TRIBUNALE DI PERUGIA – SEZIONE CIVILE – SENTENZA N. 815/2021 DEL 25/05/2021

 

 

TRIBUNALE DI PERUGIA

Seconda Sezione Civile

 

Il Giudice del Tribunale di (...), dott. Luca Marzullo, in funzione di giudice monocratico, sulle conclusioni precisate all’udienza del 4  novembre 2020, tenutasi nelle forme dell’udienza cd. cartolare, ed all’esito dello scambio degli scritti conclusivi pronuncia la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. 6093/2017 tra

(...)s.r.l. in liquidazione, in persona del legale rappresentante p.t.;

Rappresentata e difesa dall’avv. Andrea Conversano ed elettivamente domiciliata presso lo studio del difensore, sito in (...), via Martiri dei Lager, n. 65, giusta delega in atti;

Appellante

CONTRO

(...)  ,  sia  in  proprio  che  quale  legale  rappresentante  della Polisportiva A.R.S. (...)

Rappresentato e difeso dall’avv. Gianluca Lucarelli ed elettivamente domiciliato presso lo studio del difensore, sito in (...), via delle Caravelle, n. 1/d-5, giusta delega in atti; 

Appellato

Oggetto: Altre controversie di diritto amministrativo.

Conclusioni: le parti hanno concluso come da verbale di precisazione delle conclusioni del 4 novembre 2020, qui da intendersi integralmente richiamato e trascritto, tenutosi nelle forme della cd. Trattazione cartolare, preceduto dal deposito di note di trattazione scritta del 30.10.2020 e del 27.10.2020.

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

1. La società (...)s.r.l. in liquidazione ha proposto appello avverso la sentenza n. 180/2017 pubblicata il 27.2.2017 con la quale il Giudice di Pace di (...) ha accolto l’opposizione a decreto ingiuntivo proposta dal sig. (...), disponendone la revoca e condannando l’odierna appellante al pagamento delle spese processuali, liquidate nel complessivo importo di € 500,00.

Si premette in fatto che:

  • la società (...)s.r.l. (oggi in liquidazione) aveva chiesto ed ottenuto dal Giudice di Pace di (...) il decreto ingiuntivo n. 119 del 2012 per il complessivo importo di € 960,00, siccome rappresentato dalla fattura n. 3 del 27.2.20211, relativa alle prestazioni eseguite in favore della Polisportiva A.R.S. di (...) ed aventi ad oggetto, segnatamente, l’attività di consulenza ed assistenza in relazione al tesseramento delle atlete sig.re (...) e (...);
  • il decreto ingiuntivo è stato opposto dal sig. (...), eccependo

(i) la propria carenza di legittimazione passiva atteso che non sarebbe mai intercorso e non risulterebbe provato alcun rapporto tra le parti, prova che sarebbe gravato sull’opposto fornire,

(ii) l’intervenuta prescrizione del credito ai sensi dell’art. 2950 c.c.,

(iii) l’assenza di alcuna attività  utilmente  esperibile  nell’interesse  della  società  sportiva  tenuto conto che il sistema di tesseramento avveniva mediante sistema telematico online che metteva in contatto diretto ogni società o associazione con i server della Federazione Pallavolo;

-          in sede di costituzione la (...)  s.r.l. aveva contestato la fondatezza dell’opposizione, chiedendone il rigetto, evidenziando, in punto di fatto, che era stata effettivamente eseguita la prestazione nell’interesse del sig. (...) che aveva trattato il tesseramento delle atlete direttamente con il dott. , come dallo stesso riconosciuto con e-mail del 18.12.2010; che tale attività non costituiva attività di mediazione in quanto il dott.  avrebbe svolto attività di procuratore sportivo secondo la disciplina del settore sportivo applicabile; che l’attività di cui veniva chiesto il pagamento consisteva nell’effettuazione di trattative, predisposizione dei contratti e soluzione di varie problematiche insorte; che infondata era l’eccezione di prescrizione sia perché l’attività svolta non era inquadrabile come attività di mediazione sia perché l’attività di assistenza da parte del dott.  si sarebbe protratta per tutto il febbraio 2011, di talché l’azione era stata tempestivamente esercitata; che infondata era la richiesta di condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c.;

-          con la sentenza impugnata, il primo giudice, premessa la natura del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ed il conseguente riparto dell’onere della prova, ha ritenuto che l’opposto non avesse dato la prova richiesta della fondatezza della propria pretesa, non consentendo le prove orali quelle documentale di ritenere comprovato il conferimento dell’incarico, conseguentemente revocando il decreto ingiuntivo e condannando l’opposta al pagamento delle spese di lite.

1.1.                                         Tale ricostruzione è stata censurata da parte appellante che, in via di estrema sintesi, lamenta la errata, parziale, lacunosa e contraddittoria interpretazione delle risultanze offerte dall’istruttoria…” (cfr. pag. 5 dell’atto di appello).

Si duole, in particolare, l’appellante della ritenuta carenza di prova in ordine al conferimento dell’incarico, avendo il primo giudice omesso di valutare correttamente le risultanze documentali in atti le quali, già autonomamente considerate, sarebbero state sufficienti a confermare l’esecuzione della prestazione ed a ritenere provato il raggiungimento di un accordo verbale.

Lamenta, ancora, l’appellante l’erronea valutazione delle prove testimoniali, sottolineando la contraddittorietà delle dichiarazioni di alcuni testimoni (in particolare, la deposizione della sig.ra Alessia (...)) rispetto al materiale documentale versato in atti e rilevando che il teste Patrizio Okechukw, estraneo a tutte le parti, aveva dato una ricostruzione dei fatti perfettamente aderente alle tesi dell’attrice.

Rileva, infine, l’appellante che “…quale effetto della riforma della Sentenza relativamente ai capi impugnati per i motivi sopra indicati, ne dovrà conseguire anche la riforma del capo relativo alle spese. In particolare, quest’ultime dovranno essere rimborsate”.

1.2.                                          In sede di costituzione il sig. (...)i ha contestato l’ammissibilità dell’appello per violazione dell’art. 342 c.p.c., sull’assunto che sarebbe stato completamento omessa l’indicazione delle parti della decisione che si intendevano appellare nonché il relativo “profilo volitivo”, risolvendosi l’appello nella mera riproposizione del contenuto di alcune mail o di brani delle testimonianze; nel merito parte appellata ha ribadito che non vi è prova di alcuna prestazione resa su richiesta del sig. (...)i o di persone legittimate a spendere il nome della Polisportiva A.R.S. (...) e che la mail del sig. (...)i, indirizzata al sig. , del 12.7.2010 non aveva valore confessorio giacché non si riferiva alla predisposizione dei contratti delle atlete Francesca ed Alessia (...) ma ad un accordo di sponsorizzazione mai concluso.

