• Stagione sportiva: 2014/2015
F.I.G.C. – CORTE FEDERALE D’APPELLO – Sezioni Unite – 2014/2015 – Decisione pubblicata sul sito web: www.figc.it e sul Comunicato ufficiale n. 039/CFA del 27 Marzo 2015 con motivazioni pubblicate sul Comunicato ufficiale n. 055/CFA del 14 Maggio 2015 e su www.figc.it
5) RICORSO DEL SIG. DAMIANO TOMMASI AVVERSO LA REIEZIONE DEL RICORSO TENDENTE AD OTTENERE L’ANNULLAMENTO DELLA DELIBERA DEL CONSIGLIO FEDERALE F.I.G.C. DI CUI AL COM. UFF. N. 83/A DEL 20.11.2014 (Delibera del Tribunale Nazionale Federale Sez. Disciplinare – Com. Uff. n. 32/TFN del 17.2.2015)
6) RICORSO DEL SIG. UMBERTO CALCAGNO AVVERSO LA REIEZIONE DEL RICORSO TENDENTE AD OTTENERE L’ANNULLAMENTO DELLA DELIBERA DEL CONSIGLIO FEDERALE F.I.G.C. NDI CUI AL COM. UFF.. 83/A DEL 20.11.2014 (Delibera del Tribunale Nazionale Federale Sez. Disciplinare – Com. Uff. n. 32/TFN del 17.2.2015)
F.I.G.C. – CORTE FEDERALE D’APPELLO – Sezioni Unite - 2014/2015 – Decisione pubblicata sul sito web: www.figc.it e sul Comunicato ufficiale n. 039/CFA del 27 Marzo 2015 con motivazioni pubblicate sul Comunicato ufficiale n. 055/CFA del 14 Maggio 2015 e su www.figc.it
5) RICORSO DEL SIG. DAMIANO TOMMASI AVVERSO LA REIEZIONE DEL RICORSO TENDENTE AD OTTENERE L’ANNULLAMENTO DELLA DELIBERA DEL CONSIGLIO FEDERALE F.I.G.C. DI CUI AL COM. UFF. N. 83/A DEL 20.11.2014 (Delibera del Tribunale Nazionale Federale Sez. Disciplinare – Com. Uff. n. 32/TFN del 17.2.2015)
6) RICORSO DEL SIG. UMBERTO CALCAGNO AVVERSO LA REIEZIONE DEL RICORSO TENDENTE AD OTTENERE L’ANNULLAMENTO DELLA DELIBERA DEL CONSIGLIO FEDERALE F.I.G.C. NDI CUI AL COM. UFF.. 83/A DEL 20.11.2014 (Delibera del Tribunale Nazionale Federale Sez. Disciplinare – Com. Uff. n. 32/TFN del 17.2.2015)
Nella seduta del 20 novembre 2014 il Consiglio Federale della F.I.G.C. adottava, per quanto di rilievo nel presente procedimento, una delibera relativa alla limitazione di utilizzo di calciatori per le società partecipanti, nella stagione sportiva 2015/2016, alla serie A. La delibera di cui trattasi, pubblicata sul C.U. n. 83/A del 20 novembre 2014, così testualmente recita: «Il Consiglio Federale - tenuto conto dei principi emanati dalla Unione Europea e dalla Corte di Giustizia Europea, volti a promuovere la formazione e la preparazione di talenti cosiddetti locali; - considerato che la UEFA, in linea con i suddetti principi, ha da tempo emanato disposizioni in materia di incentivazione e promozione dei giocatori locali, alle quali sin dal 2006 la F.I.G.C. si è adeguata; - ritenuto, coerentemente con la linea di politica sportiva della F.I.G.C. volta alla valorizzazione dei calciatori formati calcisticamente nei club italiani ed anche in ragione della crisi economica che ha investito il paese da qualche anno, di dover favorire l’acceso alle competizioni del
Campionato di Serie A ai calciatori che abbiano avuto una formazione in Italia; - considerato che una tale politica risponde anche alla altrettanto avvertita esigenza di garantire una migliore maturazione sportiva dei calciatori giovani e formati in Italia, al fine di alimentare il bacino di disponibilità dei calciatori selezionabili per le Nazionali; - visto l’art. 27 dello Statuto Federale d e l i b e r a di adottare il seguente provvedimento a valere dal Campionato di Serie A 2015/2016.
1. Le società di Serie A, fatto salvo quanto previsto al comma 2, potranno utilizzare nelle gare di campionato i 25 calciatori indicati nell’elenco di cui ai commi 3, 4, 5 e 6. Tra i 25 calciatori, almeno 4 devono essere “calciatori formati nel club” e almeno 4 “calciatori formati in Italia”. Per “calciatori formati nel club” si intendono i calciatori che, tra i 15 anni (o l’inizio della stagione nella quale hanno compiuto 15 anni) e i 21 anni (o la fine della stagione nella quale hanno compiuto 21 anni) di età, indipendentemente dalla loro nazionalità o età, siano stati tesserati a titolo definitivo per il club nel quale militano per un periodo, anche non continuativo di 36 mesi, o per tre intere stagioni sportive, intendendosi per stagione sportiva il periodo che intercorre tra la prima e l’ultima giornata di campionato. Per “calciatori formati in Italia” si intendono i calciatori che, tra i 15 anni (o l’inizio della stagione nella quale hanno compiuto 15 anni) e i 21 anni (o la fine della stagione nella quale hanno compiuto 21 anni) di età, e indipendentemente dalla loro nazionalità o età, siano stati tesserati a titolo definitivo per uno o più club italiani per un periodo, anche non continuativo di 36 mesi, o per tre intere stagioni sportive, intendendosi per stagione sportiva il periodo che intercorre tra la prima e l’ultima giornata di campionato.
2. Sarà consentito alle società di Serie A l’utilizzo aggiuntivo, rispetto a quelli dell’elenco dei 25 calciatori di cui ai successivi commi, di calciatori, tesserati sia a titolo definitivo sia temporaneo, che alla data del 31 dicembre della stagione sportiva precedente non abbiano già compiuto il 21° anno di età (“calciatori under 21”).
3. Le società di Serie A, entro le ore 12:00 del giorno precedente la prima gara di campionato, sono tenute ad inviare via PEC alla Lega l’elenco dei 25 calciatori, da individuarsi tra quelli per esse tesserati o tra quelli per i quali, completata la procedura di richiesta del transfer, lo stesso non sia stato ancora rilasciato, indicando quali siano i quattro “calciatori formati nel club” e quali siano i quattro “calciatori formati in Italia”. I calciatori per i quali non sia stato ancora rilasciato il transfer possono essere inseriti nell’elenco ma non possono essere utilizzati prima della concessione del visto di esecutività.
