello della corrispondenza intrattenuta con la cliente, costituisce una critica che involge apprezzamenti rimessi alla discrezionalità del giudice di merito, che sfuggono, ove sia adeguatamente motivata la fissazione del quantum, al sindacato di legittimità.

Quanto    alla    determinazione    dei    compensi    in    misura

 

quantitativamente corrispondente a quella prevista per il domiciliatario, e ciò per effetto di una riduzione in misura percentuale superiore a quella prevista dalle previsioni tariffarie, in disparte l’inconferenza della critica rispetto alle liquidazioni avvenute sotto il vigore del DM n. 140/2012, che rimetteva alla libera valutazione del giudice la quantificazione del dovuto, valga il richiamo alla non vincolatività delle dette percentuali nella vigenza del testo originario del DM n. 55/2014, che con lutilizzo dell’espressione “di regola”, come sopra richiamato, lasciava margine al giudice di poter anche operare riduzioni in misura maggiore di quella indicata, e quindi anche per l’attività del domiciliatario.

Del  tutto  inconferente  appare  poi  il  richiamo  alla  diversa

 

previsione di cui al co. 9 dell’art. 4 del DM n. 55/2014, che concerne una previsione chiaramente dettata in termini sanzionatori nei confronti del professionista e che assicura una facoltà di riduzione del compenso altrimenti liquidabile, mirando


 

 

appunto a penalizzare il negligente svolgimento della prestazione professionale.

Infine, avuto riguardo all’entità delle somme in concreto liquidate, deve altresì escludersi che vi sia stato il riconoscimento di somme simboliche e comunque non consone al decoro della professione.

  1. Il terzo motivo  di  ricorso  denuncia  la  violazione  o  falsa

 

applicazione, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., dellart. 112

 

c.p.c. in relazione alla liquidazione del compenso nelle cause di cui ai capi nn. 1, 2, 4, 5, 7, 8, 10-27, 29 dell’ordinanza impugnata per aver il Tribunale effettuato unautomatica ed aprioristica riduzione dell’onorario ogni qual volta il professionista era incaricato con altri difensori in assenza di alcuna distinzione, da parte della società, del trattamento retributivo a seconda della misura di partecipazione. In merito alla misura di partecipazione dell’Avv. OMISSIS il Tribunale avrebbe ritenuto decisiva una parte della corrispondenza intervenuta tra le parti – prendendo altresì in considerazione solo quella a lui sfavorevole – senza considerare altre comunicazioni che lo stesso avrebbe potuto fornire quale prova favorevole  se la questione fosse stata oggetto di contraddittorio.

Il motivo è infondato.

 

In caso di domanda di liquidazione dei compensi, al giudice compete la disamina di tutti gli elementi e le circostanze che, in base alle disposizioni normative applicabili, possano incidere sulla concreta determinazione del compenso dovuto, il che già esclude che fosse precluso al Tribunale di verificare, ed attribuire il giusto rilievo, al grado ed al livello di partecipazione dell’OMISSIS alla difesa affidata dalla società a più difensori.


 

 

Peraltro, la stessa società aveva inteso sin dall’inizio sminuire il ruolo del ricorrente, assumendo che lo stesso avesse in realtà svolto la funzione di mero domiciliatario, essendo stata svolta l’intera attività difensiva, intesa quale ideazione della strategia e formazione degli atti difensivi, da parte di altri difensori.

A fronte di tale linea difensiva, era quindi compito del giudice quello di verificare se il ruolo del ricorrente fosse quello di effettivo concorrente nell’adozione delle scelte processuali ovvero di mero domiciliatario, così che l’avere preso in esame ai fini della liquidazione del compenso, la presenza di altri difensori rientra nelle verifiche che erano sollecitate al giudice di merito, dovendosi escludersi la violazione dell’art. 112 c.p.c. nonché del principio del contraddittorio.

Infatti, proprio la deduzione difensiva della società sollecitava il

 

ricorrente a fornire la dimostrazione dell’entità del proprio effettivo apporto alla difesa della controparte, il che rende palese altresì l’infondatezza della deduzione circa la menomazione del diritto alla prova, scaturente dall’essere stata esaminata una questione senza la previa instaurazione del contraddittorio.