1.3.                                        Mutato il giudice istruttore nella persona fisica, la causa è stata chiamata dinanzi lo scrivente per la prima volta all’udienza del 4 novembre 2020 ove, precisate le conclusioni, la causa è stata trattenuta in decisione, con assegnazione dei  termini  di  cui  all’art.  190  c.p.c.;  si  osserva  unicamente,  sul  piano  della dinamica processuale, che all’incombente si è proceduto secondo le forme della cd. trattazione cartolare.

2. Reputa  il  Tribunale  che  l’appello  proposto  sia  inammissibile,

ancorché non per le ragioni dedotte dall’appellato.

2.1.                                         Va, invero, disattesa l’eccezione di inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 342 c.p.c. laddove con la stessa l’appello si duole dell’omessa indicazione delle parti della sentenza che si volevano impugnare e della relativa parte volitiva.

A riguardo, si osserva che a fronte della motivazione del primo giudice, prima richiamata, l’appellante ha contestato le argomentazioni ivi svolte, chiaramente esplicitando le ragioni per cui tale impostazione dovesse essere rivista e riproponendo, dall’altro, le ragioni di merito a sostegno della propria pretesa.

Com’è noto, l’appello  non si  configura  più  come  un novum iudicium,  ma consiste in una revisio fondata sulla denunzia di specifici vizi di ingiustizia o nullità della sentenza impugnata, sicché l’appellante è tenuto sia ad impugnare con specifiche censure la sentenza di primo grado che a fornire la dimostrazione della fondatezza delle singole critiche mosse alle singole statuizioni, il cui riesame è chiesto per ottenere la riforma del capo decisorio appellato.

La Suprema Corte precisa che l’appello deve contenere, i motivi specifici dell’impugnazione, il che sta ad indicare che l’atto d’appello non può limitarsi ad individuare le statuizioni concretamente impugnate e così i capi di sentenza non ancora destinati a passare in giudicato ex articolo 329, cpv., c.p.c. ma deve contenere anche le argomentazioni dirette a confutare la validità delle ragioni poste dal primo giudice a fondamento della soluzione delle singole questioni su cui si regge la decisione e, quindi, non può non indicare le singole questioni sulle quali il giudice ad quem è chiamato a decidere (Cass. 2 febbraio 2005, n. 2041), sostituendo o meno per ciascuna di esse soluzioni diverse da quelle adottate in prime cure.

In sostanza, l’appello non può quindi limitarsi ad una denuncia generica dell’ingiustizia dei capi appellati della sentenza di primo grado, ma deve puntualizzarsi all’interno dei capi di sentenza destinati ad essere confermati o riformati, ma comunque sostituiti dalla sentenza di appello che non è impugnazione rescindente come il ricorso per cassazione (l’avvicinamento alla struttura del quale è solo parziale); e tale puntualizzazione ulteriore avviene appunto nella denunzia di specifici vizi di ingiustizia o nullità della sentenza impugnata (Cass., Sez. Un., 23 dicembre 2005, n, 28498).

L’appello, in altre parole, “…è dato alla parte contro l’ingiustizia della sentenza di primo grado ed è rimessa alla stessa parte, per il principio dispositivo, la determinazione dei fatti nei quali l’ingiustizia si concreta, con la conseguenza della esigenza assoluta della motivazione, quale elemento inseparabile dalla postulazione dell’ingiustizia e con l’ulteriore conseguenza che, in difetto di tale motivazione del vizio denunciato, il giudice del gravame non può procedere alla revisio prioris instantiae…” (Cass,, Sez. Un., 29 gennaio 2000, n. 16).

Da quanto precede, consegue una differenza fondamentale sul piano del riparto degli oneri probatori in grado d’appello rispetto al primo grado.

Ha chiarito la stessa Cassazione che essi, in sede di impugnazione, non ricalcano il riparto derivante dall’applicazione, in primo grado, delle regole stabilite dal primo e dal secondo comma dell’articolo 2697 c.c.: viceversa l’appellante, una volta denunciato esattamente, e specificamente, l’errore commesso dal primo giudice, deve dare la prova della fondatezza del motivo, sicché, per questa via, egli rimane assoggettato  al relativo  onere probatorio indipendentemente dalla posizione ricoperta in primo grado (Cass., Sez. Un., 23 dicembre 2005, n. 28498).

Più recentemente la Corte ha affermato che “…in tema di giudizio d’appello - che non è un iudicium novum, ma una revisio prioris instantiae - il requisito della specificità dei motivi dettato dall’art. 342 c.p.c., (nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore  alle modifiche apportategli dall’art. 54, comma 1, lett. a), del D.L. n. 83 del 2012, conv., con

modif., dalla L. n. 134 del 2012), esige che, alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinarne il fondamento logico giuridico, ciò risolvendosi in una valutazione del fatto processuale che impone una verifica in concreto, ispirata ad un principio di simmetria e condotta alla luce del raffronto tra la motivazione del provvedimento appellato e la formulazione dell’atto di gravame, nel senso che quanto più approfondite e dettagliate risultino le argomentazioni del primo, tanto più puntuali devono profilarsi quelle utilizzate nel secondo per confutare l'impianto motivazionale del giudice di prime cure…” (Cass.4695 del 2017).

2.2.                                         Per completezza espositiva si osserva che sul punto è intervenuta Cass. civ. sez. un. 16 novembre 2017, n. 27199, le cui considerazioni vengono qui riproposte e richiamate anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c. al fine di escludere nella presente fattispecie la denunciata inammissibilità dell’appello:

“…Con il D.L. n. 83 del 2012, come si è visto, il legislatore è intervenuto riscrivendo il testo degli artt. 342 e 434 del codice di rito.

Il testo oggi vigente, applicabile agli atti di appello proposti successivamente alla data dell'11 settembre 2012, non contiene più il riferimento all'esposizione sommaria dei fatti e dei motivi specifici  di impugnazione presente nel testo precedente, ma dispone che "la  motivazione dell'appello deve contenere, a pena di inammissibilità: 1)  l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle  modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal  giudice di primo grado; 2) l'indicazione delle circostanze da cui deriva la  violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione  impugnata".