4. L’elenco dei 25 calciatori di cui al precedente comma, può essere variato fino alle ore 24:00 del giorno successivo alla chiusura del primo periodo di campagna trasferimenti. L’elenco dei suddetti 25 calciatori, scaduto il predetto termine e, fatto salvo quanto previsto dai successivi commi 5 e 6, può essere nuovamente variato dall’inizio del secondo periodo di campagna trasferimenti fino alle ore 24:00 del giorno successivo alla chiusura di detto periodo. Ogni variazione perché abbia effetto, ai fini della utilizzabilità del calciatore, deve pervenire alla lega a mezzo PEC entro le ore 12:00 del giorno precedente la gara di campionato.
5. L’elenco di cui al comma 3, se incompleto, può essere integrato fino al numero massimo di 25 consentito, esclusivamente con calciatori tesserabili in periodi diversi dai due ordinari periodi di campagna trasferimento, nei limiti, nei termini e secondo le modalità previste dal Comunicato Ufficiale annuale diramato in materia dalla F.I.G.C..
6. Le società di Serie A, in qualsiasi momento della stagione sportiva, possono procedere alle variazioni di seguito indicate dell’elenco dei 25 calciatori: a) sostituzione di un portiere con un altro portiere; b) sostituzione di un calciatore proveniente dall’estero per il quale non si sia completata positivamente la procedura di rilascio del transfer; c) sostituzione di un calciatore al quale sia stato revocato il tesseramento; d) sostituzione di un calciatore con cui sia intervenuta risoluzione consensuale di contratto; e) sostituzione, per una sola volta nella stagione, fino ad un massimo di due calciatori (diversi dal portiere) con altri due calciatori. Nel caso di sostituzione di un calciatore di cui alla presente lettera e), quest’ultimo potrà essere reinserito al posto del suo sostituto nell’elenco dei “calciatori over 21” solo nel periodo di campagna trasferimenti successivo alla data della sostituzione.
7. Le variazioni dell’elenco, intervenute fuori dai periodi di campagna trasferimenti, acquisiscono efficacia, purché siano trasmesse via PEC alla Lega entro le ore 12:00 del giorno precedente la gara, ad eccezione della sostituzione del portiere che potrà essere comunicata via PEC alla Lega prima dell’inizio della gara, con contestuale consegna di copia della comunicazione al Delegato di gara della Lega.
8. E’ fatto divieto ai calciatori non inseriti nell’elenco dei 25 calciatori di partecipare a gare di campionato nel periodo di validità dell’elenco stesso. Tale divieto non sussiste per i calciatori di cui al comma 2.
9. Le società rispondono disciplinarmente per la violazione delle disposizioni di cui ai commi che precedono. L’utilizzo in una gara di campionato di un calciatore non inserito nell’elenco dei 25 calciatori o inserito nel suddetto elenco in violazione delle disposizioni precedenti, comporta, per la società responsabile, la sanzione della perdita della gara ai sensi dell’art. 17, comma 5, lett. a) del Codice di Giustizia Sportiva, non avendo tale calciatore titolo alla partecipazione alla gara. Non si incorre nella violazione in caso di utilizzo dei calciatori di cui la comma 2. Norma Transitoria Le società di Serie A che non disponessero del numero minimo di 4 “calciatori formati nel club”, potranno nella stagione sportiva 2015/2016 inserire nella lista dei 25 fino ad 8 “calciatori formati in Italia”». Avverso siffatta deliberazione proponevano ricorso, come rappresentati ed assistiti, l’avv. Umberto Calcagno ed il sig. Damiano Tommasi, nella veste di consiglieri federali. Deducevano, i ricorrenti, difformità della nuova disciplina denominata “tetto alle rose” rispetto alle previsioni di cui all’art. 3, comma 1, del decreto legislativo n. 216/2003, nonché contrarietà della stessa ai principi di lealtà e correttezza propri dell’attività sportiva, in quanto la stessa introdurrebbe nell’ordinamento calcistico una sorta di discriminazione tra tesserati, basata sull’età. Eccepivano, segnatamente, i ricorrenti che la norma varata dal Consiglio federale, mentre non inibisce l’assunzione ed il tesseramento di un numero illimitato di calciatori di età inferiore ai 21 anni, consentirebbe al datore di lavoro - società di stabilire, unilateralmente e discrezionalmente, l’inserimento nelle liste a numero chiuso di un numero massimo di calciatori over 21 (25 unità), di fatto vietando ai conseguenti esuberi non inclusi nelle liste l’effettivo svolgimento dell’oggetto dell’attività lavorativa, da individuarsi anche nella partecipazione alle competizioni ufficiali. Se ne ricaverebbe, dunque, a dire dei ricorrenti, che i calciatori di età superiore ai 21 anni sono trattati meno favorevolmente rispetto a quelli in età under 21 (discriminazione diretta), tanto da essere relegati in uno stato di particolare svantaggio rispetto a questi ultimi (discriminazione indiretta). Concludevano, pertanto, entrambi i ricorrenti, per l’annullamento dell’impugnata delibera e di qualsivoglia provvedimento connesso e conseguente ed in ogni caso per la sua revoca stante la comportata violazione di legge e dei principi generali dell’ordinamento sportivo. Nei procedimenti così instaurati si è ritualmente costituita la F.I.G.C., per chiedere dichiararsi inammissibilità dei ricorsi e, comunque, instando per il rigetto degli stessi, con pronuncia in ordine alle spese. La resistente Federazione, ha eccepito, anzitutto, che i ricorrenti, declinando di agire nell’interesse della categoria dei calciatori ed evidenziando nel contempo che la normativa di che trattasi provocherebbe lesione degli interessi degli over 21, finendo per avvantaggiare i più giovani, avevano agito nell’interesse di alcuni soltanto degli associati e a detrimento di altri. Sotto tale profilo, dunque, a dire della F.I.G.C., i ricorsi si rivelerebbero inammissibili, essendo preclusa l’impugnazione di atti capaci di dividere la categoria in porzioni disomogenee, atteso il potenziale conflitto di interessi che ne poteva scaturire. Nel merito, la Federazione resistente deduceva infondatezza dei ricorsi, evidenziando che la normativa impugnata si iscrive nel processo di valorizzazione dei giovani calciatori già avviato ed attuato da FIFA e UEFA e non comporta alcuna violazione di legge, atteso che, tanto la legislazione europea, quanto quella di ambito nazionale, consente deroghe al principio generale di non discriminazione ogni qual volta il diverso trattamento riservato in ragione dell’età risulta oggettivamente e ragionevolmente giustificato da una finalità legittima, perseguita con mezzi appropriati. I due anzidetti ricorsi venivano riuniti, attesa la connessione oggettiva. Alla riunione, svoltasi il 5 febbraio 2015 innanzi al Tribunale Federale Nazionale, sono comparsi i difensori delle parti, i quali, richiamati gli atti ed illustrate le rispettive argomentazioni difensive, hanno chiesto l’accoglimento delle relative conclusioni già formulate. La resistente ha rinunciato alla domanda inerente le spese. La rinuncia è stata accettata dai ricorrenti. All’esito del dibattimento, l’adìto Tribunale Federale Nazionale ha rigettato i ricorsi riuniti, disponendo incamerarsi