CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – SEZIONE TERZA, ORDINANZA del 10/03/2025 n. 6379
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA
Presidente: SCRIMA ANTONIETTA
Relatore: CRICENTI GIUSEPPE
– OMISSIS –
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 18218/2023 R.G. proposto da:
OMISSIS, domiciliato in Roma, Via Premuda n° 1/a, presso lo studio dell’Avv. Gabriele Bordoni del Foro di Roma, C.F. BRD GRL 64L28 A944X, p.e.c. avvgabrielebordoni@legalmail.it, che lo rappresenta e difende
contro
-ricorrente-
OMISSIS, elettivamente domiciliato in ROMA VIA G. G. BELLI 96, presso lo studio dell’avvocato GENTILE GIAN MICHELE (GNTGMC42B23H501E) che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato GENTILE MARCO (GNTMRC79B26H501X),
domiciliazione digitale come in atti
-controricorrente-
avverso la SENTENZA di CORTE D'APPELLO PERUGIA n. 474/2023
depositata in data 11/07/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 9/01/2025 dal Consigliere GIUSEPPE CRICENTI.
Fatti di causa
1.- Nel corso di una trasmissione televisiva, dedicata al calcio, l’ex calciatore OMISSIS ebbe a dire che un certo giocatore era stato pagato dalla società sportiva Lazio in eccesso rispetto al suo valore, provocando la reazione del presidente di quella società, OMISSIS, che ebbe a replicare nei seguenti termini: <<scusi OMISSIS lei dice cose totalmente false”, “la Lazio è una società quotata, lei OMISSIS non sa neanche cosa vuol dire società quotata, glielo spiego io”, “OMISSIS lei pensi a fare il giocatore e non a parlare di analisi economiche, visto che non è informato e non sa quello che dice”, “lei riceverà una denuncia grave perché dichiara una cosa falsa pubblicamente …lei lunedì mattina riceverà una citazione compresa di danni perché dichiara che la Lazio ha pagato OMISSIS 37 milioni di euro ed è un falso. E le chiederò conto di questo nelle sedi opportune perché sta creando un danno ad una società quotata”>>.
2.- OMISSIS ha ritenuto offensive queste espressioni e ha sporto
querela.
Il giudizio penale si è concluso con una sentenza con cui la Corte di Appello di Perugia ha qualificato il fatto come reato di ingiuria e non di diffamazione ed ha assolto l’imputato per l’intervenuta depenalizzazione (ad opera della legge n. 7 del 2016).
3.- Passata in giudicato questa sentenza, ne è seguita una causa civile, nella quale il Tribunale di Terni ha avuto modo di sostenere che, poiché non si era trattato di una assoluzione in fatto, ma della accertata depenalizzazione del reato, il fatto di ingiuria doveva ritenersi ormai accertato definitivamente, con efficacia di giudicato anche nel processo civile, ed ha dunque condannato il OMISSIS a trentamila euro di risarcimento del danno.
4.- Questa decisione è stata però riformata dalla Corte di Appello di Perugia, sul presupposto che il giudicato penale fosse di assoluzione (perché non più previsto il fatto come reato) e che dunque era dovere del giudice civile di procedere ad un accertamento autonomo dei fatti, accertamento che la Corte di Appello ha condotto, escludendo la natura offensiva delle frasi pronunciate dal OMISSIS.
5.- Contro questa decisione ricorre con un motivo di censura OMISSIS. OMISSIS si è costituito con controricorso. Entrambi hanno depositato memorie.
Ragioni della decisione.
1.- Con l’unico motivo di ricorso si prospetta una violazione
dell’articolo 2909 c.c.
La tesi del ricorrente è la seguente.
La sentenza penale, che ha qualificato il fatto come ingiuria, implicitamente ha accertato il fatto: ha cioè ritenuto che il fatto era stato commesso e che corrispondeva ad una fattispecie di ingiuria, salva la depenalizzazione nel frattempo intervenuta. Per cui, ha, si, assolto l’imputato perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, ma quel fatto ha, per forza di cose, ritenuto comunque sussistente. E tale accertamento- che il fatto sussisteva- è passato in giudicato, e, in quanto giudicato, avrebbe dovuto vincolare il giudice civile, il quale invece ha ritenuto di procedere ad un esame autonomo della vicenda, ai fini civilistici, escludendo la illiceità del fatto stesso.
Inoltre, a dispetto di quanto asserito dai giudici di appello civili, il
Tribunale in primo grado aveva comunque effettuato un esame autonomo dei fatti, giungendo a ritenere ingiuriose quelle espressioni.
Il motivo è infondato.
E’ principio di diritto che <<In tema di azione di risarcimento danni
da ingiuria, la sentenza di assoluzione "perché il fatto non
costituisce più reato" pronunciata in appello a seguito dell'abrogazione della norma incriminatrice ex d.lgs. n.7 del 2016, non ha per effetto la completa eliminazione dell'illiceità del fatto, la quale va, pertanto, accertata dal giudice civile con pienezza di cognizione e sulla base di una adeguata valutazione, quantomeno indiziaria, delle acquisizioni fattuali e probatorie già compiute innanzi al giudice del dibattimento penale, onde evitare un'indebita dispersione delle stesse.>> (Cass. 34621/2023)
Alla luce di tale principio di diritto, cui si deve dare continuità,
poiché se un fatto non è più penalmente rilevante ciò non toglie che possa esserlo dal punto di vista della responsabilità civile, che dunque va valutata autonomamente, non vi è stata alcuna violazione del giudicato penale, proprio perché, in caso di assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, il giudice civile ha il potere di una autonoma e distinta valutazione dei fatti ai fini del giudizio sulla responsabilità del convenuto.
Ed è ciò che la Corte di Appello ha fatto.
Del resto, il ricorrente ha cura di precisare che altrettanto aveva fatto il giudice di primo grado, che non si era limitato, come ha supposto la Corte di Appello, ad applicare il giudicato penale, ma aveva fornito un giudizio autonomo sulla rilevanza aquiliana delle espressioni utilizzate dal convenuto.
Dunque, essendo l’unico motivo di ricorso questo, ossia la
violazione del giudicato penale, esso è infondato. Non v’è invece alcuna censura nel merito delle valutazioni fatte dalla Corte di Appello circa la rilevanza aquiliana e l’offensività delle espressioni indirizzate al ricorrente, con la conseguenza che non se può fare qui questione.
Il ricorso va pertanto rigettato e le spese seguono la
soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, nella misura di 5500,00 euro oltre 200,00 euro per esborsi, ed oltre spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002,
inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13 .
Così deciso in Roma, il 9/01/2025.