L'ordinanza interlocutoria ha ricordato che l'interpretazione dei citati articoli non è stata costante nella giurisprudenza di legittimità.

Mentre, infatti, alcune sentenze, pur richiedendo all'appellante di "individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum", hanno escluso che il nuovo testo normativo imponga  alla  parte  di  compiere le proprie  deduzioni  in una  determinata  forma,  magari ricalcando la decisione impugnata ma con diverso contenuto, altre sentenze hanno richiesto all'appellante una specificità ben maggiore, rilevando che l'impugnazione deve, per non essere inammissibile, offrire una "ragionata e diversa soluzione della controversia rispetto a quella adottata dal primo giudice". Altre pronunce hanno invece letto le suindicate disposizioni nel senso che la parte appellante deve affiancare alla parte volitiva dell'impugnazione anche una parte argomentativa, "che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice".

4.2. Rilevano queste Sezioni Unite, innanzitutto, che la giurisprudenza di legittimità che si è andata pronunciando sulle norme introdotte nel 2012 non ha creato, in effetti, alcun contrasto interpretativo.

La prima sentenza sull'argomento è, a quanto consta, la n. 2143 del 5 febbraio 2015,  della Sezione Lavoro. Essa ha evidenziato come la riscrittura della norma sul contenuto  dell'atto di appello risponda ad un'esigenza di contenimento dei tempi processuali, ottenibile solo  esigendo da parte dell'appellante il rispetto "di precisi oneri formali che impongano e traducano  uno sforzo di razionalizzazione delle ragioni dell'impugnazione".

Detti oneri devono "consentire di individuare agevolmente, sotto il profilo della latitudine devolutiva, il quantum appellatum e di circoscrivere quindi l'ambito del giudizio di gravame, con riferimento non solo agli specifici capi della sentenza del Tribunale, ma anche ai passaggi  argomentativi che li sorreggono; sotto il profilo qualitativo, le argomentazioni che vengono  formulate devono proporre lo sviluppo di un percorso logico alternativo a quello adottato dal  primo Giudice e devono chiarire in che senso tale sviluppo logico alternativo sia idoneodeterminare le modifiche della statuizione censurata chieste dalla parte". Ha quindi aggiunto la Sezione Lavoro che la novella "ha, sostanzialmente e ragionevolmente, recepito e formalizzato gli approdi cui era giunta la giurisprudenza più recente, rendendone certa ed efficace la sanzione processuale".

Queste Sezioni Unite, con la successiva sentenza 27 maggio 2015, n. 10878, pronunciata in relazione ad un ricorso per motivi di giurisdizione, hanno avallato e confermato tale orientamento, ribadendo che simile interpretazione è in linea con i risultati cui si era giunti a proposito del testo previgente dell'art. 342, più volte citato. La nuova norma, pertanto, senza rigori di forma, esige che "al giudice siano indicate, oltre ai punti e ai capi della decisione investiti dal gravame, anche le ragioni, correlate ed alternative rispetto a quelle che sorreggono la pronuncia, in base alle quali è chiesta la riforma, cosicchè il quantum appellatum resti individuato in modo chiaro ed esauriente".

Ulteriori pronunce, più recenti, sono andate nella stessa direzione.

Senza pretese di completezza, si possono richiamare l'ordinanza 5 maggio 2017, n.

10916, e la sentenza 16 maggio 2017, n. 11999, entrambe della Terza Sezione Civile.

L'ordinanza n. 10916 ha affermato che il novellato art. 342 c.p.c., non esige  dall'appellante la redazione di un progetto alternativo di sentenza, alcun "vacuo  formalismo", una trascrizione integrale o parziale della sentenza impugnata. Esso richiede,  invece, "la chiara ed inequivoca indicazione delle censure" mosse alla pronuncia appellata, sia  in punto di ricostruzione del fatto che di valutazione giuridica, con precisazione degli argomenti  che si intendono contrapporre a quelli indicati dal primo giudice.

La sentenza n. 11999, oltre ad escludere che l'atto di appello debba essere strutturato come una sentenza ovvero contenere un progetto alternativo di decisione, ha ribadito la perdurante differenza tra l'appello e le impugnazioni a critica vincolata, confermando che lo sforzo di razionalizzazione richiesto alla parte rende oggi inammissibile l'appello contenente solo una sommaria indicazione dei termini di fatto della controversia e delle ragioni per le quali è richiesta la riforma della sentenza. Detta pronuncia ha anche specificato che la riproposizione  delle argomentazioni già svolte in primo grado non è di per sè indice di inammissibilità  dell'appello, purchè sia articolata in modo da evidenziare gli errori nella ricostruzione del fatto o  nell'applicazione delle norme che si imputano alla sentenza di primo grado.

Unica pronuncia che potrebbe, peraltro solo a prima vista, apparire dissonante rispetto agli orientamenti ora delineati è la sentenza 7 settembre 2016, n. 17712, della Sezione Lavoro. Essa, dopo aver rilevato che il termine "motivazione dell'appello" usato dal legislatore "è tipicamente proprio del provvedimento giudiziale", ha precisato che gli artt. 342 e 434 cit. esigono oggi la proposizione di una nuova e diversa ricostruzione del fatto; vi devono essere, quindi, una "pars destruens della pronuncia oggetto di reclamo" e "una par construens, volta ad offrire un progetto alternativo di risoluzione della controversia, attraverso una diversa lettura del materiale di prova acquisito o acquisibile al giudizio". Di qui la conclusione, richiamata anche nell'ordinanza interlocutoria, secondo cui l'atto di appello deve offrire una "ragionata e diversa soluzione della controversia rispetto a quella adottata dal primo giudice".

5.  La risposta al quesito.

5.1.                                           Ritengono queste Sezioni Unite che gli approdi interpretativi ai quali la giurisprudenza della Corte è già pervenuta all'indomani della riforma del 2012 debbano essere oggi confermati, con le precisazioni che seguono.