le tasse versate. Ha, dunque, anzitutto, disatteso, il Collegio di primo grado, l’eccezione di inammissibilità dei ricorsi sollevata dalla resistente F.I.G.C.. A tal proposito, premesso che i ricorrenti sono componenti del Consiglio Federale, ha evidenziato, il Tribunale, che ai sensi dell’art. 31, comma 2, C.G.S. CONI, le deliberazioni del Consiglio Federale contrarie alla legge, allo Statuto del CONI ed ai principi fondamentali del CONI, allo Statuto ed ai regolamenti della Federazione possono essere annullate su ricorso di un componente, assente o dissenziente, del Consiglio Federale o del Collegio dei revisori dei conti». Orbene, dalle risultanze degli atti acquisite al giudizio è emerso che «i ricorrenti erano stati presenti alla seduta del Consiglio Federale di approvazione della norma contestata, tenutasi il 20 novembre 2014 e che il provvedimento venne approvato a maggioranza, fatta eccezione per sei consiglieri, tra cui gli attuali ricorrenti, che si espressero in senso contrario, di guisa che la richiamata eccezione della resistente non appare confortata né dal dato regolamentare che si è richiamato, né dalle risultanze della seduta del Consiglio Federale di approvazione della norma». Aggiunge, poi, il Tribunale Federale Nazionale: «del pari infondate appaiono le ulteriori eccezioni della resistente sulla inammissibilità dei ricorsi, essendo evidente oltre ogni ragionevole dubbio che i ricorrenti, nell’impugnare la nuova disciplina sulla limitazione alle rose, hanno esercitato la facoltà loro attribuita dall’art. 31 comma 2 C.G.S. CONI sopra citato, a nulla rilevando che i ricorrenti avrebbero agito nell’interesse di alcuni soltanto dei calciatori (gli over 21) in danno degli altri più giovani (gli under 21) e che la posizione dei ricorrenti, esplicitata nei ricorsi, sarebbe stata di semplice non condivisione della nuova disciplina in quanto dissonante dai propri personali convincimenti, aspetti questi che non sembrano trasparire dal contenuto dei ricorsi e che la resistente peraltro in nulla ha comprovato». Nel merito, il Tribunale ha ritenuto infondati i ricorsi, ritenendo non sussistere quella contrarietà indicata dall’art. 31, comma 2, C.G.S. CONI, secondo cui è ammessa «l’impugnativa delle deliberazioni del Consiglio Federale ai fini del loro annullamento qualora queste siano contrarie alla Legge, allo Statuto CONI, ai principi fondamentali del CONI, allo Statuto ed ai regolamenti delle Federazioni». «Ed infatti», afferma il Tribunale, «lo scopo perseguito dalla normativa di cui trattasi è rinvenibile nella volontà di favorire lo sviluppo e la crescita dei calciatori under 21, tanto da inserirsi a pieno titolo nel processo di sviluppo del calcio giovanile, particolarmente avvertito dagli organismi più rappresentativi a livello internazionale, FIFA ed UEFA, senza voler per questo discriminare o penalizzare i calciatori più avanti nell’età (gli over 21), per i quali, già presenti nelle rose nel numero massimo di 25, è tra l’altro e non a caso prevista un’ampia possibilità di variazione (commi 4 e ss. della normativa) e quindi di ampliamento della possibilità di loro utilizzazione». Né può utilmente sostenersi, prosegue l’organo di prime cure, «che la normativa impugnata si ponga in contrasto con il Decreto Lgs. 9 luglio 2003 n. 216, in tema di attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro; infatti, nel mentre la norma statale persegue la finalità di abbattere le discriminazioni che ostacolano l’accesso al lavoro, tanto al momento dell’assunzione quanto nella vigenza del contratto, la norma federale tutela pienamente detto accesso, confermandolo in capo agli over 21e favorendolo per gli under 21, a tal punto da risultare in armonia con la stessa norma statale nella parte in cui non considera atti discriminanti quelle differenze di trattamento, legate anche all’età, che, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, costituiscono un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività medesima, come è nel caso in esame». Avverso siffatta decisione hanno proposto appello, con separati reclami, i sigg.ri Umberto Calcagno e Damiano Tommasi, quali componenti del Consiglio federale, sviluppando approfondite sovrapponibili argomentazioni difensive. Con un unico articolato motivo di appello deducono, in via rescindente, i reclamanti, errores in judicando per violazione e falsa applicazione del divieto di discriminazione per criteri legati all’età di cui al d.lgs. n. 216/2003 e per violazione del principio di lealtà e correttezza nell’attività sportiva. Dissentono «con forza», i reclamanti, da quanto affermato dal Tribunale Federale Nazionale in ordine alla presunta «conformità dell’atto rispetto al summenzionato disposto normativo di cui al D.Lgs. n. 216/2003». «Anche solo da una prima lettura della norma», proseguono i reclamanti, «il C.U. n. 83/A risultava, siccome risulta, foriero di gravi vizi discendenti dalla violazione di norme nazionali e sovranazionali introducendo, rectius autorizzando, nell’ordinamento federale forme di discriminazioni lecite tra tesserati legate all’età». A dire della parte reclamante, infatti, «con la delibera impugnata, si introduce una limitazione alla possibilità di utilizzazione di atleti, nelle gare di campionato, determinata sulla sola base dell’età» e, in tal senso, «svincolata dalle finalità di tutela del vivaio (di cui alla introduzione dei criteri a salvaguardia dei c.d. “home grownplayers”) e, dunque, discriminatoria». In altri termini, il deliberato consigliare introdurrebbe di fatto, «ex legeendoassociativa, un’indebita sperequazione di trattamento tra i calciatori in età over 21, rispetto ai calciatori in età under 21». Sarebbe, dunque, evidente il contrasto tra la norma così introdotta nel sistema calcistico e la disciplina vigente in materia nell’ordinamento generale e, segnatamente, quella dettata dall’art. 3, comma 1, del decreto legislativo n. 216/2003 che vieta ogni forma di discriminazione, diretta o indiretta, legata alla religione, alle convinzioni personali, agli handicap, all’orientamento sessuale e, appunto, all’età, anche in relazione all’area dell’accesso all’occupazione e al lavoro (lett. a) ed a quella della «occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento» (lett. b). La regola introdotta nell’ordinamento sportivo calcistico sarebbe, dunque, «palesemente violativa» del divieto di discriminazione legato all’età tanto con riferimento alla disposizione di cui alla lett. a), quanto con riguardo a quella di cui alla lett. b). Insomma, secondo la prospettazione di parte ricorrente la decisione del Tribunale Federale Nazionale sarebbe del tutto errata laddove «si spinge, addirittura, ad affermare che il disposto endoassociativo sarebbe in piena armonia con la normativa statale». Al contrario, la norma «pur non inibendo l’assunzione e il tesseramento di un numero di calciatori superiori a 25 in età over 21, impone e permette al datore di lavoro di decidere unilateralmente l’inserimento nelle liste chiuse solo di un numero massimo di 25 atleti in età over 21, di cui, peraltro, almeno 4 formati nel