Infine, del tutto generica si palesa la doglianza quanto allomessa

 

valutazione delle prove contrarie addotte dall’attore, risultando invece inammissibile la censura quanto alla omessa considerazione di alcune delle prove documentali offerte dal ricorrente, non essendo dato denunciare, ove i fatti storici siano stati comunque presi in esame, che alcune prove siano state reputati di minore importanza rispetto a quelle invece ritenute idonee a formare il convincimento del giudice (cfr. Cass. S.U. n. 8054/2014).


 

 

  1. Il quarto motivo di ricorso denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in relazione allart. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., in ordine alla dedotta prova testimoniale sulla partecipazione dell’avvocato a tutte le attività per cui chiedeva la liquidazione del compenso, ed in particolare in relazione alle cause di cui ai capi nn.1, 2, 4, 5, 7, 8, 10-27, 29 dell’ordinanza impugnata.

Il  quinto  motivo  di  ricorso  denuncia  la  violazione  o  falsa

 

applicazione dell’art. 187, co. 1, c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., in merito alla non necessità di assunzione dei mezzi di prova testimoniale sulla partecipazione dell’avvocato a tutte le attività processuali per cui chiedeva la liquidazione del compenso. In particolare, a parere del ricorrente, il Tribunale non avrebbe, da un lato, considerato in modo adeguato la presenza di documenti che provavano l’attività professionale effettivamente prestata dallo stesso ricorrente unitamente ad altro professionista e non ammesso, in quanto ritenuti irrilevanti, i mezzi di prova testimoniali dedotti, e, dall’altro lato, avrebbe erroneamente affermato che l’Avv. OMISSIS non aveva fornito la prova del proprio contributo alla redazione degli atti.

I motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione,

 

sono privi di fondamento.

 

Anche a voler sorvolare sulla genericità della formulazione dei capitoli di prova, rileva il Collegio che non risulta allegato che le richieste istruttorie, non ammesse dal Tribunale nel corso del giudizio, siano state poi oggetto di specifica reiterazione in sede di precisazione delle conclusioni, dovendo reputarsi che tale omissione ne determini un’implicita rinuncia (né deve trascurarsi il fatto che, come evidenziato dalla difesa della società, la richiesta di ammissione della prova da parte del ricorrente era


 

 

stata avanzata per l’ipotesi in cui il Tribunale avesse ritenuto di ammettere la prova per testi della società, trattandosi quindi di sollecitazione evidentemente condizionata ad un’eventualità poi non verificatasi).

  1. Il sesto motivo  di  ricorso  denuncia  la  violazione  o  falsa

 

applicazione, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., dell’art. 4

 

D.M. n. 55/2014 e delle tabelle 1-2 dei parametri ad esso allegate, in relazione alla liquidazione del compenso relativo alla causa di cui al capo n. 5 dell’ordinanza impugnata per aver il Tribunale erroneamente ridotto del 30% il compenso liquidato al legale per la fase di studio, in considerazione della sua costituzione in giudizio al termine dell’istruttoria.

A parere del ricorrente, il giudice di merito avrebbe inoltre erroneamente applicato l’aumento del compenso alle varie fasi processuali, anziché alla liquidazione globale al termine del processo di liquidazione nei limiti del 10% invece che del 20% per ciascuna parte oltre la prima.

Anche tale motivo deve essere disatteso.

 

Quanto alla prima violazione dedotta, si osserva che la stessa investe anche in questo caso un apprezzamento riservato al giudice di merito, circa l’esercizio del potere di individuazione del quantum, sulla base della concreta valutazione della qualità e quantità delle prestazioni rese, potere che appare insindacabile ove congruamente e logicamente motivato.