La modifica in questione, lungi dallo sconvolgere i tradizionali connotati dell'atto di  appello, ha in effetti recepito e tradotto in legge ciò che la giurisprudenza di questa Corte,  condivisa da autorevole e maggioritaria dottrina, aveva affermato già a partire dalla sentenza n.  16 del 2000 suindicata, e cioè che, ove l'atto di impugnazione non risponda ai requisiti  stabiliti, la conseguente sanzione è quella dell'inammissibilità dell'appello. Ciò che il nuovo  testo degli artt. 342 e 434 cit. esige è che le questioni e i punti contestati della sentenza  impugnata siano chiaramente enucleati e con essi le relative doglianze; per cui, se il nodo critico  è nella ricostruzione del fatto, esso deve essere indicato con la necessaria chiarezza, così come  l'eventuale violazione di legge. Ne consegue che, così come potrebbe anche non sussistere alcuna  violazione di legge, se la questione è tutta in fatto, analogamente potrebbe porsi soltanto una  questione di corretta applicazione delle norme, magari per presunta erronea sussunzione della  fattispecie in un'ipotesi normativa diversa; il tutto, naturalmente, sul presupposto ineludibile  della rilevanza della prospettata questione ai fini di una diversa decisione della controversia.

Va quindi riaffermato, recuperando enunciazioni di questa Corte relative al testo precedente la riforma del 2012, che nell'atto di appello deve affiancarsi alla parte volitiva una parte argomentativa, che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. La maggiore o minore ampiezza e specificità delle doglianze ivi contenute sarà, pertanto, diretta conseguenza della motivazione assunta dalla decisione di primo grado. Ove le argomentazioni della sentenza impugnata dimostrino che le tesi della parte non sono state in effetti vagliate, l'atto di appello potrà anche consistere, con i dovuti adattamenti, in una ripresa delle linee difensive del primo grado;

mentre è logico che la puntualità del giudice di primo grado nel confutare determinate argomentazioni richiederà una più specifica e rigorosa formulazione dell'atto di appello, che dimostri insomma di aver compreso quanto esposto dal giudice di primo grado offrendo spunti per una decisione diversa.

L'individuazione di un "percorso logico alternativo a quello del primo giudice", però, non  dovrà necessariamente tradursi in un "progetto alternativo di sentenza"; il richiamo, contenuto  nei citati artt. 342 e 434, alla motivazione dell'atto di appello non implica che il legislatore  abbia inteso porre a carico delle parti un onere paragonabile a quello del giudice nella stesura  della motivazione di un provvedimento decisorio. Quello che viene richiesto - in nome del criterio  della razionalizzazione del processo civile, che è in funzione del rispetto del principio  costituzionale della ragionevole durata - è che la parte appellante ponga il giudice superiore in  condizione di comprendere con chiarezza qual è il contenuto della censura proposta,  dimostrando di aver compreso le ragioni del primo giudice e indicando il perchè queste siano  censurabili. Tutto ciò, inoltre, senza che all'appellante sia richiesto il rispetto di particolari  forme sacramentali o comunque vincolate. 

Ritengono queste Sezioni Unite, trattandosi della risoluzione di una questione di massima di particolare importanza che riveste una portata di sistema, di dover ribadire che la riforma del 2012 non ha trasformato, come alcuni hanno ipotizzato, l'appello in un mezzo di impugnazione a critica vincolata. L'appello è rimasto una revisio prioris instantiae; e i giudici di secondo grado sono chiamati in tale sede ad esercitare tutti i poteri tipici di un giudizio di merito, se del caso svolgendo la necessaria attività istruttoria, senza trasformare l'appello in una sorta di anticipato ricorso per cassazione. La diversità tra il giudizio di appello e quello di legittimità va fermamente ribadita proprio alla luce della portata complessiva della riforma legislativa del 2012 la quale, come ha osservato l'ordinanza interlocutoria, mentre ha introdotto un particolare filtro che può condurre  all'inammissibilità dell'appello a determinate condizioni (artt. 348 bis e 348 ter c.p.c.), ha nel  contempo ristretto le maglie dell'accesso al ricorso per cassazione per vizio di motivazione; il che  impone di seguire un'interpretazione che abbia come obiettivo non quello di costruire un'ulteriore  ipotesi di decisione preliminare di inammissibilità, bensì quello di spingere verso la decisione nel  merito delle questioni poste.

D'altra parte, come ha giustamente posto in luce l'ordinanza n. 10916 del 2017, è una regola generale quella per cui le norme processuali devono essere interpretate in modo da favorire, per quanto possibile, che si pervenga ad una decisione di merito, mentre gli esiti abortivi del processo costituiscono un'ipotesi residuale. deve dimenticarsi, come queste Sezioni Unite hanno già ribadito nella sentenza n. 10878 del 2015, che la Corte Europea dei diritti dell'uomo ha chiarito in più occasioni che le limitazioni all'accesso ad un giudice sono consentite solo in quanto espressamente previste dalla legge ed in presenza di un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (v., tra le altre, la sentenza CEDU 24 febbraio 2009, in causa C.G.I.L. e Cofferati contro Italia).

5.2.  Deve essere, pertanto, enunciato il seguente principio di diritto:

"Gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. 22 giugno 2012,

n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, vanno interpretati nel senso che l'impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. Resta tuttavia escluso, in considerazione della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, che l'atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado…”.

In definitiva, gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (nello stesso senso anche Cass. n. 13535 del 30.5.2018).

E nella specie è chiaramente presente tale tipologia di argomentazione nell’atto di appello che ha ritenuto di criticare la sentenza impugnata in ragione alle rationes decidendi poste a suo fondamento, avuto precipuo riguardo alla valutazione operata del compendio probatorio raccolto.

Va da sé, del resto, che, laddove si contesti la valutazione del compendio probatorio, la censura della sentenza, oltre che a rapportarsi con l’ordito motivazionale nella stessa concretamente seguito, non può che riproporre il contenuto delle risultanze istruttorie disponibili al fine di far emergere il risultato probatorio concretamente desunto dal primo Giudice e quello che, a dire della parte appellante, sarebbe stato invece desumibile.

Sicché l’eccezione di inammissibilità è priva di fondamento.

  1. In altro, invero, risiedono le ragioni dell’inammissibilità dell’appello che, in qualche misura, si collegano anche al rispetto dell’art. 342 c.p.c.

La S.C. ha chiarito (cfr. anche di recente Cass. Civ. sez. II, 19/01/2021, n. 769) che le sentenze rese dal giudice di pace in cause che, come quella di specie, sono di valore non eccedente i millecento Euro (salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi mediante moduli o formulari di cui all'art. 1342 c.c.) sono da considerare sempre pronunciate secondo equità, ai sensi dell’art. 113 c.p.c., comma 2, con la conseguenza che il tribunale, in  sede di appello avverso sentenza del giudice di pace pronunciata in  controversia di valore inferiore al suddetto limite, è tenuto a verificare, in

 base all’art. 339 c.p.c., comma 3, come sostituito dal D.Lgs. n. 40 del 2006,

 art. 1, soltan to l’in osservanza delle nor me sul procedimen to, delle no rme   costituzionali e comunitarie e dei principi regolatori della materia, che  non possono essere violati nemmeno in un giudizio di equità (cfr. Cass. n. 5287 del 2012, la quale, in applicazione del principio esposto, ha escluso la deducibilità in appello della violazione dell'art. 2697 c.c., sull’onere della prova contro la sentenza pronunciata dal giudice di pace secondo equità, trattandosi di regola di diritto sostanziale che dà luogo ad un error in iudicando).

