CORTE COSTITUZIONALE – SENTENZA N. 49/2011 DEL 11/02/2011

SENTENZA N. 49

ANNO 2011

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1, lettera b), e 2, del decreto-legge 19 agosto 2003, n. 220 (Disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva), convertito, con modificazioni, con legge 17 ottobre 2003, n. 280, promosso dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio nel procedimento vertente tra Cirelli Andrea e la Federazione Italiana Pallacanestro (FIP) ed altri con ordinanza dell’11 febbraio 2010, iscritta al n. 194 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visti gli atti di costituzione della FIP, del Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI) nonchè l’atto di intervento della Associazione Sportiva Agorà e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 14 dicembre 2010 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;

uditi l’avvocato Luciano de Luca per l’Associazione Sportiva Agorà, Guido Valori per la FIP, Alberto Angeletti e Luigi Medugno per il CONI e l’avvocato dello Stato Carlo Sica per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

1. – Nel corso di un giudizio avente ad oggetto la impugnazione, proposta da persona tesserata, in qualità di dirigente sportivo, presso la Federazione italiana pallacanestro (FIP) della sanzione disciplinare della inibizione allo svolgimento di ogni attività endofederale per la durata di anni 3 e mesi 4, irrogata nei suoi confronti con decisione della Camera di conciliazione e arbitrato per lo sport del Comitato olimpico nazionale italiano (CONI), e di numerosi altri atti ad essa prodromici, il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con ordinanza depositata in data 11 febbraio 2010, ha sollevato, in riferimento agli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1, lettera b), e 2, del decreto-legge 19 agosto 2003, n. 220 (Disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva), convertito, con modificazioni, con legge 17 ottobre 2003, n. 280.

1.1. – Il giudice rimettente, prima di illustrare i profili di rilevanza e di non manifesta infondatezza della presente questione, riferisce ampiamente in merito alle vicende del giudizio a quo, nei termini qui di seguito riassunti.

Nel marzo del 2007 il ricorrente in tale giudizio, team manager della squadra di pallacanestro Benetton Treviso, fu deferito dal Procuratore federale della FIP di fronte agli organi della giustizia federale in quanto, al fine di consentire il tesseramento per la predetta compagine di un giocatore, avrebbe confezionato un falso atto di risoluzione contrattuale relativo alla posizione di altro giocatore della medesima squadra. Per tali fatti, costituenti illecito sportivo, egli, oltre ad essere stato licenziato dalla Benetton Treviso, veniva sanzionato dal giudice sportivo di primo grado con la inibizione da qualsiasi attività federale per la durata di anni 2. Essendo stato tale provvedimento impugnato, sia dalla FIP che dal tesserato, di fronte alla Corte federale, questa, in accoglimento del gravame proposto dalla Federazione, aggravava la sanzione irrogata protraendo la durata della inibizione sino a complessivi anni 3 e mesi 4. In relazione a tale provvedimento il tesserato proponeva istanza di conciliazione di fronte alla Camera di conciliazione e arbitrato per lo sport che, però, fallito il tentativo di conciliazione, confermava, in sede contenziosa, il precedente provvedimento.

A questo punto il dirigente sportivo inibito, articolando tre motivi di censura (ampliati, in seguito, con altri due motivi aggiunti), impugnava di fronte al TAR del Lazio sia la decisione assunta in sede conciliativa che quelle prese nelle precedenti fasi giustiziali nonché i provvedimenti con i quali egli era stato deferito agli organi della giustizia sportiva. Impugnava, altresì, le disposizioni, di natura statutaria e regolamentare, le quali, disciplinando le modalità di funzionamento della giustizia sportiva, prevedono che i tesserati federali debbano adire gli organi della suddetta giustizia nelle materia di cui all’art. 2 del decreto-legge n. 220 del 2003, comminando a loro volta, in caso di violazione di tale dovere, ulteriori sanzioni disciplinari.

1.2. – Nel giudizio di fronte al TAR, si costituivano la FIP ed il CONI eccependo ambedue, in via preliminare, il difetto di giurisdizione del giudice adito, e il secondo, sempre preliminarmente, la propria carenza di legittimazione passiva, là dove, nel merito, ambedue sostenevano la infondatezza del ricorso.

1.3. – Dopo che il ricorrente aveva depositato presso la segreteria del TAR copia della sentenza del Tribunale di Bologna che lo aveva assolto dal reato di frode sportiva usando la formula «perché il fatto non sussiste», il TAR, in data 28 gennaio 2010, tratteneva la causa per la decisione

2. – Il giudice a quo ritiene di dovere preliminarmente esaminare l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalle parti resistenti costituite, secondo le quali le sanzioni sportive sarebbero impugnabili, ai sensi dell’art. 2, primo comma, lettera b), del decreto-legge n. 280 del 2003, solo di fronte agli organi della giustizia sportiva.

A tale proposito, rileva di avere più volte affermato la propria giurisdizione in materia di sanzioni disciplinari sportive diverse da quelle tecniche – cioè da quelle preordinate ad assicurare la regolarità della competizione e la rispondenza del risultato ai valori sportivi in essa espressi – in considerazione del fatto che il principio, espresso dal decreto-legge n. 220 del 2003, secondo il quale l’ordinamento sportivo è disciplinato autonomamente da quello statale, trova una espressa deroga in caso di rilevanza per quest’ultimo di situazioni giuridiche, costituenti diritti soggettivi e interessi legittimi, connesse con il primo. È il caso delle controversie che abbiano ad oggetto rapporti giuridici patrimoniali fra società sportive ed atleti, devolute al giudice ordinario, ovvero il caso di controversie relative ai provvedimenti del CONI o delle Federazioni sportive, devolute al giudice amministrativo.

2.1. – Tale impostazione è compendiata dal rimettente nel principio secondo il quale la giustizia sportiva si occupa della applicazione delle regole sportive, quella statale entra in gioco ove la controversia concerna la lesione di diritti soggettivi o interessi legittimi.

In particolare, per ciò che concerne la giurisdizione disciplinare, il TAR ha più volte affermato che l’art. 2, comma 1, lettera b), del decreto-legge n. 220 del 2003, il quale riserva al giudice sportivo le questione relative a «comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni sportive», non opera là dove la sanzione non si esaurisca nell’ambito sportivo, refluendo, invece, anche nell’ordinamento dello Stato.

In applicazione di tale tesi il TAR, prosegue l’ordinanza di rimessione, ha affermato la propria giurisdizione in relazione a ricorsi proposti da dirigenti, società sportive e giudici di gara in relazione alle note sanzioni disciplinari emesse dalla Corte federale della Federazione italiana giuoco calcio al termine della stagione calcistica 2005/2006, mentre la ha declinata in occasione della impugnazione del provvedimento con il quale un arbitro di calcio non era stato iscritto nei ruoli degli arbitri della Serie A e B in considerazione della asserita carenza delle necessarie qualità tecniche.

2.2. – Tale impostazione, ad avviso del rimettente, si fonda anche sulla necessità di dare dell’art. 2, comma 1, lettera b), del decreto-legge n. 220 del 2003 una lettura costituzionalmente orientata, in accordo col principio, più volte espresso dal giudice delle leggi, secondo il quale l’interprete deve, fra più letture possibili di una norma, privilegiare quella idonea a fugare i dubbi di costituzionalità, dovendosi dichiarare la illegittimità costituzionale di una disposizione legislativa solo là dove sia impossibile dare di essa una interpretazione che preservi i valori costituzionali ad essa sottesi.

