CONSIGLIO DI STATO – SENTENZA N. 3065/2017 Pubblicato il 22/06/2017 Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

CONSIGLIO DI STATO – SENTENZA N.  3065/2017

Pubblicato il 22/06/2017

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale (…) proposto da: FIPAV - Federazione Italiana Pallavolo, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Giancarlo Guarino, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Cesare Ferrero di Cambiano, 82;

contro

OMISSIS, rappresentata e difesa dall'avvocato Michele Pontecorvo, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Asiago, 9;

nei confronti di

Coni - Comitato Olimpico Nazionale Italiano, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gianfranco Tobia, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale Mazzini, 11;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE III QUATER, n. 03055/2016, resa tra le parti, concernente condanna al risarcimento del danno causato da illegittima irrogazione sanzione della sospensione da ogni attività federale per mesi sei

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di OMISSIS e del CONI - Comitato Olimpico Nazionale Italiano;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 marzo 2017 il Cons. Valerio Perotti ed uditi per le parti gli avvocati Guarino, Pontecorvo e Clarizia, per delega di Tobia;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Risulta dagli atti che, con ricorso al Tribunale amministrativo del Lazio, notificato il 19 settembre 2014, la sig.ra OMISSIS, atleta di pallavolo e tesserata FIPAV, aveva impugnato gli atti per effetto dei quali, a seguito delle pronunce adottate nei diversi gradi di giudizio dalla giustizia sportiva, era stata condannata a sei mesi di sospensione, con decorrenza dal 14 novembre 2013, da ogni attività della suddetta federazione.

Nello specifico, venivano impugnate, in relazione a detta sanzione della sospensione per sei mesi da ogni attività federale, inferta dalla Commissione Giudicante Nazionale FIPAV il 10 ottobre 2013:

A) la Decisione n. 16 del 2014, prot. n. 00179 dell’Alta Corte di Giustizia Sportiva del CONI (ACGS), che aveva dichiarato inammissibile il ricorso avverso la decisione della Corte federale FIPAV di cui al C.U. 20 febbraio 2014, n. 2;

B) la predetta decisione della Corte federale FIPAV, che aveva respinto il ricorso in appello proposto dalla OMISSIS;

C) la decisione della Corte di appello federale (CAF) FIPAV, di cui al C.U. 7 gennaio 2014, disponente il rigetto dell’appello;

D) la decisione della Commissione giudicante nazionale FIPAV del 10 ottobre 2013, con cui – appunto - era stata deliberata la sospensione dell’interessata da ogni attività federale per la durata di sei mesi.

La sanzione - ricorda la sentenza qui impugnata - era stata disposta per due fatti:

a) avere, in violazione dei principi informatori di lealtà e correttezza ex art. 16 dello Statuto FIPAV 19 RAT e 2 del Codice del Comportamento Sportivo del CONI aggredito verbalmente in luogo aperto al pubblico in data 10 agosto 2013 il tecnico federale V.F. apostrofandolo in modo arrogante e provocatorio e rivolgendogli fantasiose accuse millantando informazioni ricevute in ambito federale….

b) avere, in violazione dei principi informatori di lealtà e correttezza ex art. 16 dello Statuto FIPAV 19 RAT e 2 del Codice del Comportamento Sportivo del CONI, veicolato tramite il social networkTwitter frasi allusivamente offensive e denigratorie nei confronti del D.T. Squadre Nazionali Femminili di Beach Volley sig. L.D. C., apostrofato come caprone nero o uomo nero…, tweet questi ultimi che si sarebbero verificati in conversazioni via Internet avvenute con il fidanzato in date antecedenti al 26 settembre 2013.

Per entrambi i fatti la Commissione giudicante aveva ravvisato la violazione dei principi di lealtà e correttezza dell'art. 16 dello Statuto federale e richiamati dall’art. 19 del Regolamento Affiliazione e Tesseramento, nonché dell'art. 2 del Codice di Comportamento Sportivo del CONI.

Nella specie, l’interessata deduceva un unico complesso motivo di ricorso, recante “errore nei presupposti di fatto e di diritto, eccesso di potere, violazione dell’articolo 58, comma 2 dello Statuto FIPAV, violazione dell’articolo 20, comma 2 del Regolamento giurisdizionale, violazione degli articoli 97,24 e 111 Cost.”, chiedendo, per l’effetto, l’incidentale annullamento dei provvedimenti impugnati, il riconoscimento del danno ingiusto conseguentemente subito nonché la condanna dei resistenti CONI e FIPAV al relativo risarcimento, nella misura stimata di euro 449.257,00.

Tali richieste venivano contestate sia dal CONI che dalla FIPAV, regolarmente costituitisi in giudizio.

Con sentenza 9 marzo 2016, n. 3055, il Tribunale amministrativo del Lazio accoglieva il ricorso condannando la FIPAV al pagamento, in favore della OMISSIS, di complessivi euro 208.500,00 a titolo di risarcimento del danno (pari ad euro 61.500,00 per la risoluzione di contratti, euro 55.000,00 perdita di chance per la interruzione di trattative, euro 42.007,00 perdita di chance per premi che non riceverà e euro 50.000,00 per danno all’immagine liquidato equitativamente). Detto risarcimento era disposto a favore della OMISSIS (quinta nel ranking mondiale di beach volley, che lamentava che per la sospensione aveva subito la riduzione in peggio di preesistenti contratti di sponsorizzazione), sulla base di varie ritenute illegittimità dei provvedimenti gravati ai fini della domanda risarcitoria, a ristoro dei danni patiti per riduzione dei proventi da contratti di sponsorizzazione già stipulati; da risoluzione di un contratto quadriennale 2013/16 sottoscritto nel 2013; da “interruzione di trattative con alcune società tra le quali un gigante della distribuzione informatica in Italia […], una nota casa automobilistica mondiale che aveva proposto un progetto di sponsorizzazione […] ed una proposta di sponsorizzazione di una società produttrice di accessori per lo sport [con] interruzione delle trattative […]”; e inoltre per “perdita di chances la ricorrente invoca le somme cui avrebbe avuto diritto come premi nei tornei internazionali”; per “danno all’immagine della ricorrente, la cui reputazione da tutta la vicenda ne è risultata marchiata come quella di un’atleta razzista e millantatrice”. Insomma, in sintesi, danni da riduzione peggiorativa e risoluzione di precedenti contratti, da perdita di chance per interruzione di trattative per la stipulazione di futuri contratti di sponsorizzazione, da perdita di chance per mancata percezione di premi in tornei internazionali e da pregiudizio all'immagine.