A tal riguardo, ai fini della determinazione del valore, si ricorda, altresì, che nel procedimento innanzi al giudice di pace, quando una controversia abbia ad oggetto un credito contenuto nei limiti del giudizio di equità, la relativa sentenza è impugnabile - secondo il regime processuale anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, nella specie applicabile ratione temporis - con il ricorso per cassazione e non con l’appello, senza che assuma rilievo il fatto che sia stata  avanzata domanda riconvenzionale di condanna per lite temeraria ex art. 96 cod.  proc. civ., perché essa attiene al regolamento delle spese processuali senza  incidere sul valore della controversia, che resta contenuto nel limite entro il quale

 il giudice di pace dec ide sec ondo equità, ai sensi dell’a rt. 113, sec ondo comma,   cod. proc. civ.,  con conseguente ricorribilità della  decisione di  primo  grado  direttamente in cassazione (cfr. Cass. civ., sez. III, 04.04.2013, n. 8197)

Orbene, premesso in punto di fatto, che la pretesa creditoria era stata azionata per il complessivo importo di € 960,00 (oltre interessi e spese di procedura), costituisce circostanza nota quella secondo cui contro le decisioni rese dal Giudice di Pace nell’ambito della c.d. “giurisdizione equitativa necessaria” (quale deve essere ritenuta anche l’impugnata sentenza, che ha deciso un’opposizione a decreto ingiuntivo per un importo originario, inferiore ad € 1.100, atteso che le sentenze del Giudice di Pace rese in controversie di valore non superiore a € 1.100 sono da considerare sempre pronunciate secondo equità per testuale disposizione normativa, anche se il giudicante abbia applicato una norma di legge ritenuta corrispondente all’equità ovvero abbia espressamente menzionato norme di diritto senza alcun riferimento all’equità, dovendosi, in tale ultima ipotesi, presumere implicita la corrispondenza della norma giuridica applicata alla regola di equità: cfr. Cass. ord., 3 aprile 2012, n. 5287, e Cass., 25 febbraio 2005, n. 4079), è ora ammesso ai sensi dell’attuale disposto dell’art. 339, comma 3°, c.p.c. soltanto l’appello a motivi limitati se pubblicate a far tempo dal 3.3.2006 (come dispone l’art. 27 del d. lgs. n. 40/2006): sono infatti deducibili esclusivamente la violazione delle norme sul procedimento, di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia.

Dall’assetto scaturito dalla riforma di cui al d.lgs. n. 40 del 2006 e, particolarmente, dalla nuova disciplina delle sentenze impugnabili emerge, cioè, che, riguardo alle sentenze pronunciate dal Giudice di pace nell’ambito del limite della sua giurisdizione equitativa necessaria, ai sensi dell’art. 113, comma 2, cod. proc. civ., il suddetto appello a motivi limitati (per denunziare che il giudicante ha superato i limiti assegnati al suo potere/dovere di decidere secondo equità) è l’unico rimedio impugnatorio ordinario ammesso, anche in relazione a motivi attinenti alla giurisdizione, alla violazione di norme sulla competenza e al difetto di radicale assenza della motivazione (Cass. Sez. Un., 18 novembre 2008, n. 27339; Cass. ord., 13 marzo 2013, n. 6410).

Pertanto, è da valutare in via preliminare l’ammissibilità del gravame, nel senso che i motivi che si possono ritenere proposti (e sui quali il Tribunale è stato indubbiamente e ritualmente chiamato a pronunziarsi in appello) si traducano, effettivamente, in denunce di avvenute violazioni, da parte del Giudice di pace, dei richiamati vincoli di giudizio dettati dal disposto del comma 3 dell’art. 339 cod. proc. civ., ovvero non si risolvano nella critica della decisione assunta dal giudice di primo grado e dalla richiesta di una rivalutazione della decisione che da tali limiti prescinda.

3.1.                                         Volendo procedere ad una esemplificazione, possono essere denunziati con l’appello ristretto anzitutto e sul piano processuale dei vizi di nullità della sentenza per:

a)                                         incompetenza del Giudice di pace che - risolvendo a proprio favore la relativa questione - abbia deciso la causa nel merito;

b)                                        ipotesi di mutatio libelli per sostituzione di elementi materiali che integrano il fatto costitutivo della pretesa (posto che, invece, l’applicazione del principio iura novit curia, di cui all’art. 113, comma 1, cod. proc. civ., fa, bensì, salvo il potere-dovere del Giudice di dare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonché all’azione esercitata in causa, ricercando le norme applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame e ponendo a fondamento della sua decisione anche principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, fermo restando, però, il divieto di ultra o extrapetizione, di cui all’art. 112 cod. proc. civ., che impedisce al Giudice di pronunziare oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti ovvero su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello oggetto di domanda - cfr. Cass. ord., 9 aprile 2018, n. 8645; Cass., 27 luglio 2015, n., 15678; Cass. 24 luglio 2012, n. 12943 - ovvero il divieto di porre a base della decisione fatti che, ancorché rinvenibili all’esito di una ricerca condotta sui documenti prodotti, non siano stati oggetto di puntuale allegazione o contestazione negli scritti difensivi delle parti - cfr. Cass. ord., 27 novembre 2018, n. 30607; Cass. ord., 7 maggio 2019, n. 12017);

c)                                        omessa pronunzia, essendo il Giudice, comunque, tenuto a pronunciare su tutta la domanda, e l’inosservanza dell’art. 112 cod. proc. civ. rientra tra le violazioni delle norme sul procedimento, denunciabili in sede di impugnazione ai sensi dell’art. 339, comma 3, cod. proc. civ. (Cass., 26 maggio 2000, n. 6967; Cass., 29 gennaio 1999, n. 807).

Sul piano sostanziale, poi, l’impugnazione è sicuramente consentita quando la lesione della norma costituzionale o comunitaria costituisca essa stessa la causa

petendi della domanda (cfr. Cass. ord., 21 dicembre 2018, n. 33340; Cass. ord., 3 luglio 2018, n. 17321).