club e almeno 4 formati in Italia». Ricordano, in tal ottica, i reclamanti, che ai sensi dell’art. 2, comma 1, del corpo normativo prima richiamato si ha discriminazione diretta quando per uno dei fattori appena indicati «una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe stata trattata un’altra in una situazione analoga», mentre la discriminazione è indiretta quando «una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone». Orbene, a dire dei consiglieri sigg.ri Tommasi e Calcagno, la disposizione «introduce di fatto una sperequazione di trattamento diretta con gli altri calciatori in età under 21, che non trovano limitazioni all’accesso all’impiego e all’utilizzo secondo il disposto di cui al comma 2 del Com.Uff. n. 83/A. Di conseguenza, la norma viene a configurare una discriminazione per età diretta trattando gli over 21 meno favorevolmente di quanto siano trattati nell’accesso al lavoro e nell’utilizzo gli under 21». «Al tempo stesso», osservano i reclamanti, «la disposizione controversa si presta anche a configurare un’ipotesi di discriminazione indiretta per età poiché, sebbene apparentemente neutra, pone i calciatori in età over 21 in una situazione di particolare svantaggio rispetto ai calciatori in età under 21 che, come visto, ai sensi del comma 2 del Com.Uff. n. 83/A, non trovano limitazioni all’accesso all’impiego ed al loro utilizzo in campo». In definitiva, la disposizione endoassociativa tratterebbe, tanto in via diretta, quanto in via indiretta, «meno favorevolmente i lavoratori sportivi che hanno superato l’età di 21 anni, ponendoli in una situazione di particolare svantaggio nell’accesso all’impiego». Ancor più evidente, poi, secondo parte reclamante, sarebbe «la contrarietà al generale divieto di discriminazione legato all’età in relazione alle condizioni di occupazione e di lavoro», di cui alla sopra richiamata lett. b). La disposizione federale, infatti, «impone al datore di lavoro di decidere unilateralmente e discrezionalmente l’inserimento nelle liste a numero chiuso di un numero massimo di lavoratori in età over 21 (25 unità), di fatto vietando ai conseguenti esuberi non inclusi nelle liste l’effettivo svolgimento dell’oggetto della prestazione lavorativa, che, nel caso di specie, va necessariamente individuata anche nella partecipazione alle competizioni ufficiali. Per l’effetto, la disposizione endoassociativa configura un’ipotesi di discriminazione diretta per età trattando meno favorevolmente, nell’esercizio dell’attività lavorativa e nello sviluppo della professionalità, i calciatori di età superiore ai 21 anni rispetto a come sono e saranno trattati quelli in età under 21; nel contempo, essa configura anche un’ipotesi di discriminazione indiretta per età ponendo nell’esercizio dell’attività lavorativa e nella progressione della propria professionalità gli atleti di età over 21 in una situazione di particolare svantaggio rispetto agli under 21». Non ricorre, peraltro, evidenziano i reclamanti, alcuna delle ipotesi di deroga di cui all’art. 3, comma 4 bis, del decreto legislativo n. 216/2003, tanto è vero che neppure «le motivazioni giustificatrici addotte dalla F.I.G.C.» appaiono «idonee ad essere sussunte all’interno delle lettere a), b) e c)» della predetta norma. Fallace, sotto tale profilo, l’affermazione del Tribunale Federale secondo cui si tratterebbe di «differenze di trattamento, legate anche all’età, che, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, costituiscono un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività medesima». Ribadiscono, sul punto, i consiglieri Calcagno e Tommasi, «come il disposto di cui all’art. 3, comma 3, D.Lgs n. 216/2003 si riferisca solo alle prestazioni per la cui natura o per il contesto in cui viene espletata, la differenziazione rappresenti una caratteristica che costituisce un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima». Pertanto, quanto affermato dal Tribunale, «paradossalmente, significa che la differenziazione tra calciatori over 21 e under 21 è essenziale allo svolgimento dell’attività calcistica». Ad ogni buon conto, secondo i reclamanti, anche laddove le disposizioni controverse «siano legittimate sulla base di una delle tre ipotesi normative individuate dall’art. 3, comma 4 bis, D.Lgs. n. 216/2003 – come specificato dall’art. 6 della Direttiva 2000/78/CE e dall’art. 3, comma 4 ter, D.Lgs. n. 216/2003 – queste soggiacciono in ogni caso al rispetto del c.d. principio di proporzionalità». Viene richiamata, in questa prospettiva, giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (decisioni C-144/04 del 22 novembre 2005 e C-388/07 del 5 marzo 2009), secondo cui «il margine di valutazione discrezionale del legislatore nazionale (ed anche endoassociativo, come avvenuto nel caso di specie) “non può avere l’effetto di svuotare della sua sostanza l’attuazione del principio di non discriminazione in funzione dell’età”; conseguentemente le “semplici affermazioni generiche, riguardanti l’attitudine di un provvedimento determinato a partecipare alla politica del lavoro, del mercato del lavoro o della formazione professionale, non sono sufficienti affinché risulti che l’obiettivo perseguito … possa essere tale da giustificare una deroga al principio … né costituiscono elementi sulla scorta dei quali poter ragionevolmente ritenere che gli strumenti prescelti siano atti alla realizzazione di tale obiettivo”». Sotto tale profilo, si sostiene in reclamo, la norma controversa deve essere «valutata nella sua portata, secondo il principio di proporzionalità, ossia se essa è funzionale al perseguimento di un fine meritevole», mentre «la decisione gravata nulla ha specificato in merito, né, tantomeno, dalla lettura della stessa è evincibile un giudizio in ordine alla proporzionalità della misura controversa». Confidando, pertanto, in via rescindente, nella riforma della decisione gravata entrambi gli appellanti osservano, in via rescissoria e di merito, «che la possibilità per l’atleta di partecipare alle gare, rappresentando parte integrante delle condizioni di lavoro, non ammette alcuna forma di discriminazione fondata sull’età, se non indiretta e proporzionata». Ritengono i reclamanti che, nel caso di specie, la norma controversa non appare «giustificata da obiettivi di pari rango né, tantomeno, proporzionata, traducendosi esclusivamente in un’ingiustificata compressione del diritto al lavoro e alla progressione professionale legata all’età, facilmente dimostrabile attraverso i dati statistici sulle composizioni attuali delle rose delle società di Serie A e i conseguenti effetti che essa realizzerebbe». Evidenziano, in tal ottica, da ultimo, i consiglieri Tommasi e Calcagno, come le disposizioni delle altre Leghe professionistiche si limitino «a incentivare economicamente il tesseramento o l’inserimento in liste di atleti di un determinato range di età, senza incidere sull’accesso e le condizioni di lavoro e di progressione professionale, come nel caso di specie». Concludono, quindi, i reclamanti chiedendo che la Corte Federale d’Appello, «in via rescindente, voglia annullare, dichiarare