Preliminarmente, la sentenza aveva respinto l’eccezione di inammissibilità basata sulla “pregiudiziale sportiva” dell’art. 3 d.-l. 19 agosto 2003, n. 220 (Disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva), perché il gravame “ha per oggetto la domanda di risarcimento del danno che è di competenza del giudice amministrativo, il quale, può incidentalmente pronunciarsi sui provvedimenti della giustizia sportiva a tali fini, senza annullarli, ma dichiarandone la illegittimità incidenter tantum ai sensi dell’art. 133, comma 1 lett. a) n. 1) e lettera z), alla stessa stregua di quanto può effettuare il giudice ordinario nei confronti dei provvedimenti amministrativi ai sensi degli articoli 4 e 5 della LAC, regolatori del rapporto tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria”.

La sentenza - così sottolineando che per valutare l’ingiustizia del danno il giudice amministrativo può valutare incidentalmente i provvedimenti di giustizia sportiva - stimava tra l’altro illegittima la decisione degli organi di giustizia sportiva per mancato rispetto, in quel processo sportivo, dei principi fondamentali di diritto processuale sull’acquisizione di prove rilevanti e per scorretta valutazione di prove indiziarie. In questo contesto, rilevava che è un uso illegittimo dell’argumentum a contrario che la Corte d’Appello Federale abbia ricavato l’attestazione di colpevolezza dell’atleta perché cui costei non aveva chiamato a testimoniare a discolpa un’altra atleta presente ai fatti.

Avverso tale decisione la FIPAV interponeva appello, articolato in cinque motivi di gravame:

omessa pronuncia sulla domanda di annullamento del provvedimento impugnato in prime cure;

omessa pronuncia sull’eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di elementi essenziali;

omessa e/o carente e/o illogica ed erronea motivazione sulla valutazione incidentale di illegittimità della statuizione dell’AGCS impugnata in primo grado;

nel merito della controversia: erronea valutazione degli elementi di fatto e diritto; illogica, incompleta e contraddittoria motivazione – erronea e falsa applicazione degli artt. 20 c. 1 e 71, c. 3 del Regolamento di Giustizia del CONI;

in subordine: carente, erronea ed illogica motivazione in ordine alla domanda risarcitoria

Con memoria del 13 giugno 2016 si costituiva in giudizio il CONI, anch’esso instando per l’accoglimento dell’appello e la riforma della decisione di primo grado.

Il 27 giugno 2016 si costituiva anche l’appellata OMISSIS, chiedendo il rigetto del gravame.

DIRITTO

Riferimento essenziale del presente contenzioso è, in termini generali, l’ambito di competenza del giudice amministrativo nelle materie che la legge assegna alla giustizia sportiva. Qui si verte in particolare di attribuzioni di ordine disciplinare.

La materia è disciplinata in via generale dal decreto-legge 19 agosto 2003, n. 220 (Disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva), convertito dalla legge 17 ottobre 2003, n. 280. L’art. 1 (Principi generali), comma 1, afferma: «La Repubblica riconosce e favorisce l'autonomia dell'ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione dell'ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale».

Il successivo comma 2 precisa: «I rapporti tra l'ordinamento sportivo e l'ordinamento della Repubblica sono regolati in base al principio di autonomia, salvi i casi di rilevanza per l'ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l'ordinamento sportivo».

Per quanto riguarda l’ambito statuale - dal carattere residuale nel sistema complessivo della giustizia di interesse sportivo - di competenza del giudice amministrativo, l’art. 3 (Norme sulla giurisdizione e disciplina transitoria) dispone: «Esauriti i gradi della giustizia sportiva e ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti, ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservata agli organi di giustizia dell'ordinamento sportivo ai sensi dell'articolo 2, è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In ogni caso è fatto salvo quanto eventualmente stabilito dalle clausole compromissorie previste dagli statuti e dai regolamenti del Comitato olimpico nazionale italiano e delle Federazioni sportive di cui all'articolo 2, comma 2, nonché quelle inserite nei contratti di cui all'articolo 4 della legge 23 marzo 1981, n. 91».

A tale norma fa da pendant l’articolo 133, comma 1, lett. z),Cod. proc. amm. che a sua volta prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «le controversie aventi ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservate agli organi di giustizia dell'ordinamento sportivo ed escluse quelle inerenti i rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti».

Infine, a definire l’ambito esclusivo del giudice sportivo, l’art. 2 d.-l. n. 220 del 2003 riserva «… all'ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad oggetto:

a) l'osservanza e l'applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell'ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive;

b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive; […]

2. Nelle materie di cui al comma 1, le società, le associazioni, gli affiliati ed i tesserati hanno l'onere di adire, secondo le previsioni degli statuti e regolamenti del Comitato olimpico nazionale italiano e delle Federazioni sportive di cui gli articoli 15 e 16 del decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242, gli organi di giustizia dell'ordinamento sportivo. […]».

I principi generali così espressi recepiscono alcuni criteri individuati, nel tempo, da giurisprudenza e dottrina in tema di rapporti tra ordinamento sportivo ed ordinamento statuale.

In particolare, l’art. 1 d.-l. n. 220 del 2003 definisce l’ambito di autonomia del primo: ma, essendo comunque quello sportivo un ordinamento infra-statuale, la norma comporta che le sue peculiarità non possono sacrificare le posizioni soggettive rilevanti per l’ordinamento statuale, perché inviolabili o comunque meritevoli di tutela rafforzata in quanto non disponibili.

Si fonda così la clausola residuale di salvaguardia in favore della giurisdizione esclusiva amministrativa: cui compete, se del caso ed entro determinati limiti, il sindacato sull’operato, che è di rilievo pubblicistico, della giustizia sportiva.

Si legge, nell’appellata sentenza del Tribunale amministrativo, che i provvedimenti adottati dagli organi della giustizia sportiva succedutisi nel tempo sarebbero illegittimi per violazione dei principi del giusto processo, in particolare “un vero e proprio uso illegittimo dell’argumentum a contrario” tale da ingenerare un metodo scorretto di non acquisizione delle prove a difesa, nonché l’utilizzo di meri profili indiziari a carico del sanzionato, senza un’adeguata motivazione di supporto.

Pur senza sindacare il merito delle valutazioni effettuate, il Tribunale amministrativo si è conformato alla giurisprudenza che riconduce i diritti processuali tra le posizioni soggettive indisponibili, a cui presidio è previsto il residuale giudizio amministrativo esclusivo, dopo esauriti i gradi della giustizia sportiva.

In ragione di ciò – specialmente dopo l’acquisizione costituzionale del principio del giusto processo – non è dato alla giustizia sportiva prescindere da un’effettiva esplicazione dei diritti processuali fondamentali, la cui lesione può pertanto essere sempre fatta valere, da chi la contesti, dinnanzi al giudice dello Stato.