Aggiunge il rimettente che anche nel caso esaminato nel giudizio a quo vi erano argomenti che, alla luce della pregressa giurisprudenza, consentivano di affermare che il legislatore, col decreto-legge n. 220 del 2003 avesse voluto sì garantire il previo esperimento di tutti i rimedi propri della giustizia sportiva, ma senza che ciò, una volta esauriti quelli, escludesse, per le sanzioni rilevanti anche nell’ordinamento generale, la possibilità di adire il giudice dello Stato.

2.3. – Tale «parabola argomentativa» – riferisce sempre il rimettente TAR – però non è stata, di recente, condivisa dal Consiglio di Stato che, partendo dal rilievo che frequentemente i provvedimenti disciplinari adottati in ambito sportivo incidono, almeno indirettamente, su situazioni giuridiche rilevanti per l’ordinamento generale, si è interrogato se, in tali evenienze, debba prevalere il valore della autonomia dell’ordinamento sportivo ovvero il diritto di azione e di difesa in giudizio. Rispondendo a tale quesito, pur consapevole delle perplessità di ordine costituzionale che ne potrebbero derivare, il Consiglio di Stato ha ritenuto di dover privilegiare la prima delle due possibili alternative, affermando che, visto il tenore letterale degli artt. 2 e 3 del decreto-legge n. 220 del 2003, deve concludersi che il legislatore, nel demandare alla giustizia sportiva la cognizione sui comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e sulle conseguenti sanzioni, non ha attribuito importanza al fatto che queste ultime possano anche produrre effetti incidenti sul piano morale o patrimoniale.

3. – Ritiene, pertanto, il rimettente, tenuto conto del ricordato recente arresto del Consiglio di Stato, di dovere aderire alla impostazione di quest’ultimo, sollevando, però, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera b), e, in parte qua, anche del comma 2 del decreto-legge n. 220 del 2003, convertito con modificazioni, con legge n. 280 del 2003, per contrasto con gli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione, nella parte in cui riserva al giudice sportivo la competenza a decidere in via definitiva le controversie aventi ad oggetto sanzioni disciplinari non tecniche inflitte ad atleti, tesserati, associazioni e società sportive, sottraendole al giudice amministrativo, anche se i loro effetti superano l’ambito dell’ordinamento sportivo, incidendo su diritti ed interessi legittimi.

Riscontrata la rilevanza della questione nel giudizio a quo, atteso che l’esame della impugnazione del ricorrente postula la giurisdizione del giudice adito, il rimettente, aderendo alla ricordata opzione ermeneutica del Consiglio di Stato, volta a privilegiare il tenore letterale dell’art. 2 del citato decreto-legge n. 220 del 2003, a scapito di una lettura sistematica di esso, in passato adottata dallo stesso rimettente, che valorizzi anche il regime derogatorio previsto nella parte finale del comma 2 del medesimo decreto-legge, afferma la non manifesta infondatezza della questione.

3.1. – Ritiene il rimettente che la tesi ora seguita violi in primo luogo l’art. 24 della Costituzione che garantisce il diritto, in ogni stato e grado del procedimento, di agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi legittimi. Violati sarebbero, altresì, gli artt. 103 e 113 della Costituzione, che consentono l’impugnativa degli atti amministrativi di fronte agli organi della giustizia amministrativa, non potendosi dubitare, proprio per la riserva di giurisdizione contenuta nell’art. 3 del decreto-legge n. 220 del 2003, della riconducibilità al genere degli atti amministrativi dei provvedimenti emessi dal CONI e dalle Federazioni sportive.

Né la disciplina censurata può ritenersi giustificata dalla esigenza di assicurare, in considerazione della peculiarità degli interessi in gioco, una giustizia rapida che l’ordinamento statuale non sarebbe in grado di assicurare, dato che lo stesso legislatore del 2003, consapevole di ciò, ha esteso al contenzioso sportivo la disciplina acceleratoria del processo dettata per altre materie in cui è riscontrabile la medesima esigenza di speditezza. Aggiunge il rimettente che, se ciò non fosse stato ritenuto sufficiente, il legislatore, senza giungere a violare il diritto di difesa, avrebbe potuto introdurre ulteriori strumenti di velocizzazione del processo.

Precisa il rimettente che la illegittimità costituzionale non viene da lui ravvisata nella cosiddetta pregiudiziale sportiva, che è, anzi, una logica conseguenza della autonomia dell’ordinamento sportivo, ma nella preclusione del ricorso alla giurisdizione ordinaria una volta esauriti i gradi di quella sportiva. Parimenti estraneo alla problematica in esame è il caso della sanzione tecnica, irrogata nel corso od in conseguenza della competizione sportiva: in tal caso, infatti, manca lo stesso presupposto per poter invocare la tutela dell’art. 24 della Costituzione, cioè la lesione di posizioni giuridiche rilevanti. Invero, alle regole tecniche non può attribuirsi la valenza di norme di relazione da cui scaturiscono diritti soggettivi e contrapposti obblighi per quanti operano nell’ordinamento sportivo. Dovendosi altresì escludere che le decisioni assunte dai giudici di gara abbiano valenza provvedimentale, non è ravvisabile in capo ai destinatari di esse una posizione di interesse legittimo. In definitiva sia la violazione delle regole tecniche proprie di una disciplina sportiva che le sanzioni da essa derivanti appartengono all’«irrilevante giuridico», per il quale la «giustiziabilità può essere […] riservata agli organi della giustizia sportiva».

A tale approdo, rileva il rimettente, era, peraltro, già pervenuto il giudice ordinario allorché aveva affermato, sia pure anteriormente alla entrata in vigore del decreto-legge n. 220 del 2003, che l’ordinamento generale, pur riconoscendo l’autonomia di quello sportivo, per un verso pretende che le norme fondamentali di questo si armonizzino con le proprie e per altro verso assicura la tutela delle posizioni giuridiche che gravitano nella sua orbita, esulando da essa le disposizioni, meramente tecniche, che l’ordinamento speciale ha elaborato ai fini della acquisizione del risultato della competizione sportiva.

3.2. – Ritiene il TAR del Lazio che tale caratteristica, cioè l’esaurire la loro efficacia all’interno dell’ordinamento sportivo, non sia propria anche dei provvedimenti con i quali sono inflitte sanzioni disciplinari per violazioni di regole non tecniche, posto che queste, dirette a modificare in modo sostanziale, sebbene non irreversibile, lo status dell’affiliato, ridondano in danno della sua sfera giuridica rilevante per l’ordinamento generale.

Né può invocarsi al proposito l’autonomia dell’ordinamento sportivo, essendo giustificabile la intangibilità di questo solo in quanto gli atti e le pronunce ad esso riferibili esauriscano i loro effetti all’interno del medesimo.

Ciò non avviene ove le valutazioni e gli apprezzamenti espressi investano con immediatezza i diritti fondamentali del loro destinatario, influendo negativamente sulla sua onorabilità, così come si verifica nel caso di specie, là dove il danno sofferto dal ricorrente starebbe non tanto nella misura interdittiva a lui applicata, quanto nel giudizio di riprovevolezza morale che ad essa sottende.

3.3. – Pertanto il TAR del Lazio ha sollevato, in relazione agli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1, lettera b), e, in parte qua, 2, del decreto-legge n. 220 del 2003, convertito, con modificazioni, con legge n. 280 del 2003, nella parte in cui riserva al giudice sportivo la cognizione sulle controversie relative alle sanzioni disciplinari non tecniche inflitte ad atleti, tesserati associazioni e società sportive, sottraendola al giudice amministrativo, anche là dove esse incidano su diritti ed interessi legittimi che, per l’ordinamento generale, il rimettente TAR è chiamato a tutelare.