nulla e/o revocare la Decisione assunta dal Tribunale Federale Nazionale con C.U. n. 32/TFN del 17.2.2015, per uno o più dei motivi indicati in atti; per l’effetto e in via rescissoria, voglia, in integrale accoglimento del presente reclamo, annullare la delibera del Consiglio Federale F.I.G.C. presa in data 20 novembre 2014 e pubblicata nel Com.Uff. n. 83/A del 20 novembre 2014, nonché ogni provvedimento connesso e conseguente, e in ogni caso revocarla e/o dichiararla inefficace, per violazione di legge e dei principi generali dell’ordinamento sportivo, con ogni ulteriore e consequenziale provvedimento idoneo a privare di efficacia la delibera impugnata». Negli instaurati giudizi d’appello si è costituita la F.I.G.C., eccependo inammissibilità dei ricorsi e, comunque, infondatezza degli stessi. «La trattazione del merito», deduce, anzitutto, la resistente Federazione, «non può prescindere dalla doverosa premessa che il sistema di regole introdotte con la delibera n. 83/A, lungi dal costituire una assoluta novità nel panorama sportivo, si inscrive in un processo, già avviato e attuato dalla FIFA e dall’UEFA, volto a valorizzare i giovani calciatori ed, in particolar modo, quelli locali (formati nel club o comunque in Italia), senza limitare il numero massimo di giocatori tesserabili». Sottolinea, inoltre, come la soluzione normativa oggetto del giudizio riguardi solo le partite di campionato, «consentendo, dunque, l’impiego di calciatori non inseriti nell’elenco per tutte le altre competizioni ufficiali, senza limiti di età». Peraltro, il fatto che l’elenco di cui trattasi sia modificabile in più occasioni nel corso della stagione sportiva smentisce, a dire della Federazione, «la denunciata non proporzionalità della misura e, di riflesso, la sua asserita natura discriminatoria, atteso che sono riconosciuti ampi margini di flessibilità nel modificare la lista». Evidenzia, ancora, la F.I.G.C. come la valorizzazione dei giovani e la tutela dei vivai nazionali siano obiettivi fatti propri tanto dall’ordinamento sportivo italiano (cfr. art. 2.4 bis Statuto CONI), quanto da quello internazionale (cfr. art. 18 Regolamenti FIFA e UEFA), aggiungendo, che «né la legislazione nazionale né quella di diritto europeo inibiscono la previsione di regimi normativi differenziati in ragione della età dei lavoratori» e che, atteso che lo stesso decreto legislativo n. 216/2003 riconosce che in determinate circostanze talune disparità di trattamento in funzione dell’età possono essere giustificate, «la scelta normativa della Federazione rientra a pieno titolo nel novero dei casi in cui “trattamenti differenziati in ragione della età” sono ammessi e non concretano discriminazione». La stessa Alta Corte di giustizia sportiva, del resto, ha confermato che eventuali disparità di trattamento sono ammesse laddove «funzionali al perseguimento di un fine meritevole» e sempreché «idonee e proporzionate allo scopo» (cfr. dec. n. 2/2011). Orbene, sostiene la F.I.G.C., l’adita Corte è «chiamata a valutare se la scelta normativa compiuta dalla Federazione, preordinata al perseguimento di interessi già ritenuti meritevoli sia dalla FIFA sia dalla UEFA, sia coerente e proporzionale al soddisfacimento degli stessi». E, in tale prospettiva, la Federazione ritiene «che la soluzione prescelta (nell’esercizio di una discrezionalità tecnica sindacabile soltanto sotto il profilo dell’eccesso di potere per macroscopica illogicità e/o incongruenza) sia aderente e commisurata agli scopi perseguiti, richiamando il già prima citato precedente dell’Alta Corte, secondo cui il controllo «deve rimanere esterno e nel rispetto della discrezionalità dei soggetti operativi dell’ordinamento sportivo» e «può appuntarsi soltanto sulla manifesta sproporzione dei mezzi rispetto al fine». Manifesta sproporzione, ritiene la Federcalcio, «certamente non ravvisabile nel caso di specie». Conclude, dunque, la resistente F.I.G.C., chiedendo che «il ricorso venga dichiarato inammissibile o, comunque, respinto perché infondato nel merito». Alla udienza tenutasi il giorno 27 marzo 2015 innanzi a questa CFA, riunitasi a sezioni unite,sono comparsi gli avv.ti Alessandro Calcagno, Alessio Piscini e Luca Miranda, per parte reclamante, nonché gli avv.ti Luigi Medugno, Letizia Mazzarelli e Giancarlo Gentile per la resistente F.I.G.C.. Il collegio difensivo dei reclamanti ha, anzitutto, argomentato in ordine alla infondatezza dell’eccezione di inammissibilità dei ricorsi sollevata dalla Federcalcio, evidenziando che sussiste una contestazione di violazione di legge del deliberato consiliare e, questo, legittima i ricorsi sotto il profilo dell’ammissibilità. Nel merito la difesa dei reclamanti ha ulteriormente esposto le ragioni della lamentata discriminazione prodotta dalla impugnata delibera del Consiglio federale, insistendo per l’accoglimento delle conclusioni già in atti rassegnate. Gli avvocati della F.I.G.C., preliminarmente ribadita, in via di gravame incidentale, l’eccezione di inammissibilità formulata in primo grado e richiamate le argomentazioni difensive di cui alla costituzione e memoria, ha ulteriormente dedotto che non sussiste l’eccepita discriminazione e, segnatamente, che: non c’è sbarramento nell’accesso al lavoro; si tratta di un principio che è già stato applicato in ambito FIFA e UEFA (c.d. lista B) ove possono essere inseriti calciatori nati dal 1993 in poi); la disposizione rientra nell’ambito delle deroghe previste dal decreto legislativo n. 216/2003; seppur sussiste un trattamento differenziato, lo stesso è giustificato, legittimo e proporzionato e, sotto tale profilo, è possibile solo un “sindacato debole”, come anche statuito dall’Alta Corte di Giustizia Sportiva. Ha concluso, la resistente F.I.G.C., chiedendo che i reclami siano dichiarati inammissibili o, comunque, respinti perché infondati nel merito. All’esito del dibattimento, sentite le conclusioni delle parti del procedimento, la Corte, riuniti i procedimenti, attesa l’evidente connessione, ha assunto la decisione di cui al dispositivo sulla base dei seguenti MOTIVI I reclami non possono trovare accoglimento. L’ordine logico delle diverse questioni agitate nel presente procedimento impone di verificare, in via preliminare, il profilo dell’ammissibilità dei gravami. Secondo la F.I.G.C. «il Consigliere federale in quota calciatori, non può agire nell’interesse di alcuni soltanto dei soggetti rappresentati (gli over 21) ed in danno di altri (gli under 21), essendo legittimato a farlo soltanto laddove l’interesse perseguito sia comune alla intera categoria rappresentata». Evidenzia, in tal ottica, la resistente Federazione, come la giurisprudenza amministrativa abbia «escluso la titolarità in capo al rappresentante di un ente esponenziale della legittimazione ad impugnare atti “capaci di dividere la categoria in posizioni disomogenee”, atteso il potenziale conflitto d’interessi che ne potrebbe scaturire (cfr., fra le più recenti, C.d.S. 3.2.2014, n. 474; TAR Parma, I, 25.5.2014, n. 173; TAR Lazio, III, 17.4.2014, n. 4188; TAR Campania, IV, 12.6.2014, n. 3242)». L’eccezione di