3.2.                                         I principi informatori della materia sono principi non codificati, ossia che si sono formati nell’ambito del diritto vivente. Tali principi si identificano solo con quelli fondamentali ai quali si ispira la disciplina positiva, pertanto, chi lamenta la violazione di un principio informatore deve individuarlo ed indicarlo espressamente nell’atto d’appello (Cass., 11449/2007; Cass., 2649/2013).

Secondo un orientamento consolidato della Suprema Corte i principi informatori della materia non rappresentano una regola di giudizio, ma una limitazione del potere discrezionale nel determinare la regola equitativa del caso concreto, giacché il risultato della scelta operata dal giudice, pur potendo non coincidere con quello raggiunto dal legislatore, dovrà necessariamente rispettare i principi ai quali questi si è ispirato nel disciplinare la materia (Cass., 3005/2014).

Pertanto, nell’atto d’appello contenente i motivi d’impugnazione, l’attore che denuncia la violazione di un principio informatore della materia deve con chiarezza indicare specificamente quale sia il principio violato e come la regola equitativa individuata dal giudice di pace si ponga in contrasto con esso, trattandosi di principi che - non essendo oggettivizzati in norme - devono essere prima individuati da chi ne lamenta la violazione e soltanto successivamente verificati dal giudice di legittimità prima nella loro esistenza e quindi nella loro eventuale violazione (Cass., 3005/2014; Cass. 284/2007; Cass. 8466/2010).

Per tutto quanto sopra dedotto, dunque, l’appellante non può limitarsi a denunciare la violazione di specifiche norme giuridiche ma deve indicare con chiarezza il principio informatore che assume violato e deve anche specificare in qual modo la regola equitativa posta a fondamento della pronuncia impugnata si ponga con esso in contrasto". (Cass. civ. Sez. VI - 2 Ord., 11/02/2014, n. 3005; Cass. Civ. sez. II, 15.02.2011 n. 3720; Cass. n. 11366 del 2010; Cass. n. 16545 del 2008; Cass. n. 26687 del 2005).

3.3.                                        A riguardo, con ciò avvicinandoci al tema del presente procedimento, tra i principi informatori della materia rientra anche quello concernente le regole dell’onere della prova.

In verità, è da precisare (con Cass. Sez. Un., 5 agosto 2016, n. 16598) che la violazione dell’art. 2697 cod. civ. si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era  gravata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, mentre, per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 cod. proc. civ., è necessario denunciare che il Giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che, per realizzare la violazione, deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte, invece, di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 cod. proc. civ.); diversamente, detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 cod. proc. civ., che, non a caso, è rubricato alla valutazione delle prove.

P ertanto, no n rie ntra nell’ambito dell’inosser vanza delle nor me sul   procedimento la valutazione di attendibilità di una prova testimoniale,  ovvero, più in generale, delle risultanze probatorie acquisite (nella specie,  come operata dal Giudice di pace), sicché le relative censure sono  ammissibili soltanto per superamento dei limiti costituiti dalle  norme  costituzionali o comunitari e dai principi informatori della materia (tra I quali ultimi, peraltro, si colloca il principio che affida proprio al giudice il  potere di valutare la rilevanza della prova: Cass., 19 agosto 2011, n. 17437;  cfr. Cass. ord., 29 dicembre 2017, n. 31152).

Con riferimento, poi, all’art. 116 c.p.c., poiché la norma in oggetto prescrive come regola di valutazione delle prove quella secondo cui il giudice deve valutarle secondo prudente apprezzamento, a meno che la legge non disponga altrimenti, la sua violazione è concepibile solo a) se il giudice ha valutato una determinata prova ed, in genere, una risultanza probatoria, per la quale l’ordinamento non prevede uno specifico criterio di valutazione diverso dal suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore ovvero il valore che il legislatore attribuisce ad una diversa risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), b) se il giudice ha dichiarato di valutare secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza soggetta ad altra regola, così falsamente applicando e, quindi, violando la norma in discorso, oltre che quelle che presiedono alla valutazione secondo diverso criterio della prova di cui trattasi (in tal senso, Cass. 10.6.2016 n. 11892).

3.4.                                        Resta, per altro, fermo che, in ogni caso (e, perciò, anche quando si verta sulla denunzia di visi processuali), il mezzo impugnatorio è pur sempre diretto, nella sua funzione essenziale, a provocare un riesame della causa nel merito, non limitato necessariamente al controllo di vizi specifici (cfr. Cass. Sez. Un., 16 novembre 2017, n. 27199; Cass. ord., 15 febbraio 2019, n. 4559).

Pertanto, nell’ambito dei motivi che consentono l’appello delle sentenze del Giudice di pace pronunciate secondo equità, il giudizio di secondo grado, pur limitato al controllo di vizi specifici, è comunque caratterizzato dalla sua essenza di mezzo a critica libera derivante dall’effetto devolutivo pieno della materia esaminata in primo grado, sicché la circostanza che l’appello contro le sentenze pronunciate secondo equità, a norma dell’art. 113, comma 2, cod. proc. civ., sia consentito esclusivamente per violazione di norme sul procedimento (oltre che per  violazione  di  norme  costituzionali  e  comunitarie,  nonché  dei  principi regolatori della materia) non impedisce al Giudice di appello di sindacare la  valutazione delle prove compiuta dal Giudice di pace, la quale non può ritenersi

 es clusa in ragione del fatto che le norme sul riparto dell’onere della prova e sui   singoli mezzi di prova abbiano natura sostanziale (cfr. Cass. ord., n. 33340/2018, cit.; Cass. ord., n. 17321/2018, cit.; Cass. ord., 28 giugno 2018, n. 17058).

  1. Tanto premesso in punto di diritto, osserva il Tribunale che nessuno degli

elementi indicati ricorre nel caso di specie rendendo l’appello inammissibile.

Non costituisce, invero, violazione del principio informatore della materia l’aver affermato che nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo il creditore opposto ha la veste di attore in senso formale e sostanziale, come tale tenuto a dare la prova della fondatezza della propria pretesa e, nel caso in esame, che l’odierna appellante avesse…l’onere  di provare  il conferimento dell’incarico e l’attività effettivamente svolta in adempimento del mandato…”.