Altra questione è quella degli ambiti ed alle forme di tutela accordabili dal giudice amministrativo nel suo giudizio di giurisdizione esclusiva. A questo compete quanto, a tenore degli artt. 1, 2 e 3 d.-l. n. 220 del 2003, non è riservato all’autonomia dell’ordinamento sportivo perché sono coinvolte situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento giuridico generale. Ma in concreto può esserne investito, a tenore dell’art. 3, «esauriti i gradi della giustizia sportiva» (Cons. Stato, VI, 14 novembre 2011, n. 6010).

Per Corte cost., 11 febbraio 2011, n. 49, è sì infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lett. b), e 2, d.-l. n. 220 del 2003 nella parte in cui riserva al giudice sportivo la competenza definitiva sulle controversie riguardanti sanzioni disciplinari non tecniche inflitte ai suoi soggetti, sottraendole al giudice amministrativo, anche se i loro effetti superano l’ambito dell’ordinamento sportivo, incidendo su diritti ed interessi legittimi, in riferimento agli art. 24, 103 e 113 Cost.. Nondimeno, tali norme vanno interpretate nel senso che se l’atto delle federazioni sportive o dal CONI ha incidenza anche su situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l'ordinamento giuridico statale, la domanda intesa non alla caducazione dell'atto, ma al conseguente risarcimento del danno, va proposta al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva: non opera alcuna riserva a favore della giustizia sportiva innanzi alla quale la pretesa risarcitoria nemmeno può essere fatta valere. Sicché il giudice amministrativo può conoscere, nonostante la riserva a favore della giustizia sportiva, delle sanzioni disciplinari inflitte a società, associazioni e atleti, in via incidentale e indiretta, al fine di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria proposta dal destinatario della sanzione. Così l'esplicita esclusione della diretta giurisdizione sugli atti sanzionatori disciplinari — che è a tutela dell'autonomia dell'ordinamento sportivo — consente comunque a chi lamenti la lesione di una situazione soggettiva giuridicamente rilevante, di agire in giudizio per il conseguente risarcimento del danno.

In particolare, per la Corte «[…] qualora la situazione soggettiva abbia consistenza tale da assumere nell’ordinamento statale la configurazione di diritto soggettivo o di interesse legittimo, in base al ritenuto «diritto vivente» del giudice che, secondo la suddetta legge, ha la giurisdizione esclusiva in materia, è riconosciuta la tutela risarcitoria”.Questa “È sicuramente una forma di tutela, per equivalente, diversa rispetto a quella in via generale attribuita al giudice amministrativo (ed infatti si verte in materia di giurisdizione esclusiva), ma non può certo affermarsi che la mancanza di un giudizio di annullamento (che, oltretutto, difficilmente potrebbe produrre effetti ripristinatori, dato che in ogni caso interverrebbe dopo che sono stati esperiti tutti i rimedi interni alla giustizia sportiva, e che costituirebbe comunque, in questi casi meno gravi, una forma di intromissione non armonica rispetto all’affermato intendimento di tutelare l’ordinamento sportivo) venga a violare quanto previsto dall’art. 24 Cost. Nell’ambito di quella forma di tutela che può essere definita come residuale viene, quindi, individuata, sulla base di una argomentata interpretazione della normativa che disciplina la materia, una diversificata modalità di tutela giurisdizionale.”

Conformemente si è orientata la giurisprudenza amministrativa, fermo che anche per tali controversie risarcitorie opera la “pregiudiziale sportiva”: perciò possono essere avviate solo dopo «esauriti i gradi della giustizia sportiva», come prevede l’art. 3 (Cons. Stato, VI, Cons. Stato, VI, 24 gennaio 2012, n. 302; 24 settembre 2012, n. 5065; 27 novembre 2012, n. 5998; 31 maggio 2013, n. 3002, che richiama Cons. Stato, VI, 25 novembre 2008, n. 5782; Cons. Stato, VI, 20 giugno 2013, n. 3368).

In questo schema, ciò che qui rileva è che, anche se la tutela finisce per essere solo per equivalente monetario, il rapporto tra giustizia sportiva e giurisdizione amministrativa resta riconducibile a un modello progressivo a giurisdizione condizionata, dove coesistono successivi livelli giustiziali, susseguentisi in ragione di oggetto e natura, più o meno specialistica, delle competenze dell’organo giudicante.

Come è in genere per siffatti sistemi di tutela, la razionalità dell’assetto in progressione comporta che le successive domande di tutela, che hanno per presupposto l’espletamento delle prime, siano informate al principio di sussidiarietà e di economia dei mezzi e siano tra loro coerenti per oggetto, in primis dal punto di vista funzionale: vale a dire per fondamenti della causa petendi. La ragione del domandare giustizia, cioè la prospettazione della lesione di cui si chiede la riparazione o il ristoro, non può che avere la medesima latitudine: pur se, in rapporto al tipo di giudicante e ai suoi poteri, può mutare il formale petitum, cioè la “modalità di tutela giurisdizionale”. Non si può chiedere al livello successivo giustizia per una causa e per un bene della vita diversi da quelli invocati al livello necessariamente presupposto. Il sistema delle norme sulla giurisdizione dell’art. 3 d.-l. n. 220 del 2003, che prevede la c.d. “pregiudiziale sportiva”, cioè che si può adire il giudice statale solo dopo «esauriti i gradi della giustizia sportiva» (i c.d. rimedi interni), sarebbe privo di coerenza e di dubbia costituzionalità se vi fosse una preclusione di legge ad adire immediatamente il giudice dello Stato per ragioni nuove o diverse da quelle sollevabili nell’obbligatoria sede pregiudiziale.

Si deve a questo punto ricordare che il sistema del diritto sportivo – cui è correlata la funzione giustiziale – è coerente con le premesse e i caratteri impressi allo sport dal Comitato Olimpico Internazionale (CIO) sin dalla sua fondazione (come detto l’art. 1 d.-l. n. 203 del 2003 evidenzia che l'ordinamento sportivo nazionale è «articolazione dell'ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale»): l’art. 1, comma 2, dello Statuto del CONI, ente pubblico esponenziale dell’ordinamento sportivo, definisce l’istituto come «autorità di disciplina, regolazione e gestione delle attività sportive, intese come elemento essenziale della formazione fisica e morale dell'individuo e parte integrante dell'educazione e della cultura nazionale».