4. – Si è costituito in giudizio il CONI chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile ovvero, in subordine, infondata.

4.1. – Ad avviso della difesa del CONI, l’ordinanza di rimessione presenta profili di inammissibilità connessi alla mancata valutazione della natura della decisione, oggetto di impugnazione di fronte al TAR, della Camera di conciliazione ed arbitrato dello sport. Infatti, se tale decisione fosse qualificata come lodo arbitrale rituale, tenuto conto della “compromettibilità” degli interessi sostanziali coinvolti dalla decisione, resterebbe salva la possibilità per il destinatario di essa di giovarsi delle forme di gravame consentite dal codice di rito in relazione a siffatta tipologia di decisioni.

Prosegue la difesa del CONI rilevando che il descritto difetto motivazionale della ordinanza di rimessione neppure potrebbe essere ovviato dal riferimento, peraltro non contenuto nella ordinanza del TAR del Lazio, all’indirizzo giurisprudenziale, da tale parte definito “consolidato”, in base al quale le decisioni assunte in seno alla Camera di conciliazione ed arbitrato dello sport, sebbene assunte nel contraddittorio delle parti, avrebbero la natura di provvedimenti amministrativi, sicché non sarebbe ad esse applicabile la normativa in tema di impugnazione dei lodi arbitrali. Tale orientamento, infatti, è sorto in materia di ricorsi avverso la mancata ammissione a campionati, e si fonda sulla non suscettibilità degli interessi in tali casi coinvolti ad essere oggetto di clausola compromissoria, dato che essi – stante il potere «pacificamente pubblicistico» spiegato dal soggetto che ha denegato la ammissione – sarebbero qualificabili sotto la specie degli interessi legittimi. Poiché tale vincolo negativo non sussisterebbe in materia disciplinare, il ricordato orientamento giurisprudenziale (a prescindere dai dubbi espressi sulla sua correttezza) non sarebbe pertinente al caso in questione.

4.2. – Nell’esaminare, a questo punto, la normativa concernente la giustiziabilità delle sanzioni disciplinari irrogate in ambito sportivo, la suddetta difesa osserva che la loro sottrazione alla cognizione della autorità giudiziaria statuale concerne le sole sanzioni irrilevanti per l’ordinamento generale, posto che la autonomia dell’ordinamento sportivo, sancita dal decreto-legge n. 220 del 2003, non è assoluta, ma, a mente del comma 2 dell’art. 1 del citato decreto-legge, trova una deroga ogni qual volta la sanzione ha una attitudine lesiva che trascende i limiti dell’ordinamento sportivo. Esemplificando, la difesa dell’Ente sostiene che esulano dalla soglia di indifferenza connessa a tale ordinamento le sanzioni che incidono direttamente sullo status di tesserato rescindendo il legame associativo, come nel caso della radiazione, mentre sono comprese in essa quelle da cui non può derivare alcuna lesione rilevante per l’ordinamento generale (sanzioni pecuniarie, inibizione allo svolgimento di attività endofederale, penalizzazioni sportive). Emblematica sarebbe, in tal senso, la stessa vicenda oggetto del giudizio a quo, posto che la inibizione inflitta comporta solo il divieto di svolgere attività in ambito federale, senza incidere sul rapporto di lavoro, unico rilevante sul piano generale, che lega il dirigente alla società sportiva. Parimenti irrilevanti per l’ordinamento generale sono le sanzioni pecuniarie, posto che le federazioni sportive per la loro esazione non possono ricorrere a strumenti apprestati dell’ordinamento statuale ma solo a quelli previsti da quello speciale.

Ritiene, infine, la difesa del CONI che sarà, di volta in volta, compito dell’organo giudicante valutare se i termini della controversia a lui devoluta siano tali da coinvolgere direttamente posizioni giuridiche tutelate dall’ordinamento generale, ritenendo solo in questo caso la propria giurisdizione, declinandola nel caso opposto. Così intesa la disciplina contenuta nel decreto-legge n. 220 del 2003 non dà più adito a dubbi di legittimità costituzionale, risultando non tutelate solo le posizioni giuridiche prive di rilevanza in ambito statuale.

Va tuttavia precisato, prosegue la esponente difesa, che il coinvolgimento della posizione giuridica rilevante deve essere diretto e non, come in passato sostenuto dal TAR del Lazio, anche indiretto, atteso che questa opzione ermeneutica avrebbe l’effetto di rendere “lettera morta” la riserva di giurisdizione disciplinare in favore degli organi della giustizia sportiva posta dal legislatore, dato che, come certamente non è sfuggito a quest’ultimo, ogni sanzione sportiva è di per sé astrattamente idonea a determinare effetti riflessi proiettati anche al di fuori dell’ordinamento sportivo.

Che le uniche sanzioni disciplinari destinate a incidere direttamente su posizioni giuridiche rilevanti per l’ordinamento generale siano quelle coinvolgenti lo status del destinatario è desumibile anche dal fatto che, in sede di conversione in legge del decreto-legge n. 220 del 2003, il Parlamento eliminò dal comma 1 dell’art. 2 l’intera lettera c), la quale riservava all’autonomia dell’ordinamento sportivo anche le questioni concernenti «l’ammissione e l’affiliazione alle Federazioni sportive di società, associazioni sportive e di singoli tesserati», restituendo, quindi, agli organi dello Stato le eventuali controversie su di esse.

4.3. – Osserva, conclusivamente, la difesa del CONI che, nel corso del giudizio a quo, la disciplina dei rimedi giustiziali propri dell’ordinamento sportivo ha subito una sensibile revisione: infatti, attraverso la sostituzione della Camera di conciliazione ed arbitrato dello sport con il Tribunale nazionale di arbitrato per lo sport, si è inteso accentuare sensibilmente i profili arbitrali di tale organo giudicante, dotato espressamente di “competenza arbitrale” e le cui decisioni, definite “lodi” e alle quali si perviene a seguito di un iter procedurale ampiamente ricalcato su quello previsto dal codice di rito per i giudizi arbitrali, sono, se assunte riguardo a controversie «rilevanti per l’ordinamento giuridico dello Stato», suscettibili del mezzo di gravame di cui all’art. 828 cod. proc. civ.

Privo, invece, di siffatta connotazione arbitrale sarebbe, invece, l’altro organo ora previsto al vertice della giustizia sportiva, l’Alta Corte di giustizia sportiva, che, in quanto destinato a giudicare su materie sottratte ai poteri di disposizione delle parti o in assenza di regolamentazione pattizia e poiché munito di un’investitura di fonte regolamentare e formato da soggetti non scelti dalle parti, deve essere considerato «depositario di funzioni decisorie di natura amministrativa», tali, pertanto, da consentire la qualificazione in termini di provvedimento amministrativo degli atti da essa assunti, con le derivanti conseguenze in termini di regime impugnatorio.

Da tali novità ordinamentali la costituita difesa fa discendere la inattualità della questione proposta dal TAR del Lazio ed il rischio che un suo eventuale accoglimento renderebbe l’ordinamento sportivo privo della necessaria riserva di giurisdizione riguardo alle sanzioni disciplinari che non producono effetti esterni all’ordinamento stesso.

5. – Si è, altresì, costituita in giudizio la FIP, la quale ha concluso nel senso della inammissibilità della questione di legittimità costituzionale o, comunque, della sua infondatezza.