inammissibilità non è fondata. Infatti, ai sensi della disposizione di cui all’art. 43 bisC.G.S., «i ricorsi per l’annullamento delle delibere della Federazione, nei casi e con le modalità previste dall’art. 31 del Codice della giustizia sportiva emanato dal CONI, sono proposti innanzi al Tribunale federale a livello nazionale ‐ sezione disciplinare». L’art. 31 C.G.S. CONI così dispone: «Le deliberazioni del Consiglio federale contrarie alla legge, allo Statuto del Coni e ai principi fondamentali del Coni, allo Statuto e ai regolamenti della Federazione possono essere annullate su ricorso di un componente, assente o dissenziente, del Consiglio federale, o del Collegio dei revisori dei conti». Il contesto normativo appena ricordato attribuisce piena legittimazione ad impugnare le delibere del Consiglio federale a ciascun componente (assente o dissenziente) del Consiglio medesimo laddove le stesse si assumano essere contrarie alla legge, allo Statuto del CONI e ai principi fondamentali del CONI, allo Statuto e ai regolamenti della Federazione. L’adito organo di giustizia sportiva, ai fini dello scrutinio di ammissibilità del ricorso, è dunque chiamato a verificare la sussistenza dei predetti requisiti, ossia che il ricorrente sia un consigliere assente o dissenziente rispetto alla deliberazione consiliare impugnata e che contesti la contrarietà, della delibera adottata, alla legge, allo Statuto del CONI e ai principi fondamentali del CONI, allo Statuto e ai regolamenti della Federazione. Orbene, nel caso di specie, i suddetti requisiti di accesso al giudizio di annullamento sussistono e nessun’altra verifica, sotto siffatto profilo, il Tribunale federale e questa Corte sono chiamati a svolgere, tantomeno quella in ordine ad eventuale rappresentatività esponenziale del ricorrente o quella in relazione all’interesse, specifico o comune alla intera categoria, perseguito. Il consigliere è, infatti, legittimato al gravame di cui trattasi per la qualifica assunta e la funzione svolta. Per l’effetto, l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla F.I.G.C. deve essere disattesa. Quanto al merito della controversia, questa Corte, ritiene opportuno osservare, in via preliminare, come l’ordinamento sportivo nazionale, pur essendo dotato di ampi poteri di autonomia, autarchia ed autodichia, sia derivato da quello generale dello Stato (in tal senso anche la giurisprudenza amministrativa: cfr., a titolo meramente esemplificativo, TAR, Sicilia, Catania, sez. II, ord. 5 giugno 2003, n. 958, in Foro amm – Tar, 2004, p. 856). Vivace, come noto, il dibattito in materia, alimentato, forse, anche dall’incerto intervento legislativo, oscillante tra una visione pubblicistica, giustificata dalla particolare natura degli interessi coinvolti, ed una prospettiva privatistica, capace di assicurare agilità di forme e flessibilità di procedure, indispensabili per il regolare svolgimento dell’attività agonistica e dei campionati. La precedente ricostruzione dottrinale dell’ordinamento sportivo quale superiorem non recognoscens deve, peraltro, oggi fare i conti con la legislazione emanata in materia e, segnatamente, con la legge n. 91 del 1981, prima e con il decreto n. 242 del 1999 e la legge n. 280 del 2003, poi. Al CONI viene attribuita la soggettività giuridica di diritto pubblico e la posizione di garante delle esigenze che caratterizzano il fenomeno sportivo, unitamente al ruolo di istituzione apicale, nell’ambito del territorio italiano, del movimento sportivo internazionale (CIO). D’altra parte, tuttavia, lo stesso art. 1 della citata legge del 2003 è sintomatico nel momento in cui afferma che la Repubblica «riconosce e favorisce l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato olimpico internazionale». Non si deve, infatti, dimenticare che la caratteristica saliente dell’attività sportiva è quella di riferirsi ad un ordinamento che prima di essere nazionale è a carattere superstatuale. Il legislatore, in altri termini, in sintonia con gli approdi giurisprudenziali in materia, ha riconosciuto il carattere peculiare dell’ordinamento sportivo rispetto agli altri ordinamenti settoriali che esplicano la propria attività nell’ambito dell’ordinamento statale, peculiarità, appunto, costituita dal fatto di rappresentare un’articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato olimpico internazionale. Conserva, dunque, attualità la complessa questione della rilevanza nell’ordinamento dello Stato della normativa federale e di quella, alla stessa connessa, della individuazione dei limiti all’autonomia ed alla capacità di autorganizzazione attribuite all’ordinamento sportivo e, quindi, degli ambiti di rilevanza, per l’ordinamento generale, dei fatti e degli atti legati allo svolgimento delle competizioni sportive. L’ordinamento sportivo, di certo dotato di giuridicità e autonomia normativa, costituisce la modalità ordinaria di autogoverno di una comunità, considerato che deve anzi ritenersi un’eccezione l’ingerenza dello Stato nel governo dello sport. Nel contempo, non occorre dimenticare che, in generale, «il fenomeno sportivo, quale attività disciplinata sia in astratto che in concreto, visto indipendentemente dal suo inserimento nell’ordinamento statale, si presenta come organizzazione a base plurisoggettiva per il conseguimento di un interesse generale. E’ un complesso organizzato di persone che si struttura in organi cui è demandato il potere-dovere, ciascuno nella sfera di sua competenza, di svolgere l’attività disciplinatrice, sia concreta che astratta, per il conseguimento dell’interesse generale. E’, dunque, un ordinamento giuridico» (Corte di Cassazione, sez. III, 11 febbraio 1978, n. 625, inForo it., 1978, I, c. 862). L’agire delle Federazioni sportive nazionali, tuttavia, è improntato, come detto, ad autonomia e non già a discrezionalità assoluta: e ciò si ricava dallo stesso modello legale ideato dal legislatore per le predette Federazioni, considerate associazioni dotate di personalità giuridica di diritto privato, ma anche dalla stessa Costituzione, come anche affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui «il fondamento dell’autonomia dell’ordinamento sportivo» deve essere rinvenuto «nella norma costituzionale di cui all’art. 18, concernente la tutela della libertà associativa, nonché nell’art. 2, relativo al riconoscimento dei diritti inviolabili delle formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità del singolo» (cfr. Corte di Cassazione, 27 settembre 2006, n. 21006, in Guida al diritto, 2006, 46, 59; Corte di Cassazione, 28 settembre 2005, n. 18919, in Mass. Giust. civ., 2005, f. 7/8). Del resto, se è vero che democraticità e modernità di uno Stato si misurano anche in funzione della sua capacità di organizzare le autonomie è del pari vero che ogni processo di valorizzazione delle autonomie medesime non può mai comportare l’abbandono da parte dell’ordinamento statale di un nucleo fondamentale di regole (come quelle, appunto, per quanto rileva ai fini del presente procedimento, dettate in materia di discriminazione), che per la loro natura fondante, non sopportano