E’ dunque il supporto dell’attività sportiva, sia individuale che collettiva o nazionale, e non altro l’obiettivo ultimo dell’ordinamento sportivo, dei suoi assetti organizzativi e delle diverse forme di tutela che vi afferiscono. Ne esulano i rapporti individuali con terzi non intrinseci alle «attività sportive»in primis di carattere economico, che sull’attività sportiva possano, più o meno occasionalmente, venire per motivo contrattuale a innestarsi.

In coerenza con detto art. 1, comma 2, dello Statuto del CONI, è basilare la considerazione che l’ordinamento sportivo – con gli inerenti pubblici approntamenti e investimenti per strutture e per servizi - dagli albori ha i fondamentali nello sport inteso come attività di ricreazione umana (desport, diporto), quand’anche agonistica o praticata in veste professionale; vale a dire di cura del benessere fisico in termini di salute, di formazione della personalità, di educazione alla cooperazione e alla sana e leale competizione: elementi tutti che ineriscono alla dignità della persona umana (e che dunque oggi rilevano ai sensi dell’art. 2 Cost.) e che originano dalla contrapposizione alla tradizionale fatica lavorativa e alla commercializzazione dello sforzo fisico individuale e che proprio per questo sono elevati a oggetto di pubblica cura e intervento. E se la realtà delle cose impone di considerare una «dimensione economica dello sport», questa va comunque conciliata «con la sua inalienabile dimensione popolare, sociale, educativa e culturale» (cfr. art. 2, comma 5, del medesimo Statuto). Si iscrive in quest’ultimo àmbito il c.d. professionismo sportivo, dove l’atleta riceve un compenso in ragione dell’attività agonistica praticata; ne esula l’attività sportiva dilettantistica e in essa il fenomeno del c.d. professionismo di fatto: il quale non spiega dunque effetti riguardo alle federazioni sportive.

Dette caratteristiche generali si riflettono sul perimetro della tutela risarcitoria, che rileva solo come tutela dell’eventuale lesione interna ad un ordinario e corretto sviluppo dell’“attività sportiva”.

Diversamente, arrivando a voler includere nell’oggetto di questa tutela per equivalente monetario voci per loro natura diverse da quelle proprie di quell’àmbito ed estranee alle dette finalità eminentemente pubblicistiche dell’ordinamento sportivo, si finirebbe per contraddire il rammentato vincolo di strumentalità funzionale che è proprio della giurisdizione condizionata nonché quello di stretta proporzionalità degli strumenti integrati di tutela. E si finirebbe per trasformare l’espressione dello sport in un’ordinaria fenomenologia individuale di mercato dove il sostegno pubblico perderebbe ragione o diverrebbe locupletativo. Si esulerebbe dalle ragioni di una particolare tutela giurisdizionale pubblica che ha per base espressa quelle dell’organizzazione pubblicistica dell’attività sportiva e la garanzia del suo legittimo funzionamento: il che è quanto giustifica la condizionata giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133, comma 1, lett. z) Cod. proc. amm., che concerne atti – come quelli attorno a cui qui si verte – originati nell’esercizio di attività a valenza pubblicistica. Perciò la particolare giustizia statuale approntata dalla legge corrisponde all’oggetto sostanziale della “giustizia sportiva”: diversamente, non ci sarebbero ragioni per differenziarla da quella, di diritto comune, inerente un qualsivoglia fenomeno lucrativo privato, basato sull’utilizzo di risorse anche materiali private.

Alla luce di tali principi va vagliato l’appello di FIPAV.

Il primo motivo di appello afferma che la sentenza del Tribunale amministrativo non si sarebbe espressa circa la questione preliminare della legittimità della pronuncia dell’Alta Corte di Giustizia Sportiva del CONI – a suo tempo peraltro espressamente impugnata dalla ricorrente OMISSIS  – che aveva dichiarato inammissibile il ricorso contro la decisione della Corte federale FIPAV di cui al C.U. 20 febbraio 2014, n. 2.

Per l’appellante, in assenza di una valutazione sul punto verrebbe meno la possibilità di accertare l’illegittimità delle decisioni endofederali sottostanti.

L’eccezione non è fondata.

La sentenza appellata ricorda al riguardo che l’eccepita (dalla FIPAV) inammissibilità del ricorso per violazione della “pregiudiziale sportiva” è infondata perché si verte di “provvedimenti impugnati hanno determinato la lesione del diritto di difesa (art.24 Cost.) che non appartiene, per precetto costituzionale, alla categoria dei diritti disponibili”.

L’oggetto del ricorso alla ACGS aveva ad oggetto diritti indisponibili (di difesa): sicché la pronuncia di inammissibilità dell’organo di giustizia sportiva (fondata sulla ritenuta – all’opposto – disponibilità dei diritti fatti valere in giudizio) non era corretta.

Con il secondo motivo di appello, la FIPAV contesta all’allora ricorrente Cicolani di non aver dedotto alcunché circa le ragioni di illegittimità della decisione dell’ACGS, “concentrandosi invece sugli effetti consequenziali del provvedimento stesso, cioè quelli della conferma della decisione della Corte Federale FIPAV e proponendo, sic et simpliciter, un nuovo riesame del merito della controversia”.

Ribadendo l’eccezione già formulata in primo grado, FIPAV qui deduce che “l’assenza di motivi per l’impugnazione della decisione dell’ACGS preclude[va] al Giudice a quo l’esame delle sottostanti decisioni (di merito) degli Organi di Giustizia FIPAV, anche solo incidentalmente ed ai soli fini di accertare il presupposto della domanda risarcitoria di condanna”.

Anche tale motivo di appello non è fondato.

Premesso che l’appellante FIPAV non formula precisi rilievi contro la sentenza e si limita a contestare il contenuto del ricorso di primo grado, va rilevato che questo, alle pagg. 17 e seguenti afferma: “[…] la pronunzia dell’Alta Corte di Giustizia sportiva del CONI (ACGSC) […]si limita – a chiusura del procedimento sanzionatorio – a confermare di fatto la sanzione federale, sia pure astenendosi dall’entrare nel merito della controversia, avendo assunto tale ultima giudicante la “disponibilità” del diritto in contesa e, quindi, la conseguente inammissibilità del relativo ricorso”.

Nel richiamare quanto sopra detto circa l’asserita illegittimità delle precedenti (e presupposte) pronunce della giustizia sportiva, la ricorrente OMISSIS aveva dato atto che la pronuncia ACGS di inammissibilità era da connettere all’asserita natura “disponibile” dei diritti fatti valere con il ricorso. “Disponibilità” che la ricorrente contestava ancora nella memoria difensiva del 28 ottobre 2015.

Per il resto, vale quanto già osservato in merito al precedente motivo di appello.