5.1. – Quanto alla inammissibilità, la difesa della FIP osserva che, in realtà, il dubbio di legittimità costituzionale dedotto dal TAR non si alimenta tanto del tenore testuale della disposizione censurata quanto deriva dalla interpretazione che di essa ne è stata data dal Consiglio di Stato con la nota decisione n. 5782 del 2008, interpretazione, ricorda la esponente difesa, che lo stesso TAR aveva in passato disatteso, ritenendo, invece, che ne fosse consentita un’altra che facesse salva la giurisdizione statuale ogniqualvolta gli effetti che discendono dalla sanzione disciplinare non esauriscano i loro effetti all’interno dell’ordinamento sportivo ma li proiettino anche all’esterno di esso.

Essendo chiaro che, nel caso di specie, il rimettente avrebbe avuto tutti gli strumenti per verificare l’ambito di efficacia della sanzione disciplinare irrogata al ricorrente nel giudizio a quo, si afferma la inammissibilità della questione, essendo stata questa sollevata non tanto per dirimere un effettivo dubbio di costituzionalità, quanto per ottenere l’avallo della Corte ad una determinata interpretazione normativa.

Ritiene, peraltro, la difesa della FIP che nella fattispecie, avendo il ricorrente in sostanza chiesto al TAR di pronunziarsi sulla sussistenza o meno dei presupposti sostanziali per la irrogazione della sanzione disciplinare, sarebbe evidente il tentativo di trasformare, attraverso la allegazione di effetti indiretti della sanzione, il giudice statale in un giudice (del fatto) sportivo; ma proprio la mancanza di una posizione giuridica tutelata nell’ordinamento generale viene a giustificare, in questo caso, la declinatoria di giurisdizione.

5.2. – Prosegue la Federazione osservando che, comunque, la questione, ove se ne riscontrasse la rilevanza, sarebbe infondata. Infatti l’art. 2 del decreto-legge n. 220 del 2003 va letto congiuntamente all’art. 1 che, nel garantire la autonomia dell’ordinamento sportivo, precisa che siffatta tutela si esplica in termini assoluti solo nelle materie il cui rilievo è esclusivamente interno a tale ordinamento. Invece, là dove entrano in gioco diritti ed interessi protetti dall’ordinamento generale, la garanzia dell’ordinamento particolare cede di fronte a quelle apprestate ai soggetti dall’ordinamento generale.

Non essendo sempre possibile individuare le due diverse tipologie di interessi in gioco, il legislatore ha ritenuto di selezionare due “blocchi di regole” che attengono in maniera esclusiva all’ordinamento sportivo, non potendo questo sopravvivere se non può, per un verso, autonomamente regolamentare la propria attività e non ha, per altro verso, gli strumenti per ottenere, attraverso i procedimenti disciplinari, il rispetto dei principi di lealtà sportiva.

In questo senso al concetto di autonomia si ricollega quello della autodichia, dovendo un ordinamento, legittimato ad emanare regole, essere in grado di istituire organi che valutino le relative controversie. In tal senso il legislatore statuale ha riservato alla esclusiva giurisdizione sportiva le questioni di cui alle lettere a) e b) dell’art. 2 del decreto-legge n. 220 del 2003, ma tale esclusività non sarebbe assoluta, in quanto il giudice statuale è comunque chiamato a conoscere, anche in questi casi, sui diritti e sugli interessi protetti dallo Stato.

Dalla applicazione dei criteri che precedono consegue la infondatezza del dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto-legge n. 220, atteso che la riserva di giurisdizione nelle materie di cui alle lettere a) e b) del medesimo non comporta la sottrazione allo Stato delle sue prerogative riguardanti le posizioni giuridiche soggettive protette dall’ordinamento generale, in quanto per queste ultime rimane salva la giurisdizione del giudice statale.

5.3. – La problematica, in sostanza, consisterebbe nella delimitazione, rimessa all’apprezzamento del giudice, del concetto di cosa sia “giuridicamente rilevante”, così esulando dalla costituzionalità della norma ora in questione. Ove sia rinvenibile tale rilevanza, sussisterebbe l’esigenza di tutela giurisdizionale che legittima il ricorso al giudice statale, ove, invece, sia richiesta la tutela di una posizione di mero fatto, difettando una vera e propria domanda giudiziale, non vi può essere radicamento della giurisdizione statale.

Applicando tali principi all’ipotesi di sanzione disciplinare irrogata in ambito sportivo, se la impugnazione di questa è solo finalizzata al riesame delle medesima questione già decisa dal giudice sportivo, essa, senza che rilevino – per quanto gravi possano essere – gli eventuali effetti indiretti del provvedimento impugnato, è insindacabile dal giudice ordinario.

6. – E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la inammissibilità della questione o, comunque, per la sua non fondatezza.

6.1. – Riguardo alla inammissibilità, la difesa erariale osserva che il TAR rimettente ritiene che la lesione subita dal ricorrente nel giudizio a quo è data dalle pregiudizievoli valutazioni personali contenute negli atti impugnati, tali da fondare un giudizio negativo sulle qualità morali dello stesso, Atteso, però, che nel giudizio a quo è solamente richiesto l’annullamento degli atti impugnati, senza alcun profilo risarcitorio, mancherebbe nel caso di specie – o quantomeno non ne è adeguatamente chiarita dal rimettente la sussistenza – quel riflesso nell’ordinamento generale della sanzione sportiva che ne giustificherebbe il sindacato da parte del giudice statale: di tal che la questione sarebbe irrilevante nel giudizio a quo.

Essa sarebbe, comunque, anche infondata. Il legislatore del 2003 si sarebbe, infatti, limitato a precisare, riportandosi ad un consolidato orientamento precedentemente formatosi sia in dottrina che in giurisprudenza, quali sono gli atti delle “associazioni sportive” indifferenti per l’ordinamento statale e che, pertanto, sfuggono alla giurisdizione di questo. Fra questi gli atti con i quali viene sanzionato il comportamento del tesserato sul piano disciplinare.

Tale scelta risponderebbe ad un generale criterio di ragionevolezza, rispettando l’autonomia dell’associazionismo sportivo.

La diversa opinione formulata dal rimettente, secondo la quale, ferma restando la distinzione fra sanzioni tecniche e sanzioni ordinarie, sarebbero rilevanti per l’ordinamento generale le sanzioni disciplinari ordinarie incidenti su di un interesse patrimoniale o morale del destinatario di esse, sarebbe tale che travolgerebbe anche la stessa distinzione, essendo evidente che anche da una sanzione tecnica possono derivare rilevanti conseguenze sia di carattere patrimoniale che di carattere morale.

Il criterio distintivo deve, invece, costruirsi sul tipo di situazione soggettiva coinvolta, risultando indifferente al diritto statuale quella che non giunga alla soglia di diritto soggettivo o di interesse legittimo.

Data tale indifferenza non vi sarebbe contrasto fra la norma censurata ed i parametri costituzionali evocati.

Parametri che, riguardo agli artt. 103 e 113 della Costituzione, appaiono altresì non pertinenti alla fattispecie, atteso che i provvedimenti resi dalle Federazioni sportive, organismi di diritto privato che nella materia giustiziale non operano su delega del CONI, non sono sussumibili sotto la specie del provvedimento amministrativo, sicché neppure sarebbero suscettibili di essere annullati dal Tribunale rimettente.

7. – È, altresì, intervenuta nel giudizio di legittimità costituzionale la Associazione sportiva Agorà, la quale, in punto di fatto, riferisce di avere impugnato di fronte al TAR del Lazio il provvedimento, reso nei suoi confronti dalla Camera di conciliazione ed arbitrato per lo sport del CONI in data 24 dicembre 2004, con il quale era stata confermata una sanzione disciplinare, consistente nella squalifica dalle competizioni per la durata di un anno e 8 mesi, a lei inflitta dalla Commissione d’appello della Federazione italiana wushu kung fu.