limitazioni di sorta e la cui rinunzia si verrebbe di fatto a tradurre in una sostanziale negazione delle funzioni proprie dello Stato sovrano. Di conseguenza, il corretto e doveroso riconoscimento di ampi spazi di autonomia all’ordinamento sportivo non può condurre a trascurare la natura settoriale e derivata del medesimo ordinamento rispetto a quello giuridico generale, che, attesane la sua natura originaria, risulta invece impermeabile a qualsiasi forma di compressione che si riveli capace di rinnegarne i principi fondamentali, posti a presidio del tessuto socio-giuridico della comunità organizzata in Stato. In diversi termini, data la sua natura derivata, l’ordinamento sportivo non può contenere norme contrastanti con quelle dell’ordinamento statale, l’attuazione delle quali è assunta da quest’ultimo come assolutamente irrinunciabile (tipico esempio le norme penali o quelle di ordine pubblico), anche considerato, come detto, che lo Stato, in quanto ordinamento sovrano, non può mai rinunciare a far valere la propria sovranità, salva fatta l’ipotesi in cui sia il medesimo ordinamento statale a consentire la prevalenza degli ordinamenti particolari, nel caso di norme in conflitto con disposizioni normative generali. Ciò premesso sotto un profilo più generale, l’indagine richiesta a questa Corte nel presente procedimento è quella di verificare la sussistenza di un eventuale contrasto tra la norma in tema di tetto alle rose delle società di calcio partecipanti al campionato di serie A, deliberata dal Consiglio federale della F.I.G.C. nella seduta del 20 novembre 2014, e le previsioni dettate dall’ordinamento giuridico generale in materia di (non) discriminazione. Indispensabile, quindi, a tal fine, una preliminare attenta lettura delle principali disposizioni rinvenibili, per quanto di rilievo ai fini della decisione del presente giudizio, nell’ordinamento dello Stato. Il riferimento, come correttamente prospettato dai reclamanti consiglieri sigg.ri Calcagno e Tommasi, va, anzitutto, al decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, come modificato dall’art. 8 septies del decreto legge 8 aprile 2008, n. 59 e dall’art. 9, comma 4 ter, del decreto legge 28 giugno 2013, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 99. L’art. 3, comma 1, del suddetto decreto legislativo così recita: «Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall'articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree: a) accesso all'occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione; b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento; c) accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali; d) affiliazione e attività nell'ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni». Il raffronto di compatibilità, sotto il profilo della legittimità, della norma federale con la disciplina legislativa non può, tuttavia, prescindere dalle indicazioni di origine sovranazionale e, in particolare, dalle declinazioni comunitarie (normative e non) in tema di discriminazione e dalle specifiche previsioni in materia dettate dall’ordinamento sportivo internazionale. Il quadro legislativo comunitario in materia di principi di non discriminazione si fonda su due direttive: la direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione, che vieta le discriminazioni fondate sulla religione, gli handicap, l’età e l’orientamento sessuale nell’ambito del lavoro, e la direttiva sull’uguaglianza razziale, che vieta le discriminazioni fondate sulla razza o
l’origine etnica oltre che nel contesto del lavoro anche nell’accesso alla protezione e alla sicurezza sociale come pure nell’accesso ai beni e ai servizi. Ratio del diritto europeo della non discriminazione è assicurare a tutti gli individui un accesso equo e paritario alle opportunità offerte dalla società. Stabilisce, anzitutto, che tutti coloro che si trovano in una determinata situazione debbano ricevere lo stesso trattamento a prescindere dal fatto che possiedano o meno una caratteristica ritenuta “protetta” (c.d. discriminazione “diretta”). Occorre, tuttavia, precisare che il divieto di discriminazione diretta è controbilanciato da un’eccezione generale basata sull’oggettiva giustificazione. In secondo luogo, il diritto della non discriminazione stabilisce che le persone che si trovano in situazioni diverse devono ricevere un trattamento diverso nella misura in cui ciò sia loro necessario per fruire di determinate opportunità su un piano di parità con gli altri. Nel momento in cui si definiscono delle regole è, pertanto, necessario tener conto dei medesimi motivi di discriminazione oggetto di protezione (c.d. discriminazione “indiretta”). Le disposizioni contenute, in particolare, nella direttiva 2000/78/CE forniscono all’interprete la chiave di lettura delle specifiche discipline nazionali in materia. In particolare, sotto questo angolo visuale, occorre tenere presente che la direttiva, dopo aver affermato che «qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali nei settori di cui alla presente direttiva dovrebbe essere pertanto proibita in tutta la Comunità», precisa che «in casi strettamente limitati una disparità di trattamento può essere giustificata quando una caratteristica collegata alla religione o alle convinzioni personali, a un handicap, all'età o alle tendenze sessuale costituisce un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, a condizione che la finalità sia legittima e il requisito sia proporzionato». Occorre, poi, considerare le indicazioni rinvenibili nella normativa sportiva UEFA e FIFA. L’art. 19 del Regolamento FIFA sullo status ed i trasferimenti internazionali dei calciatori, vieta (salvo alcune specifiche tassative ipotesi) il trasferimento all’estero di calciatori minorenni. Nella stessa direzione i regolamenti UEFA per le competizioni “Europa League” e “Champions League” codificano la regola c.d. “home grownplayers”, diretta ad incentivare gli investimenti nei vivai e ad agevolare la valorizzazione dei giovani calciatori. La prospettiva è anche quella di riaffermare, in qualche modo, una sorta di “identità locale” per le squadre che partecipano alle predette competizioni europee. In particolare, i predetti Regolamenti UEFA prevedono che ciascuna società potrà inserire in un elenco definito “Lista A” un numero massimo di 25 giocatori, di cui almeno 8 dovranno essere formati in ambito nazionale: 4 calciatori dovranno provenire dal vivaio dello stesso club che li utilizza, mentre gli altri 4 potranno essere stati formati anche nei vivai di altre società, purché appartenenti alla medesima Federazione. In altro elenco (c.d. “Lista B”), il club potrà invece inserire un numero illimitato di giocatori nati nelle annualità previste dal Regolamento e, segnatamente, un numero illimitato di giocatori sedicenni, solo, però, se ininterrottamente tesserati, nei due anni precedenti, per la medesima società di appartenenza. Si tratta di una normativa ormai risalente, attesa la sua introduzione a far data dal 2005, quando la UEFA stabilì che ogni squadra partecipante alle competizioni europee avrebbe dovuto