Con il terzo mezzo di appello, la sentenza viene censurata per aver rigettato l’eccezione FIPAV sul vincolo della c.d. “pregiudiziale sportiva”, assumendo da un lato che il ricorso aveva ad oggetto solo una tutela risarcitoria (il che escluderebbe la necessità di rispettare tale pregiudiziale) e, dall’altro, che comunque il ricorso all’ACGS del CONI sarebbe stato correttamente proposto, essendo per contro errata la decisione di quest’ultimo di inammissibilità per avere a oggetto diritti ritenuti disponibili.

Neppure questo motivo di appello è fondato.

Sotto il primo profilo, contrariamente a quanto deduce l’appellante, è sufficiente rilevare come il giudice di prime cure bene non abbia sostenuto, neppure implicitamente, che la tutela risarcitoria possa essere accordata a prescindere dal preventivo esaurimento dei rimedi accordati dall’ordinamento sportivo. Del resto, neppure l’appellante indica con precisione le parti della sentenza da cui ciò sarebbe desumibile. È del resto il caso di sottolineare che la tutela risarcitoria è una surroga per equivalente monetario della tutela restitutoria.

Per il secondo aspetto della censura, l’appellante FIPAV sostiene che correttamente la ACGS aveva dichiarato inammissibile il ricorso OMISSIS, perché il ricorso avrebbe dovuto essere proposto al TNAS (Tribunale Nazionale di Arbitrato per lo Sport) del CONI.

Quest’ultimo, infatti, ha competenza arbitrale sulle controversie rilevanti per il solo ordinamento sportivo o su liti, sempre di natura sportiva, su diritti disponibili che contrappongono una Federazione sportiva nazionale a soggetti affiliati, tesserati o licenziati; mentre solo le controversie su diritti indisponibili andrebbero proposte all’ACGS.

Attesa la natura indisponibile dei diritti processuali, l’appellante FIPAV sostiene che le espressioni “diritti disponibili” ed “indisponibili” contenute nello Statuto del CONI al fine di individuare la competenza dell’organo arbitrale andrebbero intese “in senso convenzionale e non assoluto, ad uso e consumo dei rapporti interni all’ordinamento sportivo. […] In breve sintesi, come chiarito dai Regolamenti CONI e dalle stesse pronunce dell’ACGS, è competenza del TNAS (che peraltro ha composizione arbitrale) la cognizione di interessi individuali dei soggetti federali nell’ambito di controversie con altri soggetti dell’ordinamento sportivo (ivi incluse le Federazioni) e dell’ACGS la cognizione di interessi collettivi o comunque sovra individuali (es. ordinamento dei campionati) o comunque di questioni che possano esprimere principi di diritto di carattere ed interesse generale per l’ordinamento sportivo”.

Per l’appellante, dunque, “tale è l’accezione dell’espressione “diritti indisponibili” che, per quanto esposto, va intesa nel quadro delle “coordinate” del sistema sportivo costruito dallo Statuto del CONI e dalle leggi che regolano l’Ordinamento sportivo, ivi inclusi gli Statuti ed i regolamenti federali che ai precedenti fanno rinvio”.

Questa lettura dell’appellante non convince, ove si consideri il tenore dell’art. 2, comma 1 del Codice dei giudizi innanzi al Tribunale nazionale di arbitrato per lo sport e disciplina degli arbitri, che in argomento così prevede: «ai sensi degli articoli 12-ter, comma 1 e 22, comma 3, dello Statuto del CONI, le Federazioni sportive nazionali (d’ora innanzi Federazioni), le Discipline sportive associate e gli Enti di promozione sportiva possono prevedere, nei loro statuti e regolamenti, che le controversie sportive concernenti diritti disponibili e quelle rilevanti nel solo ordinamento sportivo siano decise in sede arbitrale presso il Tribunale».

Ai sensi del successivo articolo 3, comma 1 (Controversie sottratte alla competenza arbitrale del Tribunale), viene poi ribadito: «Non possono conseguire definizione in sede arbitrale le controversie aventi ad oggetto diritti indisponibili e quelle concernenti sanzioni pecuniarie di importo inferiore a diecimila euro …».

A sua volta, l’art. 1, comma 2 del Codice dell’Alta Corte di giustizia sportiva precisa che «L’Alta Corte costituisce l’ultimo grado della giustizia sportiva per le controversie in materia di sport, aventi a oggetto diritti indisponibili o per le quali non sia prevista la competenza del Tribunale nazionale di arbitrato per lo sport (d’ora innanzi Tribunale), salve le esclusioni di cui al seguente comma 4».

Da dette norme emerge, pacificamente, che l’ACGS ha cognizione, come giudice sportivo di ultima istanza, tra l’altro, delle questioni dove si controverta di diritti indisponibili. Il TNAS, per contro, conosce delle vertenze su diritti disponibili o di quelle su questioni di esclusiva rilevanza interna all’ordinamento sportivo.

La nozione di “diritti disponibili” ed “indisponibili” – espressioni utilizzate nelle predette norme senza precisazioni atte ad circoscriverne il contenuto – è consolidata in giurisprudenza, ed è pacifica la riconducibilità alla seconda categoria dei c.d. diritti processuali, che nel caso di specie la OMISSIS assumeva essere stati violati nei presupposti gradi della giustizia sportiva.

Dovendosi dar priorità, in virtù del principio di legalità, al criterio per cui in claris non fit interpretatio, a fronte di un testo normativo che non presenti ambiguità o incertezze di formulazione (come nel caso in esame, dove tra l’altro, le norme appaiono tra loro ben coerenti), non ha fondamento l’assunto dell’appellante FIPAV: che, del resto, neppure produce le pronunce dell’ACGS o i testi regolamentari che vi dovrebbero dar fondamento.

In senso contrario, già bastano le motivazioni della pronuncia di cui trattasi (doc. 1 di parte ricorrente), dove si legge: “in assenza di un criterio legislativo, la giurisprudenza di codesto Collegio è univoca nel ricondurre l’indisponibilità all’alveo dei diritti della personalità, delle posizioni di status familiae (decisioni riguardanti l questione dell’unità familiare, lavoro, tutela di atleti minorenni) …”.

Con il quarto motivo di appello la FIPAV lamenta l’erronea valutazione dei fatti nonché una scorretta applicazione degli articoli 20, comma 1, e 71, comma 3, del Regolamento di giustizia del CONI.

Deduce, in particolare, che il Tribunale amministrativo erroneamente avrebbe ritenuto “la mancata convocazione da parte del giudice [sportivo] come testimone della collega della ricorrente S.C. che era presente nel parcheggio della stazione di Ancona quando, in data 10 agosto 2013, la OMISSIS, in compagnia appunto della stessa, incontrava il tecnico federale F.V.”.

