CONSIGLIO DI STATO – SENTENZA N. 3446/2018 Pubblicato il 07/06/2018 Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
CONSIGLIO DI STATO – SENTENZA N. 3446/2018
Pubblicato il 07/06/2018
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale (…), proposto da Societa' Usd OMISSIS Calcio s.r.l., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall'avvocato Vinicio Tofi, domiciliato ex art. 25 cpa presso la Segreteria della VI Sezione del Consiglio di Stato in Roma, Piazza Capo di Ferro, n. 13;
contro
Federazione Italiana Giuoco Calcio (F.I.G.C.), in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati Luigi Medugno, Letizia Mazzarelli, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, Via Panama, n. 58;
Lega Nazionale Dilettanti (L.N.D.), in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'avvocato Mario Gallavotti, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, Via Po, n.9;
F.I.G.C. - Federazione Italiana Giuoco Calcio, non costituita in giudizio;
per la revocazione
della sentenza del CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, n. 3002/2013, resa tra le parti, concernente formazione del campionato nazionale di serie della stagione sportiva 2009-2010 – risarcimento danni.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della Federazione Italiana Giuoco Calcio (F.I.G.C.) e della Lega Nazionale Dilettanti (L.N.D.);
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 maggio 2018 il Cons. Italo Volpe e uditi per le parti gli avvocati Tofi e Medugno;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Col ricorso in epigrafe la USD OMISSIS Calcio s.r.l. (di seguito “OMISSIS”) ha chiesto la revocazione della sentenza del Consiglio di Stato, VI, n. 3002/2013, pubblicata il 31.5.2013, che – a spese compensate – le ha dichiarato irricevibile l’appello che era stato proposto avverso la sentenza del Tar del Lazio, Roma, n. 13266/2010, pubblicata il 12.5.2010, la quale a propria volta aveva dichiarato improcedibile il suo originario ricorso proposto:
- per l’annullamento del provvedimento di formazione del Campionato Nazionale di Serie D per la stagione sportiva 2009-2010, di cui al comunicato ufficiale n. 23 dell’11.8.2009 emesso dalla Lega Nazionale Dilettanti-Comitato Interregionale, nella parte in cui non inseriva la OMISSIS tra le squadre partecipanti;
- per l’accertamento del titolo sportivo della OMISSIS a partecipare (previo pagamento della quota di iscrizione) al campionato Nazionale di Serie D o, in subordine, al campionato di Eccellenza, per la stagione sportiva 2009-2010 e per la conseguente condanna dell’Amministrazione ad accogliere la domanda di partecipazione a tale campionato;
- per il risarcimento del danno, stimato in euro 3.649.176,47, oltre interessi e rivalutazione monetaria, per la sua mancata ammissione al Campionato Nazionale di Serie D o, in subordine, al Campionato di Eccellenza per le stagioni sportive 2008/2009 e 2009/2010.
1.1. La sentenza di primo grado aveva pronunciato nel modo anzidetto rilevando che nella fattispecie non era stata rispettata la c.d. ‘pregiudiziale sportiva’ (di cui agli artt. 2 e 3 del d.l. n. 220/2003, convertito, con modificazioni, dalla l.n. 280/2003, recante disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva).
1.2. La sentenza di secondo grado, di cui si vorrebbe la revocazione, ha pronunciato nel modo anzidetto rilevando che l’appello – in disparte comunque la sua infondatezza nel merito, anche relativamente alla domanda di risarcimento del danno – nella fattispecie era tardivo perché:
- proposto dopo la scadenza del termine ‘lungo’ per l’impugnativa, di cui all’articolo 327, primo comma, c.p.c., nella sua formulazione successiva all’entrata in vigore della l.n. 169/2009;
- il suo deposito era intervenuto dopo la scadenza del termine (dimidiato) di quindici giorni di cui al combinato disposto degli artt. 22, co. 2, e 23-bis della l.n. 1034/1971, in relazione alla previsione di cui all’art. 3, co. 3, del predetto d.l. n. 220/2003.
2. Il ricorso in epigrafe – senza peraltro una puntuale indicazione delle domande a fini rescissori – si affida, a fini rescindenti, alle seguenti censure:
a) errata dichiarazione di irricevibilità dell’atto di appello;
b) illegittima applicazione al caso di specie dell’art. 327 c.p.c., come modificato dalla l.n. 69/2009;
c) illegittima applicazione al caso di specie dell’art. 23-bis l.n. 1034/1971;
d) errata dichiarazione giudiziale della perentorietà del termine di cui all’art. 21 della l.n. 1034/1971.