Nella specie, la riduzione del compenso per l’attività di studio, in

 

ragione dello stato avanzato del processo al momento in cui è avvenuta la costituzione in giudizio dell’avv. OMISSIS, non può reputarsi priva di logica giustificazione, e ciò in considerazione del fatto che anche lo studio della controversia del quale è onerato il


 

 

nuovo difensore non può non tenere conto della fase in cui versa il processo, e del fatto che, in ragione dell’esaurimento dell’istruttoria, al nuovo difensore era verosimilmente richiesta una minore attenzione in ordine alla strategia da adottare per la migliore tutela del cliente per ciò che riguarda appunto l’individuazione delle più opportune richieste istruttorie.

In relazione alla seconda violazione deve rilevarsi che la tesi del

 

ricorrente, secondo, cui una volta riconosciuto l’aumento per la difesa della società contro pparti, l’aumento non poteva essere attribuito che nella percentuale del 20 % (in luogo del 10% invece in concreto liquidato), contrasta ancora una volta con il dettato letterale dell’art. 4, co. 2, del DM n. 55/2014 nel quale l’espressione “di regola” sorregge sia la scelta di riconoscere l’aumento per la difesa plurima sul lato passivo (cfr. Cass. n. 13595/2021; Cass. n. 269/2017, secondo cui la disposizione di cui all'art. 4, comma 2, della tariffa professionale approvata con

d.m.  Giustizia  n.  55  del  2014,  che  consente,  nell'ipotesi  di

 

assistenza e difesa di una parte nei confronti più controparti, la liquidazione di un compenso unico aumentato sino al doppio, prevede una mera facoltà rientrante nel potere discrezionale del giudice, il cui mancato esercizio, ove motivato, non è denunciabile in sede di legittimità) sia l’individuazione della percentuale reputata congrua a tal fine, essendo quindi rimessa alla valutazione discrezionale del giudice anche la possibilità di scendere al di sotto della percentuale, in questo caso, suggerita dalla norma.

  1. Il settimo motivo di ricorso denuncia la violazione o  falsa

 

applicazione, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., dell’art. 4

 

D.M. n. 55/2014 e delle tabelle 1-2 dei parametri ad esso allegate


 

 

per aver il Tribunale, nella liquidazione del compenso relativo alla causa di cui al capo n. 7 dell’ordinanza impugnata, omesso di considerare il valore della domanda riconvenzionale. Il Tribunale non avrebbe correttamente applicato il principio per cui nella liquidazione dei compensi a carico del cliente si ha riguardo al valore corrispondente all’entità della domanda.

Il  motivo  è  infondato,  avendo  il  Tribunale,  nel  rispetto  del

 

principio dettato dall’art. 112 c.p.c., liquidato i compensi in conformità delle indicazioni di valore della controversia offerte dal ricorrente, che ha inteso contenerlo in relazione al contenuto della domanda proposta nei confronti della cliente, senza quindi tenere conto del diverso ammontare della domanda riconvenzionale avanzata in quel giudizio.

  1. L’ottavo motivo di  ricorso  denuncia  la  violazione  o  falsa

 

applicazione, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., dell’art. 4

 

D.M. n. 55/2014 e delle tabelle 1-2 dei parametri ad esso allegate in relazione alla liquidazione del compenso per la fase di studio relativo alle cause nn. 8, 10, 15 di cui all’ordinanza impugnata, per aver il Tribunale erroneamente ridotto l’onorario in percentuale dal 30% al 50% in ragione del subentro nella causa quando la stessa era stata pressoché integralmente istruita. A parere del ricorrente non vi sarebbe alcun legame tra la prestazione in termini di studio e lo stato di avanzamento della causa, per cui non sarebbe legittima alcuna modulazione al ribasso dell’onorario che assuma a suo fondamento la circostanza che la costituzione del difensore avvenga in una determinata fase del giudizio iniziato.


 

 

Il motivo è infondato, potendosi far richiamo a quanto sopra esposto in relazione all’analoga censura di cui al sesto motivo di ricorso.