A riguardo, infatti, giova ricordare che secondo i noti principi in tema di riparto dell’onere probatorio nelle azioni contrattuali di adempimento, di risarcimento danni da inadempimento e di risoluzione (art. 1453 c.c.), incombe al creditore esclusivamente di dimostrare il titolo e la scadenza delle obbligazioni che assume inadempiute, e di allegare il fatto d’inadempimento, incombendo poi al debitore convenuto di allegare e dimostrare dei fatti impeditivi, modificativi od estintivi idonei a paralizzare la domanda di controparte (così per tutte, da ultimo Cass. n.15659/2011 per cui in tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento”; conf. Cass. n.3373/2010; Cass. n.9351/2007; Cass. n.1743/2007; Cass. n.20073/2004).

In tal senso va altresì specificato che se da un lato il creditore che agisce per il pagamento deve dare prova dei fatti costitutivi del proprio credito e di avere correttamente adempiuto la propria prestazione, ogni qualvolta il debitore svolga eccezione di inadempimento, è pur vero che la valutazione circa l’adeguatezza della prova fornita passa attraverso una verifica preliminare delle contestazioni sollevate dal debitore, atteso che tanto più puntuali e specifici sono i rilievi di inadempimento sollevati, tanto più circostanziata dovrà essere la prova del corretto adempimento offerta dal creditore.

Con specifico riferimento, poi, al procedimento monitorio si osserva che la regola appena enunciata non subisce certo deroghe in ragione della natura del procedimento e della meramente apparente inversione delle posizioni processuali.

A riguardo, di poi, è bene notare che il Giudice dell’opposizione è investito della cognizione non della sola fondatezza formale del decreto ingiuntivo opposto bensì dell’intero rapporto obbligatorio, di cui, conseguentemente, dovranno essere allegati e provati i relativi fatti costitutivi ovvero quelli modificativi, impeditivi ed estintivi, secondo la consueta (e certo non derogata) articolazione del riparto dell’onere della prova, il quale non subisce modifica a cagione della mera inversione del rapporto processuale fra le parti.

Sicché è circostanza più che pacifica quella per cui, una volta ottenuto il decreto ingiuntivo sulla base della documentazione depositata competa, da un lato, al ricorrente in ingiunzione offrire la prova, nei sensi di cui si è prima detto, degli elementi costitutivi da cui tragga origine la pretesa azionata, rivestendo questi la parte il ruolo di attore in senso sostanziale.

Ancora, allo stesso modo, costituisce circostanza pacifica quella per cui la parte opponente che intenda contestare la validità di quella pretesa è gravata di un onere di specifica contestazione della validità delle condizioni contrattuali applicate ovvero degli importi ingiunti, così offrendo gli elementi che scalfiscano la fondatezza della pretesa creditoria.

In buona sostanza, come correttamente affermato dal primo giudice, in tema di giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, grava su chi fa valere un diritto in giudizio il compito di fornire gli elementi probatori a sostegno della propria pretesa sicché parte opposta deve dimostrare gli elementi costitutivi del credito azionata in sede sommaria, mentre l’opponente ha l’onere di contestarne la fondatezza allegando circostanze estintive o modificative del medesimo o l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda.

4.2.                                           Non  costituisce,  infine,  violazione  del  principio  informatore  della materia le valutazioni in ordine alla maggiore o minore attendibilità dei testimoni.

Occorre in proposito ricordare, in relazione alla valutazione del materiale istruttorio raccolto in giudizio, che:

      • in tema di valutazione delle prove, nel nostro ordinamento, fondato sul principio del libero convincimento del giudice, non esiste una gerarchia di efficacia  delle prove, per  cui i  risultati di talune di esse debbano necessariamente prevalere nei confronti di altri dati probatori, essendo rimessa la valutazione delle prove al prudente apprezzamento del giudice (cfr. ex multis Cass. Sez. 3, Sentenza n. 9245 del 18/04/2007);
      • spetta quindi in via esclusiva al Giudice del merito- in forza del principio

 generale di cui all’art. 116 c.p.c.- il compito di individuare le fonti del  proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne

 l’a ttendibilità e la conc ludenz a, di scegliere, tra le complessive risultanze   del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la  veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza

 (sa lvo i casi tassativamente previs ti dalla legge) all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti Cass. Sez. 3, Sentenza n. 7074 del 28/03/2006);

  • la norma in questione sancisce la fine del sistema fondato sulla predeterminazione legale dell’efficacia della prova, conservando solo specifiche ipotesi di fattispecie di prova legale, e la formula del “prudente apprezzamento” allude alla ragionevole discrezionalità del giudice nella valutazione della prova, che va compiuta tramite l’impiego di massime di esperienze (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10484 del 2004 anche in motivazione);
  • l’esame dei documenti esibiti e delle deposizione dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale espletata, i l giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni   invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di  quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, privilegiando in  via logica taluni mezzi di prova e disattendendone altri, in ragione del loro diverso spessore probatorio, nonché la determinazione giudiziale assunta di ammettere o meno la prova, così come quella di tenere conto  o no della prova assunta involgono apprezzamenti di fatto riservati al  giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria  decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro  limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10484 del 2004 anche in motivazione; Cass. Sez. L, Sentenza n. 11933 del 07/08/2003; Cass. N. 9662 del 2001; N. 13910 del 2001; Sez. L, Sentenza n. 10739 del 02/12/1996);
  • conseguentemente, ai fini di una corretta decisione, il giudice non è  tenuto a valutare analiticamente tutte le risultanze processuali, a  confutare singolarmente le argomentazioni prospettate dalle parti,  essendo invece sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro  complesso,  indichi  gli  elementi  sui  quali  intende  fondare  il  suo

 convincimento e l’iter seguito nella valutazione degli stessi e per le  proprie conclusioni, implicitamente disattendendo quelli logicamente  incompatibili con la decisione adottata (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10484 del 2004 anche in motivazione Cass. 6 settembre 1995, n. 9384).

Tanto premesso, le deduzioni svolte nell’atto di appello si limitano essenzialmente a riproporre una diversa lettura del compendio probatorio, censurando la valutazione di attendibilità ovvero inattendibilità fatta dal primo giudice, senza che con ciò che sia dedotta la violazione dei principi regolatori della materia che, come già osservato, non corrispondono alle singole norme regolatrici della specifica materia, alle regole accessorie e contingenti che non la qualificano nella sua essenza, ma costituiscono enunciati desumibili dalla disciplina positiva complessiva della materia stessa (cfr. Cass. n. 5287 del 2012, la quale, in applicazione del principio esposto, ha escluso la deducibilità in appello della violazione dell’art. 2697 c.c., sull’onere della prova contro la sentenza pronunciata dal giudice di pace secondo equità, trattandosi di regola di diritto sostanziale che dà luogo ad un error in iudicando, richiamata anche da Cass. Civ. sez. II, 17/02/2021, n. 4170).