Invero, la sentenza afferma: “Ciò che desta perplessità in tali valutazioni è la circostanza che sia stata ritenuta “più” fondata la ricostruzione dei fatti recata dall’esposto del tecnico federale piuttosto che la ricostruzione della ricorrente, laddove potendo essere dirimente l’ingresso testimoniale della collega S.C., nessuna delle Corti ha ritenuto di introdurla in giudizio, osservando invece, queste ultime che tale onere spettasse solo e soltanto alla interessata, mentre trovandosi il giudice, a partire dal Procuratore Federale, dinanzi ad affermazioni contrastanti ben avrebbe potuto chiamare a testimone l’unico soggetto presente ai fatti, anche solo per chiarire i toni del colloquio”.

Da ciò la sentenza desume: “più che una inversione dell’onere della prova, come dedotto in ricorso, costituisce un vero e proprio uso illegittimo dell’argumentum a contrario la circostanza che la Corte di Appello federale affermi di ricavare l’attestazione di piena colpevolezza dell’atleta, nel momento in cui quest’ultima non chiama a testimoniare a propria discolpa l’atleta S.C. presente ai fatti”.

Del pari, l’appellante FIPAV censura l’ulteriore punto della sentenza (3.2) dove si legge: “a ciò deve aggiungersi anche al modalità di valutazione del secondo fatto costituito da una conversazione intercorsa tra la ricorrente ed il suo compagno su Twitter nella quale ella avrebbe usato espressioni allusivamente offensive e denigratorie quali “caprone nero” e “uomo nero”, ritenute attribuibili nei confronti dell’allenatore L. D.C. e che, invece, la ricorrente ha sostenuto essere riferite allo stesso compagno, col quale erano in corso scherzi di tal genere, proprio per contrasto con l’origine nordeuropea di quest’ultimo, al contrario di quella brasiliana del tecnico in questione.

Ora: anche qui prove del tutto indiziarie hanno portato dapprima la Commissione giudicante nazionale con la decisione del 14 novembre 2013 e successivamente le altre Corti, a sostenere che la concomitanza dei tweet tra la ricorrente ed il compagno con la lettera di risoluzione contrattuale del 25 settembre 2013 inviata dal presidente FIPAV alla interessata, nella quale venivano evidenziate e contestate le esternazioni dell’atleta, fosse prova di per sé del riferimento delle due espressioni all’allenatore L.D.C. che di origine brasiliana si presentava di pelle scura.

Non è dato comprendere da dove risulta che le due espressioni si riferissero sicuramente all’allenatore L.D.C. e non fossero come sostenuto frutto di scherzi, anche privati, tra la ricorrente ed il compagno …”.

Questo motivo d’appello è fondato.

Sotto il primo profilo, risulta dagli atti che effettivamente la OMISSIS, nel predisporre la propria strategia difensiva avanti al giudice sportivo, aveva liberamente scelto di non chiamare a deporre, in proprio favore, la collega S.C., benché la stessa fosse stata presente all’incontro con l’allenatore L. D.C.. Ciò, stando alle dichiarazioni della medesima OMISSIS, poiché la suddetta S.C. non avrebbe in realtà sentito nulla del colloquio intercorso tra la essa e l’allenatore.

La possibilità (recte, il diritto) di scegliere liberamente una strategia difensiva risponde al principio generale di autoresponsabilità ed è uno dei cardini insopprimibili del diritto di difesa e del c.d. giusto processo: altrettanto ne è l’automatica conseguenza che la detta libertà di scelta assume il colore di un onere per chi ne fruisce; egli, nel curare il proprio interesse, ha la libertà, e semmai l’obbligo verso se stesso, di responsabilmente farsi carico di tutte le sue esplicazioni e resta destinatario di tutte le inerenti conseguenze: anche quando quella prescelta risulti poi mostrarsi, all’atto pratico, la soluzione meno conveniente.

Ma, a parte questo, in concreto alla luce delle produzioni processuali nulla permette di escludere che la decisione di tenere lontana S.C. dal giudizio sportivo sia stata invece del tutto appropriata: in ipotesi perché costei avrebbe potuto fornire una versione dei fatti sfavorevole alla ricorrente.

Comunque sia, il principio dispositivo della prova è inerente al giusto processo, di cui la ricorrente lamentava la violazione.

È singolare che, a seguito della propria scelta difensiva di escludere la testimonianza della S.C., l’interessata venga poi a dolersi che, alla luce delle complessive risultanze istruttorie offerte dalle parti, il giudice sportivo (che è figura diversa dal Procuratore federale, cui solo si riferisce il principio giuridico – richiamato in sentenza – dell’art. 71, comma terzo, dello Statuto di giustizia del CONI), la abbia poi in concreto valutata a di lei sfavore.

Del resto, neppure risulta che la OMISSIS, melius re perpensa, abbia mai chiesto al giudice sportivo di assumere d’ufficio detta testimonianza; né la sentenza contestata indica gli obiettivi profili della sua rilevanza processuale, limitandosi a meri rilievi ipotetici (non si può ritenere violato il principio del giusto processo a fronte della mancata assunzione officiosa di un elemento di prova in difetto di previa allegazione delle ragioni della sua concreta rilevanza ai fini della decisione).

Anzi, dalla memoria difensiva (doc. 3 di parte ricorrente) 10 ottobre 2013 alla Commissione federale d’appello FIPAV, emerge l’opposto, ossia che proprio l’asserita impossibilità per la S.C. di riferire alcunché di utile sarebbe un elemento di prova a favore della ricorrente: “Prova ne è che l’atleta S.C., rimasta sempre nei pressi dell’autovettura sulla quale stava caricando i propri bagagli, nulla ha avuto modo né di sentire, né di notare, di particolare in merito al colloquio tra i due predetti interlocutori, proprio perché da parte di OMISSIS non vi è mai stata l’assunzione degli atteggiamenti genericamente contestati nel capo d’incolpazione in esame”.

La ricorrente, del resto, nelle conclusive istanze istruttorie chiedeva di essere sentita personalmente dalla Procura federale FIPAV; ma evitava di estendere la richiesta anche alla collega presente sul luogo.

Lo stesso dicasi per l’appello alla Commissione d’appello federale FIPAV (del 22 novembre 2013), per il ricorso alla Corte federale FIPAV (del 16 gennaio 2014) e, da ultimo, per il ricorso all’ACGS del CONI (tutti prodotti dalla ricorrente sub doc. 9), dove si ribadisce l’inutilità della suddetta assunzione, dal momento che – si riferisce – la S.C. nulla avrebbe comunque potuto sentire o vedere, essendo già salita in macchina.