  1. Il nono motivo di ricorso  denuncia  la  violazione  o  falsa

 

applicazione, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., degli artt. 4 e 20 D.M. n. 55/2014 e delle tabelle 1-2 dei parametri ad esso allegate, in relazione alla liquidazione del compenso relativo alle cause nn. 12 e 13 di cui all’ordinanza impugnata per aver il Tribunale erroneamente negato il diritto al compenso relativo alla transazione stragiudiziale con cui si sono definite le suddette cause e per non aver, conseguentemente, riconosciuto quanto dovuto per la fase decisionale aumentato di un quarto.

Il motivo è infondato.

 

La decisione impugnata ha, con accertamento in fatto, ritenuto che la conciliazione fosse da attribuire al contributo causale di altro professionista, escludendo che nella stessa avesse giocato un ruolo attivo il ricorrente .

La    censura    si    risolve    in    una    generica    contestazione

 

dell’accertamento operato dal Tribunale ma soprattutto non tiene conto della discrezionalità che l’art. 4, co. 6, del DM n. 55/2014 accorda al giudice quanto al riconoscimento del compenso aggiuntivo invocato, il cui esercizio in negativo ben si legittima proprio in ragione dell’assente o estremamente limitato apporto causale alla definizione stragiudiziale.

  1. Il decimo motivo di ricorso denuncia la violazione e  falsa

 

applicazione, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., degli artt. 4

 

D.M. n. 55/2014 e delle tabelle 1-2 dei parametri ad esso allegate, in relazione alla liquidazione del compenso relativo alla causa  n.  13  di  cui  all’ordinanza  impugnata  per  non  aver  il


 

 

Tribunale adito liquidato autonomamente l’attività svolta dal professionista nella fase di mediazione obbligatoria disposta dallo stesso Tribunale e per aver riconosciuto l’aumento, possibile in caso di assistenza di più soggetti aventi la stessa posizione processuale, nei limiti del 10% anziché del 20% per ciascuna parte oltre la prima non essendo le parti pdi dieci.

Il motivo va rigettato.

 

Quanto alla percentuale di aumento correlato alla difesa contro più soggetti, si rinvia a quanto esposto in occasione della disamina del sesto motivo di ricorso, dovendosi trarre quindi la conseguenza della insussistenza della dedotta violazione delle tariffe.

Quanto invece al compenso per la mediazione obbligatoria, la decisione ha correttamente evidenziato come il parametro di cui al n. 25 bis della tabella allegata al DM n. 55/2014 non sia suscettibile  di  trovare  applicazione  ratione  temporis,  essendo stato introdotto solo con il DM n. 37/2018, in epoca successiva cioè all’esaurimento dell’attività professionale dell’OMISSIS. Tuttavia, anche per tale voce, l’art. 20 del DM n. 55/2014 utilizza l’espressione “di regola”, che evidentemente evoca l’esercizio di un potere discrezionale, e che non consente di sostenere che il solo svolgimento dell’attività di per sé imponga la liquidazione del compenso, avuto riguardo anche al fatto che la norma prevede altresì              che                 l’attività stragiudiziale            debba              avere              autonoma rilevanza.

La decisione gravata ha in tal senso sottolineato che la mediazione era stata imposta dal giudice, allorché aveva riscontrato la sua colpevole omissione, onde ottemperare al rispetto della condizione di procedibilità. E’ stato quindi accertato,


 

 

anche in ragione della mancata partecipazione all’incontro di mediazione delle controparti, che lattività in questione ha rappresentato una mera appendice della fase introduttiva del giudizio, negandosi quindi quel carattere di autonoma rilevanza che è il presupposto per la liquidazione del relativo compenso.

  1. L’undicesimo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., dell’art. 2504-bis, co. 1, c.c. in relazione alla liquidazione del compenso relativo alla causa n. 28 di cui all’ordinanza impugnata per non aver il giudice di merito tenuto conto della intervenuta fusione per incorporazione della Società Generali Servizi s.r.l. nella società Cagliari Calcio, essendo pertanto quest’ultima tenuta a far fronte alle obbligazioni dell’incorporata. In particolare, il ricorrente avrebbe correttamente formulato la richiesta di pagamento  a titolo di compenso professionale e indirizzato la relativa domanda giudiziale alla società Cagliari Calcio.