E nella specie non è ravvisabile tale necessaria violazione nella asserita violazione del vaglio di attendibilità delle prove testimoniali e più in generale del materiale documentale, dolendosi l’appellante, in buona sostanza, del malgoverno delle complessive risultanze istruttorie da parte del giudice di prime cure.

4.3.                                            Non è superfluo soggiungere che la sentenza secondo equità pronunciata dal giudice di pace non può essere impugnata per vizi di motivazione, salva l’ipotesi di motivazione del tutto mancante o puramente apparente (e quindi mesi stente), ovvero fondata su argomentazioni inidonee ad evidenziarne la ratio decidendi, ovvero ancora perplessa o assolutamente contraddittoria per contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili. Ne consegue che le censure relative alla sufficienza ed alla correttezza della motivazione non sono deducibili(Cass. n. 17897/2011).

Tutte condizioni evidentemente estranee alla sentenza gravata di appello, che contiene l’indicazione del proprio iter motivazionale e contiene la propria valutazione del compendio probatorio ritenendo che dallo stesso non potesse ritenersi raggiunta la prova del conferimento dell’incarico sul piano documentale, posto che non vi era in atti alcun documento, sul piano testimoniale, a prescindere dalle censure di correttezza della valutazione sollevate dall’appellante.

Deve, pertanto, ritenersi che i motivi di appello proposti esulino dalle ipotesi tassativamente enucleate  dall'art. 339, comma terzo, c.p.c., con conseguente inammissibilità dell’impugnazione.

Si aggiunga che la Suprema Corte, nel regime previgente a quello introdotto con il d. lgs. 40/2006, nel rilevare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. (sotto il profilo della esclusione del doppio grado di giurisdizione), dell’art. 339, terzo comma, nella parte in cui prevede l’inappellabilità delle sentenze pronunciate dal giudice di pace secondo equità in controversie non eccedenti il valore indicato nell’art. 113, secondo comma, dello stesso codice, ha precisato che il principio del doppio grado di giurisdizione di merito, non essendo espresso dalla Costituzione, ma dalla legge ordinaria, può trovare in essa deroga e tale deroga, se correlata alla scarsa consistenza economica della controversia ed alla sua decisione secondo equità, non si espone a sospetti di violazione delle citate norme costituzionali, tenendo conto che il parametro del valore, quale possa essere La rilevanza del dibattito, rende giustificata e ragionevole l'opzione di accelerare il procedimento (negando il rimedio dell'appello) sulla scorta di un apprezzamento di predominanza dell' interesse (individuale e generale) ad una sollecita definizione della causa, e che inoltre la tutela del diritto di difesa va coordinata con l'esigenza, di pari livello costituzionale, di disciplinare i modi ed i limiti del suo esercizio in concreto, al fine di assicurare la conclusione della lite entro un congruo termine” (Cass., Sez. U, n. 12749/2004).

  1. L’appello deve, dunque, ritenersi inammissibile.

Le spese di lite sono compensate tenuto conto del rilievo officioso della questione posta a fondamento della presente decisione.

In forza dell’art. 13, comma 1 quater T.U.S.G., nel testo modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, commi 17 e 18, applicabile ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013 (cfr. Sez. 6 - 3, sent. n. 14515 del 10/07/2015, Rv. 636018), si dà atto, conformemente alla più recente giurisprudenza di legittimità: cfr. Cass. civ. sez. un. 20 febbraio 2020, n. 43151,

della ricorrenza dei presupposti per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Il Tribunale di (...), definitivamente pronunciando sulla causa di cui in epigrafe, ogni altra istanza, eccezione e deduzione disattesa, così provvede:

        • dichiara inammissibile l’appello e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata;
        • compensa le spese.

Perugia, li 21 maggio 2021

Il Giudice

Dott. Luca Marzullo

 

  • 1 In particolare, in detta pronuncia si è osservato che:
  • - poiché l’ulteriore importo del contributo unificato che la parte impugnante è obbligata a versare, allorquando ricorrano i presupposti di legge, ha natura di debito tributario, la  questione circa la sua debenza è estranea alla  cognizione della  giurisdizione civile  ordinaria, spettando invece alla giurisdizione del giudice tributario;
  • poiché la debenza di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione è normativamente condizionata a due presupposti”, il primo, di natura processuale, costituito dall'aver il giudice adottato una pronuncia di integrale rigetto o di inammissibilità o di improcedibilità dell'impugnazione, mentre il secondo, appartenente al diritto sostanziale tributario, consistente nella sussistenza dell'obbligo della parte che ha proposto impugnazione di versare il contributo unificato iniziale con riguardo al momento dell'iscrizione della causa a ruolo,l'attestazione del giudice dell'impugnazione, ai sensi all'art. 13, comma 1-quater, secondo periodo, T.U.S.G., riguarda solo la sussistenza del primo presupposto, mentre spetta all'amministrazione giudiziaria accertare la sussistenza del secondo”;
  • il giudice dell’impugnazione non è tenuto a dare atto della insussistenza dei presupposti per il raddoppio del CU quando il tipo di pronuncia non è inquadrabile nei tipi previsti dalla norma, dovendo invece rendere l'attestazione di cui all'art. 13, comma 1-quater, T.U.S.G., solo quando tali presupposti sussistono;
  • poiché l’obbligo di versare un importo “ulteriore” del contributo unificato è normativamente dipendente

- ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, T.U.S.G. - dalla sussistenza dell'obbligo della parte impugnante di versare il contributo unificato iniziale, ben può il giudice dell'impugnazione attestare la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento del doppio contributo, condizionandone la effettiva debenza alla sussistenza dell’obbligo di versare il I contributo unificato iniziale”;

  • il giudice dell’impugnazione, quando pronunci l’integrale rigetto o l’inammissibilità o la improcedibilità dell’impugnazione, “deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo del contributo unificato anche nel caso in cui quest’ultimo non sia stato inizialmente versato per una causa suscettibile di venir meno (come nel caso di ammissione della parte al patrocinio a spese  dello Stato)”; per contro, può esimersi dall’attestazione “quando la debenza del contributo unificato iniziale sia esclusa dalla legge in modo assoluto e definitivo”.
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