Non è dunque condivisibile l’argomento – fatto proprio dal Tribunale amministrativo - per cui la suddetta mancata assunzione officiosa del mezzo di prova, a suo tempo insistentemente escluso dalla ricorrente (in un contesto caratterizzato dal principio dispositivo, essendo il giudice un terzo imparziale e non anche un tutore delle parti in causa), si tramuterebbe oggi in una violazione delle regole del giusto processo.

Altresì fondato appare il secondo rilievo dell’appellante FIPAV, atteso che, diversamente da quanto afferma la sentenza gravata, bene il giudice sportivo aveva chiarito le ragioni per cui, nel caso di specie, le espressioni usate su un social network erano da intendersi riferite all’allenatore L.D.C. e non piuttosto frutto di scherzi, anche privati, tra la ricorrente ed il compagno.

Si legge invero, nella decisione del CAF FIPAV (C.U. n. 9 del 2014): “non uno dei citati “messaggi” effettivamente scambiati con il OMISSIS a mezzo Twitter – stampati e prodotti in atti dall’atleta – reca data antecedente al 26.9.2013 (quando l’esposto della Segreteria Generale risulta trasmesso alla Procura Federale il 23.9.2013) e persino che i messaggi stessi, a differenza di quelli oggetto di incolpazione, risultano postati nell’ambito di un contatto Twitter c.d. “circolare”, ovvero privato e non accessibile al pubblico dei followers […]

[Orbene, che nel periodo in questione fosse in atto un conflitto assai aspro tra la OMISSIS e il OMISSIS (come confermato dall’atleta nel ricorso in appello) era (o doveva essere) talmente noto a tutti che, non appena incontrato il OMISSIS “Dopo un primo scambio di convenevoli amichevoli, OMISSIS gli ha fatto notare che non si erano visti per ¾ mesi e che, nel corso dell’ultimo mese, neppure le aveva fatto una telefonata, nonostante che egli fosse a conoscenza […] dei suoi rapporti problematici con l’allenatore OMISSIS”. La circostanza trova ulteriore e definitivo riscontro nei contenuti della missiva indirizzata dal OMISSIS al Presidente FIPAV il 12.9.2013 […]

Deve quindi ritenersi che, anche in ragione delle circostanze di modo e di tempo che ne hanno connotato la pubblicazione, le espressioni oggetto del capo d’incolpazione sub B) fossero riferite al OMISSIS o e non ad altri”.

Il giudice sportivo, in sintesi, senza ledere gli indisponibili diritti difensivi dell’interessata aveva dato atto che i messaggi da lei prodotti in giudizio (messaggi scambiati privatamente con il fidanzato, in un circuito Twitter non accessibile al pubblico dei followers) fossero tutti posteriori all’inoltro della denuncia da parte della FIPAV per il ritenuto contenuto offensivo di altri precedenti messaggi; i quali, invece, diversamente dai primi, erano stati divulgati sul profilo pubblico del medesimo social network, e dunque accessibili a chiunque.

Il giudice sportivo, lungi dal fare improprio utilizzo dell’elemento presuntivo, giustifica il motivo per cui ritiene che, nonostante il contenuto apparentemente similare, i primi messaggi (ossia quelli pubblici) si riferissero effettivamente all’allenatore e non ad altri: “E’ noto a tutti che Twitter … è ormai il social network utilizzato dai personaggi pubblici … per prendere posizione e/o divulgare la propria voce ufficiale in merito alle vicende che li riguardano … In tale ottica, se risulta immediatamente comprensibile e sommamente credibile che la OMISSIS, facendolo volutamente apparire sul profilo pubblico, abbia inteso affidare alla rete un epitteto quanto mai infelice riferito al proprio allenatore, pare del tutto assurdo che l’epitteto in questione, senza alcuna ragione atta a giustificarne la diffusione coram populo, dovesse o potesse riferirsi ad un soggetto terzo (il OMISSIS) sconosciuto o quasi ai più, anche perché postato al di fuori di quel contesto confidenziale e riservato – il menzionato contatto “circolare” OMISSIS /OMISSIS – (solo e sempre) successivamente utilizzato dai diretti interessati a tal fine.

Del resto, se pure questa non fosse stata l’intenzione, vista la notorietà del personaggio e il particolare rilievo della sua figura di donna e di atleta, con quanto ne consegue in ordine al prevedibile sconcerto che ne sarebbe seguito, la OMISSIS non avrebbe dovuto accontentarsi di conoscere – lei sola, nel suo intimo – il vero significato delle parole affidate alla rete … ma semmai preoccuparsi di come queste sarebbero state intese e recepite dalla maggior parte (se non la pratica totalità) delle persone, posto che chiunque, come in effetti è stato – e l’esposto a suo carico ne è la conferma – le avrebbe immediatamente ricondotte alla persona del OMISSIS per ovvi motivi soggettivi ed oggettivi, stante anche la notoria conflittualità in essere tra questi e l’odierna appellante”.

La motivazione della decisione del giudice sportivo al fondo non risulta né illogica, né irragionevole e per quanto qui rileva non appare lesiva degli indisponibili diritti processuali di difesa dell’interessata; anzi risulta coerente con le obiettive risultanze istruttorie. Non risulta dunque, ad avviso del Collegio, contrastante con i principi del giusto processo in materia di onere e valutazione della prova.

Il quarto motivo di appello va così accolto.

Con il quinto (e ultimo) motivo di appello viene infine contestata la quantificazione del risarcimento operata in sentenza, sia sotto il profilo dell’an che del quantum.

Sotto il primo profilo, FIPAV contesta la risarcibilità, nel caso di specie, del c.d. danno da perdita di chance, laddove la sentenza presupporrebbe “una presunta ed indimostrata posizione “professionale” legata alla attività di Beach Volley” della ricorrente.

Al riguardo, precisa l’appellante FIPAV: “pur essendo stata in passato la ricorrente un’atleta di vertice, la disciplina del Beach Volley è a tutti gli effetti dilettantistica, essendo inquadrata nello Statuto della FIPAV … Ciò significa che l’Ordinamento federale non ha in sé le previsioni, gli strumenti e le clausole che consentono la gestione di rapporti professionali degli atleti ma, per converso, non può essere chiamata a rispondere di eventuali riflessi “indiretti” che si producano sulla sfera patrimoniale degli atleti stessi quale conseguenza, indiretta anch’essa, dell’azione federale.