Il Tribunale, pur dando atto della corretta quantificazione dei

 

compensi da parte del professionista, ha però ritenuto fondata l’eccezione di difetto di titolarità passiva del rapporto sollevata dalla società, che aveva evidenziato che l’attività difensiva era stata prestata in favore della SSG S.r.l.

Il  ricorrente  invece  sostiene  che  detta  società  sarebbe  stata

 

incorporata attraverso la fusione per incorporazione dalla controricorrente, così che per effetto di tale vicenda, quest’ultima risponde anche delle obbligazioni contratte dalla società incorporata.

Il motivo è inammissibile in quanto pone una questione nuova

 

(quella del subentro della società a quella in origine assistita), che non era mai stata dedotta in sede di merito e che, sia pure


 

 

tramite la visione di documenti, presuppone accertamenti di fatto preclusi in questa sede.

  1. Il dodicesimo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per aver il Tribunale adito erroneamente dichiarato estinto il debito della Cagliari Calcio di € 34.275, sul presupposto che l’Avv. OMISSIS non ha contestato la circostanza di aver ricevuto il relativo pagamento. In particolare, il giudice di merito avrebbe fatto errata applicazione del principio della non contestazione in quanto la società non avrebbe indicato in maniera specifica quali delle pretese creditorie avanzate dal professionista sarebbero state estinte con l’asserito pagamento - meramente allegato e non provato - contrariamente a quanto richiesto dall’art. 115 c.p.c., per cui l’allegazione deve essere specifica e non generica.

Assume il ricorrente che se è vero che la somma indicata era stata effettivamente percepita (e ciò in ragione dei plurimi rapporti professionali che avevano interessato le parti nel corso negli anni, ulteriori rispetto a quelli per i quali verte il presente giudizio), non aveva mai ammesso che si trattasse di acconti riferiti ai crediti qui azionati, e di converso era specifico onere della società quello di allegare in maniera specifica a quali precisi diritti di credito si riferisse il versamento della detta somma.

Il motivo è fondato.

 

La giurisprudenza di questa Corte ha anche di recente affermato che, in presenza di una pluralità di rapporti obbligatori, se il debitore non si avvale della facoltà di dichiarare quale debito intenda soddisfare, la scelta spetta, ex art. 1195 c.c., al creditore, il quale può dichiarare di imputare il pagamento ad uno o p


 

 

debiti determinati, mentre i criteri legali ex art. 1193, comma 2, c.c., che hanno carattere suppletivo e sussidiario, subentrano soltanto quando l'imputazione non è effettuata né dal debitore, né dal creditore, fermo restando che l'onere di provare le condizioni che giustificano una diversa imputazione grava sul creditore (Cass. n. 31837 del 27/10/2022).

Pertanto, quando il debitore abbia dimostrato di avere corrisposto

 

somme idonee ad estinguere il debito per il quale sia stato convenuto in giudizio, spetta al creditore - attore, che pretende di imputare il pagamento ad estinzione di altro credito, provare le condizioni necessarie per la dedotta, diversa, imputazione,  ai sensi dell'art. 1193 c.c. (Cass. n. 450 del 14/01/2020).

Tuttavia, tale principio è destinato ad operare solo nel caso in cui il pagamento risulti specificamente riferibile ad uno specifico credito, ed in particolare a quello dedotto in giudizio.

E’ stato, infatti precisato che il creditore che agisce per il pagamento di un suo credito è tenuto unicamente a fornire la prova del rapporto o del titolo dal quale deriva il suo diritto e non anche a provare il mancato pagamento, poiché il pagamento integra un fatto estintivo, la cui prova incombe al debitore che l'eccepisca. Ne consegue che soltanto di fronte alla comprovata esistenza di un pagamento avente efficacia estintiva (cipuntualmente eseguito con riferimento ad un determinato credito) l'onere della prova viene nuovamente a gravare sul creditore, il quale controdeduca che il pagamento deve imputarsi ad un credito diverso o più antico (Cass. n. 19039 del 16/07/2019; Cass. n. 3902/1977; Cass. n. 1041/1998; Cass. n. 1571/2000; Cass. n. 14741/2006).