2.1. Ad avviso di parte, in sostanza:
a.1) il termine per la proposizione dell’appello era (all’epoca) ancora annuale giacchè, prima dell’entrata in vigore del c.p.a., non v’era alcuna norma che stabilisse la diretta applicazione dell’art. 327 c.p.c. al processo amministrativo ed il c.d. ‘termine lungo’ per l’appello era di origine giurisprudenziale (onde la modificazione dell’art. 327 c.p.c., a decorrere dal luglio 2009, non si poteva tout court estendere al processo amministrativo). Inoltre, il termine per il deposito dell’appello era di trenta giorni, non trovando applicazione (per il suo rilievo eminentemente risarcitorio) l’art. 23-bis della l.n. 1034/1971 né esistendo altre ragioni che giustificassero l’applicazione di un termine dimidiato per il deposito dell’appello. Ed ancora, prima dell’entrata in vigore del c.p.a. non v’erano norme da cui inferire che il termine di cui all’art. 21 della l.n. 1034/1971 (per il deposito del ricorso) fosse perentorio;
b.1) in tema di impugnazione delle sentenze amministrative, in carenza di norme specifiche, prima dell’entrata in vigore del c.p.a. le disposizioni rilevanti (da combinare fra loro, applicativamente) erano gli artt. 28 della l.n. 1034/1971 e 36 del regolamento n. 1054/1924 ed entrambi non prevedevano espressamente il c.d. ‘termine lungo’ di impugnazione né operavano rinvii a norme del codice del rito civile.
c.1) nella fattispecie neppure ricorreva una tardività nel deposito dell’atto di appello, avvenuto nei trenta giorni dalla sua notificazione, non operando alcuno dei casi di prevista dimidiazione. Né era vero che ricorresse un caso di applicazione dell’art. 23-bis della l.n. 1034/1971, in quanto l’art. 3, co. 3, del citato d.l. n. 200/2003 (all’epoca dell’avvenuto deposito dell’appello) era stato abrogato (per effetto dell’art. 4, co. 1, punto 29, dell’Allegato 4 al c.p.a. a far data dal 16.9.2010). Per il quanto il c.p.a. abbia fatto salve, per i procedimenti in corso, le norme precedenti, non vi poteva essere incertezza su questa abrogazione (a meno del paradosso per cui nella fattispecie non si sarebbe applicato ancora l’art. 119, co.1, c.p.a. ma non si sarebbe applicato più neanche l’art. 3, co. 3, del d.l. n. 220/2003, in quanto abrogato, e perciò il rinvio all’art. 23-bis della l.n. 1034/1971);
d.1) anche ritenendo operante, nella specie, il termine dimidiato, non se ne potrebbe inferire un ritardo nel deposito dell’atto d’appello. Ciò perché non esisteva (fino al c.p.a.) una norma che facesse ritenere la perentorietà di tale termine. Ora tale norma è nell’art. 94 c.p.a. ma in passato v’era al riguardo un vuoto legislativo, non colmabile in via giurisprudenziale.
3. In questo giudizio si sono costituite la Lega Nazionale Dilettanti e la F.I.G.C.-Federazione Italiana Giuoco Calcio (parti anch’esse dei precedenti giudizi), concludendo entrambe per l’inammissibilità del ricorso in epigrafe.
4. La causa quindi, chiamata alla pubblica udienza di discussione del 10.5.2018, è stata ivi trattenuta in decisione.
5. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per un duplice ordine di motivi.
5.1. Per risalente, consolidata e condivisa giurisprudenza, in sede sia civile sia amministrativa (Cass., S.U., 12.11.1997, n. 11148; C.d.S., IV, 15.9.2015, n. 4294), il giudizio per revocazione si compone di una fase rescindente ed una rescissoria, tese ad incidere entrambe su una precedente sentenza, e tale giudizio deve essere deciso con un atto unitario. Pertanto, la domanda revocatoria deve contenere tutti i requisiti necessari per porre il Giudice in condizione di adottare una pronuncia definitiva che si esprima su entrambe le componenti di dette fasi.
Nel caso di specie la ricorrente, se da un lato ha articolato i motivi che, a suo avviso, sosterrebbero la domanda di revocazione della precedente sentenza di questa Sezione del Consiglio di Stato, dall’altro lato però non ha formulato alcuna domanda volta alla conclusione dell’eventuale, successivo giudizio rescissorio.
A questa mancanza, peraltro, non si potrebbe neppure sopperire sottintendendo (da parte del ricorrente) un implicito richiamo a quanto ha formato oggetto della sua domanda introduttiva del giudizio chiusosi con la sentenza di cui si vorrebbe la revocazione, posto che (Cass., sez. I, 3.5.2000, n. 5513) sussiste autonomia tra le pretese oggetto di questo giudizio e quelle formulate in occasione del giudizio chiuso con la decisione che si assume viziata per errore revocatorio.