L’atleta aderisce, con il tesseramento, ad un ordinamento che sa essere dilettantistico. Gli eventuali contratti di sponsorizzazione sono risultato di “occasioni” che si determinano a latere dell’attività federale, meri accessori di una posizione di interesse personale che viene coltivata “extra” o “contra” l’ordinamento federale e definita dalla sola parte interessata professionale”.

Circa il quantum, l’appellante FIPAV contesta anzitutto che il Tribunale amministrativo giudice avrebbe valorizzato, a tal fine, elementi del tutto indiziari, applicando il parametro dell’equità “a sua volta costruito si presupposti fattuali … del tutto insussistenti od opinabili”; tra questi, viene in primo luogo citato il recesso FIPAV dall’accordo allora in essere con la ricorrente, che la federazione attribuisce ad un’autonoma valutazione, estranea alla sanzione disciplinare già irrogata, recesso che neppure era stato impugnato dall’atleta nelle sedi competenti (ossia il TNAS o il Tribunale civile).

Per il resto, FIPAV evidenzia che le voci di danno individuate in sentenza si riferirebbero, a vario titolo, a rapporti di diritto privato indipendenti dall’attività sportiva (recte, svolti a latere dell’attività medesima) e dunque insuscettibili di tutela risarcitoria nell’ambito del giudizio sportivo (sia pure devoluto al giudice amministrativo, in via sussidiaria); in ogni caso, si tratterebbe di pretese patrimoniali sprovviste di reale corredo probatorio.

Il motivo di appello è fondato, alla luce di quanto già ampiamente rilevato in premessa.

Le singole voci di danno liquidate nella sentenza appellata sono infatti riferibili non ad un ipotetico vulnus che abbia attinto la “attività sportiva” dell’atleta, vale a dire per quanto è inerente l’ordine sportivo, bensì eventuali voci di lucro extra-sportivo che quest’ultima asseritamente si era procurata (o figurava potersi procurare) sfruttando collateralmente, e a fine di lucro individuale, in contesti non direttamente sportivi i propri successi sportivi.

Come già anticipato, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito che la possibilità di ottenere dal giudice amministrativo un risarcimento per equivalente, laddove eventuali scorrettezze nello svolgimento dei gradi della giustizia sportiva abbiano comportato la violazione di diritti indisponibili, è un’alternativa all’usuale tutela demolitoria, che ove attuata avrebbe comportato la rimozione del provvedimento lesivo impugnato.

Una siffatta alternativa poggia sulla volontà legislativa di non frustrare, all’atto pratico, l’autonomia dell’ordinamento sportivo, come invece accadrebbe se si consentisse, alla fine, a un giudice “esterno” di sindacare il merito dei provvedimenti ivi adottati.

La giustizia sportiva ha per obiettivo di tutelare il rispetto delle regole sportive e degli obiettivi pubblicistici cui l’“attività sportiva” nazionale è ordinata; come già esposto, il corrispondente obiettivo circoscrive l’azione del giudice amministrativo ex art. 133, comma 1, lett. z) Cod. proc., amm. anche quando è chiamato a dare una tutela per equivalente in riferimento a quel contesto.

Le voci risarcitorie considerate dall’appellata sentenza non hanno a che vedere con un’ipotetica lesione interna allo sviluppo della “attività sportiva” in ipotesi cagionata dagli atti contestati (nel caso di specie, la sospensione semestrale e le successive pronunce degli organi di giustizia sportiva): esse attengono invece ai figurati minori introiti patrimoniali che la ricorrente ipotizzava di ottenere utilizzando – con contratti personali a motivo commerciale – la propria notorietà raggiunta nell’ordine sportivo.

Come si è visto, oggetto della tutela accordabile dalla giustizia sportiva – e poi dal giudice amministrativo investito, in via ulteriore, a rimediare a vizi della prima circa posizioni giuridiche soggettive processuali indisponibili – non concerne la pretesa tutela patrimoniale di asseriti ed esulanti interessi economici privati che si vorrebbero lesi per effetto delle decisioni sportive. La tutela risarcitoria del giudice amministrativo è strumento sussidiario di protezione di beni giuridici indisponibili che non abbiano ricevuto reale protezione ad opera di quest’ultima; deve corrispondere, nei limiti della tutela per equivalente, alla ragione oggettiva dell’originario processo sportivo e dev’essere finalizzata a un ristoro del diritto o dell’interesse fondamentale che sin ab initio si era domandato – evidentemente invano – al giudice sportivo di salvaguardare.

Non solo: ove occorra, nella specie è comunque dirimente considerare, in coerenza a quanto osserva l’appellante Federazione, che comunque l’interessata non risulta essere un’atleta professionista che ricava da siffatti proventi il suo sostentamento lavorativo – ammesso ciò sia consentito in quel contesto, viste le caratteristiche al riguardo di quella Federazione - di fronte alla FIPAV.

Quando dunque l’atleta OMISSIS si rivolgeva al giudice amministrativo, non poteva immutare la ragione del contendere, e venendo a chiedere non un ristoro dell’ipotetico vulnus sportivo subito (id est, l’eventuale lesione allo sviluppo della propria carriera sportiva, discendente dagli atti contestati), bensì di suoi figurati, personali, ulteriori e occasionali interessi commerciali, estranei alla praticata “attività sportiva” in quanto tale.

Relativamente a tali voci di danno, ancorché provate, il giudice amministrativo adito avrebbe dovuto pronunciare l’inammissibilità del ricorso, trattandosi di questioni per lui prive di ingresso in giustizia.

Le stesse voci, invece, come riscontra la sentenza appellata (“… a seguito della sospensione da ogni attività federale si verificava la riduzione in peggio di contratti in precedenza stipulati”), hanno rappresentato l’esclusivo oggetto della domanda risarcitoria.

Similmente dicasi per la, peraltro generica, voce “danno all’immagine”, per la quale in realtà nulla viene detto in sentenza (né rappresentato e comunque provato nell’introduttivo ricorso) circa l’ipotetico vulnus che sarebbe specificamente derivato al ritenuto sviluppo futuro della carriera sportiva dell’atleta (sempre tenuto conto, come già detto, dei limiti di durata della prestanza fisica). Per il resto, si esula comunque dal sottolineato perimetro.

In conseguenza di quanto precede, l’appello va accolto.

La novità e la complessità delle questioni trattate giustificano l’integrale compensazione, tra le parti, delle spese di lite del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie, rigettando per l’effetto il ricorso proposto da OMISSIS.

Compensa tra le parti le spese di lite del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 marzo 2017 con l'intervento dei magistrati:

Giuseppe Severini, Presidente

Paolo Troiano, Consigliere

Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere

Raffaele Prosperi, Consigliere

Valerio Perotti, Consigliere, Estensore

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