 

 

Con specifico riferimento al credito professionale dell’avvocato è stato poi precisato che qualora un avvocato agisca per il soddisfacimento di un determinato credito riferito a specifiche prestazioni professionali ed il cliente eccepisca di avere corrisposto nel tempo una somma maggiore rispetto a quella richiesta, riferendola indistintamente a tutte le pratiche curate dal legale nel suo interesse, l'onere del debitore di dimostrare l'efficacia estintiva del versamento non può ritenersi assolto in base al rilievo che il difensore non abbia contestato la ricezione di tale somma, deducendo semplicemente l'incongruenza fra l'ammontare indicato nella domanda e quello oggetto dell'eccezione. Infatti, ove la relazione fra la pretesa e l'adempimento non emerga "ex se" dalla corrispondenza degli importi o da altre circostanze idonee, anche sul piano presuntivo, a circoscrivere l'efficacia estintiva del pagamento, il debitore non può limitarsi a sostenere genericamente la natura omnicomprensiva del pagamento stesso (Cass. n. 28779 del 09/11/2018; Cass. n. 27597/2024).

Perciò soltanto di fronte alla comprovata esistenza di un pagamento avente efficacia estintiva (cioè puntualmente eseguito con riferimento ad un determinato credito) l'onere della prova viene nuovamente a gravare sul creditore, il quale controdeduca che il pagamento deve imputarsi ad un credito diverso o più antico (Cass. n. 20288/2011; Cass. n. 205/2007).

Nella fattispecie non è in contestazione che tra il ricorrente e la

 

controricorrente vi siano stati plurimi rapporti professionali, sviluppatisi nel corso del tempo.


 

 

La difesa della cliente è consistita nel sostenere che nel corso del tempo aveva versato la somma indicata, la cui ricezione non è effettivamente contestata da parte dellOMISSIS.

Va qui ricordato che colui che agisce per il pagamento di un

 

proprio credito assolve l'onere probatorio a suo carico con la dimostrazione del rapporto o del titolo su cui è fondata la pretesa fatta valere in giudizio, e non è tenuto a provare anche che il debitore non abbia pagato, costituendo il pagamento un fatto estintivo la cui prova incombe al debitore che lo eccepisce. Tale prova, peraltro, per poter validamente contrastare la dimostrazione del credito data dalla controparte, deve avere carattere certo e determinato, con specifico riferimento al rapporto o titolo dedotto in giudizio, giacché ogni incertezza o ambiguità non può che risolversi - atteso l'onere imposto dalla norma - in danno del debitore (Cass. n. 3020/1980). In applicazione di tale principio questa Suprema Corte ha affermato che «ove il datore di lavoro imputi erroneamente ad una determinata voce della retribuzione complessiva una somma superiore a quella effettivamente dovuta, l'eccedenza può essere validamente imputata ad altra voce della retribuzione non corrisposta integralmente; quando tuttavia il lavoratore contesti, sia pure in forma generica, la causale delle somme a lui corrisposte, è onere del datore di lavoro comprovare l'avvenuto pagamento con specifico riferimento a ciascuna voce della retribuzione dedotta in giudizio» (Cass n. 7278/1991). Analogamente, se un avvocato agisce contro il cliente per il pagamento di un determinato credito, riferito a ben determinate prestazioni, e il cliente eccepisce di avere pagato nel corso del tempo una somma di molto maggiore rispetto a quella richiesta,


 

 

riferita indistintamente a tutte le pratiche curate dal legale nel suo interesse, l'onere del debitore di dimostrare l'efficacia estintiva del pagamento non può ritenersi assolto in base al rilievo che l'avvocato non abbia specificamente contestato la ricezione della somma, ma si sia limitato a dedurre l'incongruenza fra l'importo oggetto della domanda e quello oggetto di eccezione. Insomma, quando la relazione fra la pretesa e il pagamento non emerga ex se dalla corrispondenza degli importi o da altre circostanze idonee, anche sul piano presuntivo, a circoscrivere l'efficacia estintiva del pagamento entro un ben delimitato ambito, il debitore non può limitarsi a postulare genericamente la «natura omnicomprensiva» del pagamento.