Avendo il TAR rigettato la richiesta di sospensione cautelare del provvedimento impugnato, argomentando, fra l’altro sulla base della dubbia ammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione, la Agorà ha eccepito la illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettere a) e b), del decreto-legge n. 220 del 2003. Avendo, quindi, appreso che il medesimo TAR, in altro giudizio, ha sollevato la questione di costituzionalità della norma citata mentre il giudizio che la vede ricorrente è stato rinviato a data da destinarsi, la Agorà è intervenuta nel presente giudizio, ritenendosi a ciò legittimata, anche sulla base di taluni precedenti della Corte costituzionale, in quanto titolare di una posizione qualificata rispetto alla definizione di esso – attese le conseguenze decisive che la sua definizione avrà nell’ambito della controversia promossa di fronte al TAR – tale da farle affermare la sussistenza di un “interesse diretto” ad intervenire nel presente giudizio strettamente funzionale all’esercizio del diritto di difesa all’interno di un processo pendente.

Riguardo al merito della questione, la interveniente si associa ai dubbi sulla legittimità costituzionale della disposizione censurata formulati dal rimettente, osservando che detta disposizione suscita altresì dubbi in ordine alla sua rispondenza al canone della ragionevolezza.

8. – Nell’imminenza della udienza, la difesa della FIP ha depositato una memoria illustrativa, in larga parte confermativa delle precedenti difese.

8.1. – Riguardo all’intervento della Associazione sportiva Agorà, la difesa federale ne rileva l’inammissibilità, in quanto spiegato da soggetto estraneo al giudizio a quo, non titolare di una posizione sostanziale connessa in modo immediato e diretto a quella dedotta nel giudizio principale.

La FIP insiste poi per la inammissibilità dell’incidente di costituzionalità sollevato dal TAR del Lazio, in quanto la questione difetterebbe del requisito della rilevanza. Infatti, per un verso, essa avrebbe potuto essere risolta verificando se l’oggetto della domanda proposta di fronte al rimettente fosse tra le questioni cui l’ordinamento dello Stato attribuisce tutela e, per altro verso, è lo stesso ricorrente, non avendo dedotto alcun atto lesivo di un proprio diritto né avendo formulato alcuna domanda risarcitoria, a confinare la questione nel “giuridicamente irrilevante”.

Precisa, tuttavia, la FIP che la questione sarebbe, comunque, infondata. Ricordato che sin dal 2004 la Corte di cassazione ha individuato, con riferimento al contenzioso di carattere sportivo, la categoria del “giuridicamente indifferente”, si osserva come, con recentissima ordinanza delle Sezioni unite civili, la Corte regolatrice sia tornata sull’argomento ribadendo che la sussistenza o meno di una situazione astrattamente tutelabile non integra una questione di giurisdizione ma attiene al merito della controversia, costituendo uno dei presupposti della domanda giudiziale.

Nel caso di specie il ricorrente, come detto, non ha dedotto la lesione di una situazione giuridica protetta, lamentando solo la adozione del provvedimento disciplinare ai suoi danni in assenza del necessario presupposto fattuale, costituito dalla ricorrenza dell’illecito sportivo. Mancando, pertanto, ad avviso della difesa della FIP, una posizione giuridica assunta come lesa, non sarebbe possibile affermare la giurisdizione. Né avrebbe senso fondare la giurisdizione sugli effetti indiretti (del provvedimento sanzionatorio), posto che così verrebbe disancorata la domanda dalla esistenza del diritto, facendosi così discendere una «molteplicità di possibili situazioni protette» da un «mero fatto».

Tale conclusione, fra l’altro, tradirebbe il senso del d.l. n. 220 del 2003, in base al quale, invece, esiste un’area giuridicamente neutra e, in quanto tale, sottratta al sindacato del giudice statale.

Il TAR, viceversa, prima di interrogarsi sulla esistenza della posizione tutelabile, si domanda se vi è la sua giurisdizione. Anzi, precisa la FIP, il TAR individua solo una posizione indirettamente tutelata per chiedersi se su di essa vi sia la giurisdizione.

In tal modo, attesa la diversa opinione già espressa dal Consiglio di Stato, il TAR, in realtà, chiede alla Corte l’avallo alla sua interpretazione.

Peraltro, conclude la memoria, ove si esaminino le deroghe al principio della autonomia dell’ordinamento sportivo contenute nell’art. 1 del d.l. n. 220 del 2003 nonché l’art. 3 del medesimo d.l., il quale assegna al TAR del Lazio la cognizione sulle controversie, escluse quelle di natura patrimoniale, esulanti dalla autonomia sportiva, risulterà chiaro che, là dove la vicenda, pur originata all’interno dell’ordinamento sportivo, abbia ad oggetto la lesione di diritti o interessi legittimi – lesione da verificare caso per caso – sarà assicurata la tutela giurisdizionale statale.

 

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio dubita, in riferimento agli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1, lettera b), e 2, del decreto-legge 19 agosto 2003, n. 220 (Disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva), convertito, con modificazioni, con legge 17 ottobre 2003, n. 280, nella parte in cui riserva al solo giudice sportivo la competenza a decidere le controversie aventi ad oggetto sanzioni disciplinari, diverse da quelle tecniche, inflitte ad atleti, tesserati, associazioni e società sportive, sottraendole al sindacato del giudice amministrativo, anche ove i loro effetti superino l’ambito dell’ordinamento sportivo, incidendo su diritti soggettivi ed interessi legittimi.

1.1. – Prima di ogni altra considerazione giova premettere che il decreto-legge n. 220 del 2003 è stato oggetto di talune modificazioni, ancorché non riguardanti le disposizioni censurate, a seguito della entrata in vigore del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al Governo per il riordino del processo amministrativo).

In particolare, all’art. 3, comma 1, le parole «è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo» sono state sostituite, dal comma 13 dell’art. 3 dell’allegato 4 del d.lgs. n. 104 del 2010, dalle parole «è disciplinata dal codice del processo amministrativo»; mentre i successivi commi 2, 3 e 4 sono stati abrogati dal numero 29 del comma 1 dell’art. 4 dell’allegato 4 del d.lgs. n. 104 del 2010.

Tali modificazioni, in realtà, non mutano la disciplina normativa in questione, posto che il codice del processo amministrativo contiene disposizioni che, di fatto, riproducono quelle modificate o abrogate, così lasciando in sostanza inalterato il complessivo quadro normativo.

Esse, pertanto, non incidono sul presente giudizio di legittimità costituzionale.

2. – Deve essere prioritariamente esaminata la ammissibilità dell’intervento in giudizio spiegato dalla Associazione sportiva Agorà. Esso, conformemente alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, deve essere dichiarato inammissibile.

La detta Associazione sportiva fonda la propria legittimazione ad intervenire in giudizio sulla circostanza che, essendo anch’essa destinataria di un provvedimento disciplinare, emesso dalla Camera di conciliazione ed arbitrato per lo sport, oggetto di impugnazione di fronte al TAR del Lazio, è parte di un giudizio amministrativo –rinviato a data da destinarsi in attesa della definizione del presente incidente di legittimità costituzionale – il cui esito è subordinato alla odierna decisione. Questa Corte ribadisce che è sua costante giurisprudenza che possono partecipare al giudizio di legittimità costituzionale le sole parti del giudizio principale ed i terzi portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto nel giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di censura. L’inammissibilità dell’intervento di soggetti diversi rispetto a quelli sopra elencati non viene meno in forza della pendenza di un procedimento analogo a quello principale, quand’anche sospeso in via di fatto nell’attesa della pronuncia di questa Corte, posto che la contraria soluzione risulterebbe elusiva del carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, implicando l’accesso delle parti prima che, nell’ambito della relativa controversia, sia stata verificata la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione (da ultimo sentenza n. 288 del 2010 e, in precedenza, fra le molte, ordinanza collegiale allegata alla sentenza n. 245 del 2007).