Inoltre, i motivi d’impugnazione devono essere formulati, nel testo del ricorso per revocazione, in modo rigoroso, non con la sola richiesta di revocazione (iudicium rescindens) ma formulando specifiche domande in ordine alla decisione di merito della controversia (iudicium rescissorium) (C.d.S., IV, 21.4.2017, n. 1869).
E’ allora inevitabile l’inammissibilità del ricorso che reca, formalmente, solo la domanda di revocazione di una sentenza e non anche quella volta ad una (diversa) decisione sull’originario ricorso. La mera riproposizione, neppure certa nel caso di specie (in quanto, semmai, solo eventualmente sottintesa), delle tesi svolte con l’originario ricorso non è idonea a dare accesso all’eventuale fase rescissoria.
Peraltro, tenuto conto della rilevata mancanza, parte ricorrente neppure trarrebbe nella specie alcun vantaggio dall’eventuale accoglimento della domanda di revocazione a fini rescindenti, dato che poi non sarebbe possibile una pronuncia capace di farle conseguire (in sede rescissoria) il suo obiettivo perseguito.
5.2. Il secondo ordine di motivi, più legati a profili di merito, è costituito dal fatto che, nel caso in esame, non ricorre alcuno dei presupposti tipici per poter aspirare alla revocazione di una sentenza, in particolare quello (assunto nella fattispecie) dell’errore di fatto.
Va ricordato che la giurisprudenza ha costantemente affermato che l’errore di fatto, idoneo a costituire il vizio revocatorio previsto dall’art. 395, n. 4, c.p.c., deve consistere in un “travisamento di fatto costitutivo di “quell’abbaglio dei sensi” che cade su un punto decisivo, ma non espressamente controverso della causa” (es., C.d.S., IV, 7.9.2006, n. 5196).
Questo orientamento fonda sulla necessità di evitare che il rimedio revocatorio si trasformi in una forma di gravame, teoricamente reiterabile più volte, idoneo a condizionare sine die il passaggio in giudicato di una pronuncia giurisdizionale (Cass., sez. I, 19.6.2007, n. 14267).
Detto rimedio, perciò, non è praticabile quando muova da un aspetto della controversia che ha formato oggetto di valutazione da parte del Giudice e men che meno allorché l’errore paventato verta, in ipotesi, sulla interpretazione od applicazione di norme giuridiche.
E’ stato invero affermato che ai sensi dell'art. 395 n. 4 c.p.c., sono soggette a revocazione per errore di fatto le sentenze pronunciate in grado di appello, quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita e tanto nell'uno quanto nell'altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare (C.d.S., VI, 21.6.2006, n. 3721, VI, 5.6.2006, n. 3343, IV, 26.4.2006, n. 2278).
E’ stato pure chiarito che l’errore di fatto idoneo a legittimare la revocazione, non soltanto deve essere la conseguenza di una falsa percezione delle cose, ma deve avere anche carattere decisivo, nel senso di costituire il motivo essenziale e determinante della pronuncia impugnata per revocazione. Il giudizio sulla decisività dell’errore costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da congrua motivazione, non inficiata da vizi logici e da errori di diritto (Cass., sez. I, 29.11.2006, n. 25376).
Ebbene, nulla di tutto ciò nella vicenda in discorso, dato che la sentenza di cui si pretenderebbe la revocazione si è espressa su tutti gli aspetti concernenti il giudizio di primo grado ed ha affrontato non soltanto i profili in rito concernenti l’originario ricorso ma si è addirittura spinta ad esaminarne le ragioni di merito, respingendole.
Gli argomenti espressi dalla sentenza qui censurata, che non incontrano le aspettative della parte ricorrente, neppure riguardano circostanze di mero fatto ma piuttosto affrontano e risolvono questioni giuridiche in un modo che, per quanto non condiviso, non è suscettibile di essere risottoposto a valutazione in sede giudiziale, pena il travisamento della finalità dell’istituto della revocazione e la sostanziale apertura ad un inesistente terzo grado di giudizio di merito.
6. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in complessivi euro 5.000,00 in favore delle parti resistenti, in ragione di una metà ciascuna.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile.
Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in complessivi euro 5.000,00, in favore di quelle resistenti, in ragione di una metà ciascuno.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 maggio 2018 con l'intervento dei magistrati:
Luciano Barra Caracciolo, Presidente
Silvestro Maria Russo, Consigliere
Marco Buricelli, Consigliere
Francesco Gambato Spisani, Consigliere
Italo Volpe, Consigliere, Estensore