Nella specie, l’ordinanza gravata non si è attenuta a tali principi, avendo imputato la somma versata ai crediti oggetto di causa, senza però riscontrare la riferibilità dei pagamenti proprio ai compensi azionati in questa sede.

In accoglimento di tale censura l’ordinanza impugnata va cassata

 

ed il giudice di rinvio dovrà rivalutare se il pagamento operato sia riferibile con specificità proprio alle pretese oggetto del presente giudizio.

  1. Il tredicesimo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa

 

applicazione dell’art. 1284, co. 4, c.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per aver il Tribunale erroneamente individuato il dies a quo di decorrenza degli interessi sulle somme liquidate nella data dell’ordinanza gravata, anziché nella data della domanda riconvenzionale. Le decisioni giurisprudenziali richiamate dal giudice di merito sarebbero, a parere del ricorrente, inconferenti in quanto non attuali per essere le stesse anteriori all’entrata in vigore della normativa sugli interessi.


 

 

Il motivo è fondato.

 

Questa Corte,    risolvendun   contrasto   insorto   nella           propria giurisprudenza, nei suoi più recenti arresti ha affermato che, nel caso di richiesta avente ad oggetto il pagamento di compensi per prestazioni  professionali     rese  dall'esercente la             professione forense, gli interessi di cui all'art. 1224 c.c. competono a far data dalla messa in mora (coincidente con la data della proposizione della domanda giudiziale ovvero con la richiesta stragiudiziale di adempimento),       e non           anche     dalla      successiva      data    in  cui intervenga la liquidazione da parte del giudice, eventualmente all'esito del procedimento sommario di cui all'art. 14 del D. Lgs. n. 150/2011,  non  potendosi    escludere   la  mora  sol  perché la liquidazione sia stata effettuata dal giudice in misura inferiore rispetto a quanto richiesto dal creditore (Cass. n. 24973/2022; Cass.  n.        17122/2022;    Cass.     n.           26748/2023;          Cass. n. 20049/2024). Tale principio era stato ancor prima precisato da Cass. n. 8611/2022 che aveva altreribadito l’applicabilità della decorrenza dalla domanda, anche nel caso in cui, come nella fattispecie,  si  ritengano  dovuto  gli  interessi  di  cui  al  quarto comma dell’art. 1284 c.c. (avendo l’ordinanza impugnata fatto espresso riferimento a tale previsione, senza che sul punto sia stata mossa censura da parte della società controricorrente) L’ordinanza impugnata va pertanto cassata anche in relazione al motivo  in   esame,  dovendo il    giudice del rinvio             provvedere all’attribuzione degli interessi, al tasso ora indicato, a far data dalla proposizione della domanda riconvenzionale del ricorrente.

  1. Il quattordicesimo motivo di ricorso denuncia la violazione o

 

falsa  applicazione,  ai  sensi  dell’art.  360,  co.  1,  n.  3,  c.p.c., dell’art. 4 D.M. n. 55/2014 e delle tabelle 1-2 dei parametri ad


 

 

esso allegate per aver il Tribunale erroneamente statuito sulle spese di lite. In particolare, il giudice di merito non avrebbe fornito un percorso motivazionale dal quale si potesse desumere il criterio utilizzato per la quantificazione delle spese di giudizio. Attesa la cassazione della decisione gravata per i motivi accolti, e dovendo il giudice di rinvio provvedere all’autonoma rivalutazione della vicenda anche ai fini del carico delle spese di lite, il motivo resta assorbito.

16. Il giudice di rinvio, che si designa nel Tribunale di Cagliari, in diversa composizione, provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

 

PQM

La Corte accoglie il dodicesimo ed il tredicesimo motivo di ricorso, nei limiti di cui in motivazione, dichiara assorbito il quattordicesimo motivo e rigetta i restanti motivi; cassa l’ordinanza impugnata in relazione ai motivi accolti, con rinvio al Tribunale di Cagliari, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda

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