3. – Stante la sua preliminarità, va a questo punto esaminata la eccezione di inammissibilità della questione, per difetto di motivazione sulla sua rilevanza, formulata dalla difesa del CONI con riferimento alla mancata adeguata valutazione da parte del rimettente della natura del provvedimento emesso dalla Camera di conciliazione e arbitrato per lo sport. Se, infatti, questo fosse considerato un lodo arbitrale, data la soggezione di tali atti a ipotesi tipizzate di motivi di impugnazione, secondo la disciplina all’uopo dettata dal codice di rito civile, il ricorso di fronte al giudice a quo sarebbe inammissibile e, non ricorrendo, secondo quanto riferito dal rimettente, alcuna delle ipotesi in questione, la sollevata questione di legittimità costituzionale si paleserebbe altresì irrilevante.

3.1. – L’eccezione non è fondata.

È, infatti, evidente che il giudice rimettente, sia pure per implicito, si è conformato all’orientamento del tutto consolidato nella giurisprudenza amministrativa di primo e di secondo grado, come testimoniato dalla ampia messe di precedenti giurisprudenziali riscontrabili in argomento, secondo il quale, ancorché adottate nel contraddittorio delle parti, le decisioni assunte dalla Camera di conciliazione e arbitrato per lo sport (organismo, peraltro, oramai soppresso in quanto sostituito in seno al CONI dal neo istituito Tribunale nazionale arbitrale dello sport) hanno la natura di provvedimenti amministrativi, di talché non è, in linea di principio, implausibile che il giudice amministrativo affermi la sua giurisdizione (che è di natura esclusiva) nei confronti di ogni tipo di decisione della Camera di conciliazione ed arbitrato. Al riguardo, si deve sottolineare che questa Corte ha più volte affermato che il difetto di giurisdizione per essere rilevabile deve essere macroscopico (da ultimo, sent. n. 34 del 2010).

3.2. – Deve essere, parimenti, disattesa la eccezione di inammissibilità formulata sulla base dell’assunto secondo il quale il giudice rimettente più che esporre un reale dubbio di costituzionalità ricerca, da parte di questa Corte, un improprio avallo alla interpretazione da lui in passato seguita e, ora, sconfessata dal giudice del gravame.

Invero il TAR del Lazio, pur avendo riferito i profili della propria precedente posizione, si dà carico del fatto che essa è stata motivatamente disattesa sia dal Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana (sentenza n. 1048 del 2007), sia dallo stesso Consiglio di Stato (sentenza n. 5782 del 2008), il quale, pur ritenendola l’unica possibile, si pone peraltro in termini problematici rispetto alla compatibilità costituzionale della propria interpretazione. Pertanto, di fronte alla opposta tesi, argomentatamente sostenuta dal giudice del gravame, che è, riguardo al caso, anche giudice di ultima istanza di merito (la cui decisione non è più scalfibile neppure a seguito di ricorso ex ultimo comma dell’art. 111 Cost. ove ricorra un’ipotesi di carenza assoluta di giurisdizione), non restava al rimettente, proprio in quanto aderiva all’interpretazione del Consiglio di Stato, che sollevare il presente dubbio di costituzionalità, in tal senso portando a compimento l’iter esegetico lumeggiato dallo stesso Consiglio di Stato.

4. – Venendo al merito della questione, essa deve essere dichiarata non fondata, nei sensi di cui in motivazione.

4.1. – Va, innanzitutto, ricordato che il decreto-legge n. 220 del 2003 è stato emanato in una situazione che fu espressamente definita dal relatore, durante i lavori parlamentari che hanno portato alla approvazione della legge di conversione, un «vero e proprio disastro incombente sul mondo del calcio». Con esso si è affrontata una questione particolarmente delicata, vale a dire il rapporto tra l’ordinamento statale e uno dei più significativi ordinamenti autonomi che vengono a contatto con quello statale, cioè l’ordinamento sportivo.

La singolarità della situazione e la connessa difficoltà di una actio finium regundorum tra queste due realtà è individuabile già dall’impostazione iniziale del decreto-legge il quale, nell’affermare che la normativa riconosce e favorisce «l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale», chiarisce che esso è «articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale». Si afferma cioè, reiterando concetti già espressi in altri testi normativi (quali gli artt. 2 e 15 del d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242, recante «Riordino del Comitato olimpico nazionale italiano – C.O.N.I., a norma dell’articolo 11 della L. 15 marzo 1997, n. 59»), che questo ordinamento autonomo costituisce l’articolazione italiana di un più ampio ordinamento autonomo avente una dimensione internazionale e che esso risponde ad una struttura organizzativa extrastatale riconosciuta dall’ordinamento della Repubblica.

Anche prescindendo dalla dimensione internazionale del fenomeno, deve sottolinearsi che l’autonomia dell’ordinamento sportivo trova ampia tutela negli artt. 2 e 18 della Costituzione, dato che non può porsi in dubbio che le associazioni sportive siano tra le più diffuse «formazioni sociali dove [l’uomo] svolge la sua personalità» e che debba essere riconosciuto a tutti il diritto di associarsi liberamente per finalità sportive.

4.2. – Per ciò che concerne lo specifico esame delle disposizioni su cui verte la questione di costituzionalità sollevata dal rimettente TAR, si osserva che al comma 1 dell’art. 2 del predetto decreto-legge è stato previsto, peraltro dando veste normativa ad un già affermato orientamento giurisprudenziale, che è riservata all’ordinamento sportivo la disciplina delle questioni concernenti, oltre che l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie finalizzate a garantire il corretto svolgimento delle attività sportive – cioè di quelle che sono comunemente note come “regole tecniche” – anche «i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari». Viene, altresì, precisato, al successivo comma 2, che in siffatte materie i soggetti dell’ordinamento sportivo (società, associazioni, affiliati e tesserati) hanno l’onere di adire (si intende: ove vogliano censurare la applicazione delle predette sanzioni) «gli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo», secondo le previsioni dell’ordinamento settoriale di appartenenza.

Al contenuto di tale disposizione fa riferimento il successivo art. 3 del decreto-legge n. 220, il quale, nel testo vigente al momento della proposizione della questione di legittimità costituzionale, individua, in sostanza, una triplice forma di tutela giustiziale. Una prima forma, limitata ai rapporti di carattere patrimoniale tra società sportive, associazioni sportive, atleti (e tesserati), è demandata alla cognizione del giudice ordinario. Una seconda, relativa ad alcune delle questioni aventi ad oggetto le materie di cui all’art. 2, nella quale, in linea di principio, la tutela, stante la irrilevanza per l’ordinamento generale delle situazioni in ipotesi violate e dei rapporti che da esse possano sorgere, non è apprestata da organi dello Stato ma da organismi interni all’ordinamento stesso in cui le norme in questione sono state poste (e nel cui solo ambito esse, infatti, godono di pacifica rilevanza), secondo uno schema proprio della cosiddetta “giustizia associativa”.

4.2.1. – È opportuno – prima di valutare la portata della terza forma di tutela, di carattere residuale e rimessa al giudice amministrativo – soffermarsi sulla seconda, interna all’ordinamento sportivo, perché si viene a lambire la questione di costituzionalità avanzata dal rimettente. Quest’ultimo osserva che «la giustizia sportiva costituisce lo strumento di tutela [definitivo] per le ipotesi in cui si discute dell’applicazione delle regole sportive».

Più oltre, sempre nell’ordinanza, si afferma che «tali sono, indiscutibilmente, le norme meramente tecniche, e fra esse sicuramente rientrano quelle che l’ordinamento sportivo ha elaborato ed elabora ai fini dell’acquisizione dei risultati delle competizioni agonistiche».

Né può, in questi casi, in cui, per la tutela della situazione di cui si lamenta la violazione, è escluso un intervento della giurisdizione statale, invocarsi la violazione dell’art. 24 Cost., dato che è proprio la situazione che si pretende lesa che non assume la consistenza del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo. Infatti il rimettente osserva che «Alle regole tecniche che vengono in gioco non può essere attribuita natura di norme di relazione dalle quali derivino diritti soggettivi […] ma non sono configurabili neanche posizioni di interesse legittimo».

Si tratta di conclusioni coerenti con quelle cui la Corte regolatrice è pervenuta in due sentenze, entrambe assunte, trattandosi di questioni attinenti alla giurisdizione, a Sezioni Unite, la prima antecedente alla legge in esame (sentenza n. 4399 del 1989) e la seconda successiva alla sua entrata in vigore (sentenza n. 5775 del 2004). In quest’ultima, che ha una struttura argomentativa analoga alla prima, si afferma che tali questioni «non hanno rilevanza nell’ordinamento giuridico generale e le decisioni adottate in base [alle regole promananti dall’associazionismo sportivo] sono collocate in un’area di non rilevanza per l’ordinamento statale, senza che possano essere considerate come espressione di potestà pubbliche ed essere considerate alla stregua di decisioni amministrative. La generale irrilevanza per l’ordinamento statuale di tali norme e della loro violazione conduce all’assenza della tutela giurisdizionale statale».

Se queste sono le conclusioni cui è giunto il giudice della giurisdizione esaminando la questione dal punto di vista sostanziale, cioè del grado di consistenza oggettiva che tali situazioni vengono ad avere se valutate nell’ambito dell’ordinamento generale, analoghe sono quelle cui il medesimo giudice giunge affrontando la questione sotto l’aspetto processuale del diritto di agire in giudizio per la loro eventuale tutela. Nella recente ordinanza n. 18052 dell’agosto 2010 le Sezioni Unite ritengono inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione concernente la possibilità di sottoporre al giudice statale una controversia relativa al ridimensionamento degli iscritti nei ruoli dei direttori di gara, altrimenti riservata all’autonomia dell’ordinamento sportivo, in quanto «costituisce […] accertamento rimesso al giudice del merito la configurabilità o meno di una situazione giuridicamente rilevante per l’ordinamento statale e, come tale, tutelabile».

In altre parole, la valutazione tra l’irrilevante giuridico, che non dà accesso alla giurisdizione statale, e ciò che invece è per quest’ultima rilevante non può che essere rimessa al giudice di merito, che assumerà le sue decisioni secondo quanto prevede il diritto positivo.

Ciò, del resto, è conforme ad un risalente insegnamento di questa Corte, la quale, già nella sentenza n. 87 del 1979, pronunciandosi con riferimento ad una questione relativa all’art. 2059 cod. civ., affermava la subordinazione logica del diritto di azione alla sia pur astratta configurabilità di una posizione soggettiva sostanziale giuridicamente rilevante.

4.3. – L’ulteriore forma di tutela giustiziale ha il carattere dalla tendenziale residualità, in quanto è relativa a tutto ciò che per un verso non concerne i rapporti patrimoniali fra società, associazioni sportive, atleti (e tesserati) – demandati, come si è detto, al giudice ordinario – e, per altro verso, pur scaturendo da atti del CONI e delle Federazioni sportive, non rientra fra le materie che, ai sensi dell’art. 2 del decreto-legge n. 220 del 2003, sono riservate – in quanto, come detto, non idonee a far sorgere posizioni soggettive rilevanti per l’ordinamento generale, ma solo per quello settoriale – all’esclusivo interesse degli organi della giustizia sportiva. Si tratta cioè (per riprendere la originaria formulazione legislativa) di «ogni altra controversia» che è «devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo».

Se si segue l’iter parlamentare del decreto-legge n. 220 del 2003, si constata che è lo stesso legislatore ad indicare alcune delle «situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo» per le quali ritiene si verifichi il caso della «rilevanza per l’ordinamento della Repubblica».

Al riguardo, è sufficiente osservare che, secondo la primigenia versione del decreto-legge n. 220 del 2003, fra le materie che, essendo inserite al comma 1 dell’art. 2, potevano considerarsi sottratte alla cognizione del giudice statale, erano anche le questioni aventi ad oggetto l’ammissione e l’affiliazione alle federazioni di società, associazioni o singoli tesserati nonché quelle relative alla organizzazione e svolgimento delle attività agonistiche ed alla ammissione ad esse di squadre ed atleti. La circostanza che, in sede di conversione del decreto-legge, il legislatore abbia espunto le lettere c) e d) del comma 1 dell’art. 2, ove erano indicate le summenzionate materie, fa ritenere che su di esse vi sia la competenza esclusiva del giudice amministrativo allorché siano lesi diritti soggettivi od interessi legittimi.

Appare chiaro, anche attraverso l’esame dei ricordati lavori preparatori della legge n. 280 del 2003 di conversione del decreto-legge n. 220, che siffatta modificazione, per sottrazione, dell’originario testo normativo sia giustificata dalla considerazione che la possibilità, o meno, di essere affiliati ad una Federazione sportiva o tesserati presso di essa nonché la possibilità, o meno, di essere ammessi a svolgere attività agonistica disputando le gare ed i campionati organizzati dalle Federazioni sportive facenti capo al CONI – il quale, a sua volta, è inserito, quale articolazione monopolistica nazionale, all’interno del Comitato Olimpico Internazionale – non è situazione che possa dirsi irrilevante per l’ordinamento giuridico generale e, come tale, non meritevole di tutela da parte di questo. Ciò in quanto è attraverso siffatta possibilità che trovano attuazione sia fondamentali diritti di libertà – fra tutti, sia quello di svolgimento della propria personalità, sia quello di associazione – che non meno significativi diritti connessi ai rapporti patrimoniali – ove si tenga conto della rilevanza economica che ha assunto il fenomeno sportivo, spesso praticato a livello professionistico ed organizzato su base imprenditoriale – tutti oggetto di considerazione anche a livello costituzionale.

L’intervento del legislatore della conversione è, quindi, apparso coerente con quanto disposto all’art. 1, comma 2, del decreto-legge n. 220 del 2003, là dove, in fine, viene espressamente precisato che l’autonomia dell’ordinamento sportivo recede allorché siano coinvolte situazioni giuridiche soggettive che, sebbene connesse con quello, siano rilevanti per l’ordinamento giuridico della Repubblica.

4.4. – Si può passare, ora, alla questione di costituzionalità sollevata dal TAR Lazio.

Quest’ultimo dubita della più volte citata disposizione legislativa nella parte in cui riserverebbe al solo giudice sportivo la competenza a decidere le controversie aventi ad oggetto sanzioni disciplinari, diverse da quelle tecniche, inflitte ad atleti, tesserati, associazioni e società sportive, sottraendole al sindacato del giudice amministrativo. Chiarisce che i dubbi di costituzionalità «non attengono alla previsione della c.d. pregiudiziale sportiva», dato che ritiene che essa sia «corretta e logica conseguenza della riconosciuta autonomia dell’ordinamento sportivo», ma «alla generale preclusione […] ad adire il giudice statale una volta esauriti i gradi della giustizia sportiva».

Afferma, altresì, che della disposizione sospettata di illegittimità costituzionale potrebbe darsi (anzi, in passato è stata data) altra interpretazione, ma che una recente pronuncia del Consiglio di Stato (Sez. VI, sent. n. 5782 del 25 novembre 2008), che ha fatto seguito ad altra analoga del Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana (sent. n. 1048 dell’8 novembre 2007), gli impone di tralasciare la precedente interpretazione e di adeguarsi a quella fatta propria dal giudice del gravame che, a suo giudizio, presenta aspetti di contrasto con gli artt. 24, 103 e 113 Cost.

Deve, al riguardo, considerarsi che anche se, come si è innanzi visto, il rimettente estende il giudizio agli artt. 103 e 113 della Costituzione, in realtà la censura non attiene ad aspetti specifici relativi alle suddette disposizioni costituzionali, in quanto si incentra su un unico profilo. Esso è chiaramente definito laddove il rimettente afferma che dai parametri costituzionali di cui si invoca l’applicazione «si evince che a nessuno può essere negata la tutela della propria sfera giuridica dinanzi ad un giudice statale, ordinario o amministrativo che sia».

Anche più oltre nell’ordinanza si sottolinea che il dubbio di costituzionalità sorge ove la normativa censurata consente una «deroga al principio costituzionale del diritto ad ottenere la tutela della propria posizione giuridica di diritto soggettivo o di interesse legittimo dinanzi ad un giudice statale» e che il «limite del rispetto del diritto di difesa […] finisce per essere irrimediabilmente leso proprio dalla preclusione del ricorso al giudice statale».

Quindi, anche se nell’ordinanza si fa riferimento ai sopracitati tre articoli della Costituzione, la censura ha un carattere unitario, compendiabile nel dubbio che la normativa censurata precluda «al giudice statale» (espressione più volte utilizzata) di conoscere questioni che riguardino diritti soggettivi o interessi legittimi. La prospettazione della violazione anche degli artt. 103 e 113 Cost. viene formulata in quanto essi, a parere del giudice a quo, rappresentano il fondamento costituzionale delle funzioni giurisdizionali del giudice amministrativo che il rimettente, ai sensi di quanto dispone la normativa di cui deve fare applicazione, individua come il “giudice naturale” delle suddette controversie. Peraltro, con la loro evocazione, non si prospettano illegittimità costituzionali diverse da quelle formulate con riferimento all’art. 24 Cost..

4.5. – Si deve, preliminarmente, condividere l’assunto del rimettente, che richiama un costante insegnamento di questa Corte, per cui «le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali» (ex multis: sent. n. 403 del 2007, sent. n. 356 del 1996, ord. n. 85 del 2007).

Proprio in aderenza a questo principio, si osserva che è la stessa sentenza del Consiglio di Stato, dal rimettente ritenuta “diritto vivente”, a fornire, nel percorso argomentativo seguito (ed a prescindere da quanto in precedenza affermato in quella stessa sentenza), una chiave di lettura che fuga i dubbi di costituzionalità.

Nella sentenza si afferma, infatti, proprio con riferimento all’art. 1 del d.l. n. 220 del 2003 che «tali norme debbano essere interpretate, in un’ottica costituzionalmente orientata, nel senso che laddove il provvedimento adottato dalle Federazioni sportive o dal C.O.N.I. abbia incidenza anche su situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento giuridico statale, la domanda volta ad ottenere non la caducazione dell’atto, ma il conseguente risarcimento del danno, debba essere proposta innanzi al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, non operando alcuna riserva a favore della giustizia sportiva, innanzi alla quale la pretesa risarcitoria nemmeno può essere fatta valere». Si precisa, altresì, che «Il Giudice amministrativo può, quindi, conoscere, nonostante la riserva a favore della “giustizia sportiva”, delle sanzioni disciplinari inflitte a società, associazioni ed atleti, in via incidentale e indiretta, al fine di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria proposta dal destinatario della sanzione».

Quindi, qualora la situazione soggettiva abbia consistenza tale da assumere nell’ordinamento statale la configurazione di diritto soggettivo o di interesse legittimo, in base al ritenuto “diritto vivente” del giudice che, secondo la suddetta legge, ha la giurisdizione esclusiva in materia, è riconosciuta la tutela risarcitoria.

In tali fattispecie deve, quindi, ritenersi che la esplicita esclusione della diretta giurisdizione sugli atti attraverso i quali sono state irrogate le sanzioni disciplinari – posta a tutela dell’autonomia dell’ordinamento sportivo – non consente che sia altresì esclusa la possibilità, per chi lamenti la lesione di una situazione soggettiva giuridicamente rilevante, di agire in giudizio per ottenere il conseguente risarcimento del danno.

È sicuramente una forma di tutela, per equivalente, diversa rispetto a quella in via generale attribuita al giudice amministrativo (ed infatti si verte in materia di giurisdizione esclusiva), ma non può certo affermarsi che la mancanza di un giudizio di annullamento (che, oltretutto, difficilmente potrebbe produrre effetti ripristinatori, dato che in ogni caso interverrebbe dopo che sono stati esperiti tutti i rimedi interni alla giustizia sportiva, e che costituirebbe comunque, in questi casi meno gravi, una forma di intromissione non armonica rispetto all’affermato intendimento di tutelare l’ordinamento sportivo) venga a violare quanto previsto dall’art. 24 Cost.. Nell’ambito di quella forma di tutela che può essere definita come residuale viene, quindi, individuata, sulla base di una argomentata interpretazione della normativa che disciplina la materia, una diversificata modalità di tutela giurisdizionale.

È utile, al riguardo, sottolineare quanto questa Corte ha già avuto modo di affermare nella sentenza n. 254 del 2002, quando ha esaminato una questione relativa all’esonero di responsabilità che l’allora vigente normativa concedeva ai gestori del servizio telegrafico, e cioè che «appartiene alla sfera della discrezionalità legislativa apportare una deroga al diritto comune della responsabilità civile che realizzi un ragionevole punto di equilibrio tra le esigenze proprie» dei due portatori di interesse che si contrappongono.

Tra l’altro, le ipotesi di tutela esclusivamente risarcitoria per equivalente non sono certo ignote all’ordinamento. Infatti – ed il riferimento è pertinente in quanto si verte in tema di giurisdizione esclusiva –, è proprio una disposizione del codice civile, vale a dire l’art. 2058, richiamata dall’art. 30 del recente d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), a prevedere il risarcimento in forma specifica come un’eventualità («qualora sia in tutto o in parte possibile»), peraltro sempre sottoposta al potere discrezionale del giudice («tuttavia il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore»).

In questo caso, secondo il “diritto vivente” cui il rimettente fa riferimento, il legislatore ha operato un non irragionevole bilanciamento che lo ha indotto, per i motivi già evidenziati, ad escludere la possibilità dell’intervento giurisdizionale maggiormente incidente sull’autonomia dell’ordinamento sportivo.

 

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1, lettera b), e 2, del decreto-legge 19 agosto 2003, n. 220 (Disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva), convertito, con modificazioni, con legge 17 ottobre 2003, n. 280, sollevata dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, in riferimento agli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, palazzo della Consulta, il 7 febbraio 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 febbraio 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI

 

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