inserire almeno 4 calciatori locali (2 cresciuti nel club e 2 in club della Federazione di appartenenza) nella lista dei 25 utilizzabili nelle gare ufficiali. Il limite minimo di 2 è stato poi, via via, elevato prima a sei (3+3) ed ora ad 8 (4+4). È importante osservare come la disciplina UEFA definisca di “formazione nazionale” l’atleta che, a prescindere da nazionalità ed età, nel periodo compreso tra 15 e 21 anni è stato tesserato con il club per un periodo, continuativo o meno, pari a 3 stagioni intere, oppure per un lasso di 36 mesi, nonché l’atleta che, indipendentemente dalla nazionalità e dall’età, tra i 15 e i 21 anni è stato tesserato presso una società appartenente alla medesima Federazione del club per un periodo pari a 3 stagioni intere od a 36 mesi. Da un lato, dunque, la FIFA limita il trasferimento dei calciatori di età inferiore agli anni 18, dall’altro la UEFA dispone che almeno 8 giocatori (per le società che partecipano alle competizioni europee) debbano, appunto, essere giovani atleti con formazione nazionale o nel club. Le suddette previsioni normative sembrerebbero, dunque, ad un primo sommario esame, introdurre una disparità di trattamento che di fatto realizza un effetto discriminatorio. Tuttavia, occorre prendere atto che tanto il Parlamento europeo, con risoluzione datata 8 maggio 2008 sul Libro Bianco sullo sport, quanto la Commissione europea, con comunicato ufficiale del 28 maggio 2008, hanno affermato che la regola dell’ “home grownplayers” è compatibile con le disposizioni comunitarie in materia. Tutto ciò premesso, nel delineato contesto legislativo di riferimento, all’esito di un esame tra i due corpi normativi, quello dello Stato, “letto” alla luce delle suddette indicazioni comunitarie e dell’ordinamento sportivo internazionale, e quello federale censurato dai reclamanti, questa Corte non ravvisa, nella fattispecie, alcun trattamento discriminatorio tra calciatori-lavoratori. Si ritiene, pertanto, non sussista la dedotta violazione di legge, tanto sotto il profilo della lettera della norma, quanto avuto riguardo alla ratio delle disposizioni di cui trattasi. In particolare, non sussiste discriminazione diretta. Questa è, come noto, rinvenibile nell’ipotesi di trattamento sfavorevole riservato a una persona o ad una categoria di lavoratori. Nel caso di specie, non si rinviene questo trattamento sfavorevole verso la categoria dei calciatori over 21, sia perché semmai si tratta di una agevolazione per i giovani calciatori provenienti dai vivai, sia perché non vi è alcuna preclusione al tesseramento da parte di calciatori di qualsiasi età e, segnatamente, di quelli over 21 o non formatisi in Italia. In altri termini, non vi è alcuna discriminazione, dovuta all’età, sotto il profilo dell’accesso al lavoro. La disposizione oggetto del giudizio, infatti, mira soltanto, del tutto legittimamente ed in sintonia con le risoluzioni FIFA e UEFA, ad incentivare e favorire la crescita dei giovani calciatori, senza per questo voler in alcun modo discriminare i calciatori over 21. L’effetto della norma è, infatti, quello di confermare (e non potrebbe essere altrimenti) il diritto di accesso al lavoro per tutti i calciatori e di favorirlo per gli under 21 e/o giovani atleti formati nel club o in club affiliati alla Federazione, risultando, così, pienamente in armonia con le previsioni generali dell’ordinamento statale, la cui ratio è, appunto, quella di elidere le discriminazioni volte ad ostacolare il lavoro, sia sotto il profilo dell’accesso, che sotto quello dello sviluppo contrattuale. Ad avviso di questa Corte non sussiste neppure la c.d. discriminazione indiretta, ossia quella che deriva non dal trattamento diverso di persone che si trovano in una situazione analoga, bensì da un medesimo trattamento riservato a persone che si trovano in situazioni diverse. La differenza, in questo caso, risiede non tanto nel trattamento, quanto piuttosto negli effetti che esso produce, che sono percepiti in modo diverso da persone con caratteristiche differenti. A tal proposito, non appare per nulla condivisibile l’assunto attoreo secondo cui la disposizione introdotta nell’ordinamento federale vieta di fatto «ai conseguenti esuberi non inclusi nelle liste l’effettivo svolgimento dell’oggetto della prestazione lavorativa, che, nel caso di specie, va necessariamente individuata anche nella partecipazione alle competizioni ufficiali». Sotto tale profilo questo Collegio ritiene inconferente l’argomentazione offerta, sul punto, dalla Federazione secondo cui non sussiste l’asserita preclusione all’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa per i tesserati over 21 non inseriti nell’elenco, perché la delibera gravata sarebbe «aderente alla dimensione delle rose ordinariamente e notoriamente utilizzate dalle squadre professionistiche» che, «schierando in campo soli 11 giocatori, sostituibili al massimo in numero di tre compreso il portiere, continuano a disporre di un numero ampiamente satisfattivo delle loro esigenze». Esula, infatti, dallo scrutinio – richiesto a questa Corte – di legittimità della norma di cui trattasi, il fatto che la stessa sia o meno aderente alla struttura delle attuali rose delle società di serie A e che sono utilizzati in campo solo 11 calciatori. Posto che non è rinvenibile nell’ordinamento giuridico generale dello Stato un diritto soggettivo perfetto del giocatore a partecipare, a prescindere, alle gare ufficiali della propria squadra, deve osservarsi, invece, come il calciatore tesserato per una data società sia tenuto a svolgere la propria prestazione lavorativo-sportiva secondo le disposizioni e con le modalità indicate dalla società medesima, avuto riguardo alle esigenze della stessa: di conseguenza, non necessariamente la prestazione lavorativa di cui trattasi si risolve nella partecipazione alla gara ufficiale del campionato nazionale. Del resto, la disciplina antidiscriminatoria non può essere confusa con un generico principio generale di parità assoluta di trattamento. Principio inesistente, come anche affermato dalle stesse sezioni unite della Corte di Cassazione (cfr. Cassazione, sez. un., 29 maggio 1993, n. 6030, in Foro it., 1993, I, c. 1794 ss. In senso conforme, da ultimo, Cassazione, 17 agosto 2004, n. 16032, in Mass. giur. lav., 2004, p. 790). Diversamente opinando, infatti, si giustificherebbe una estensione illimitata della tutela per giustificazione necessaria in un sistema costituzionale fondato sulla libertà di esercizio dei poteri conformativi del datore di lavoro all’interno dell’area non espressamente limitata da norme di legge o di natura negoziale. In disparte ogni disquisizione sulla sindacabilità dell’esercizio dei poteri del datore di lavoro, un tale principio sarebbe, inoltre, in netto contrasto con la stessa evoluzione del diritto del lavoro verso una progressiva attuazione delle previsioni costituzionali in materia di rapporti tra privati tramite una graduale limitazione dei poteri datoriali, laddove si osservi come la stessa diverrebbe del tutto inutile nel momento in cui si asserisce l’esistenza di un onere per l’imprenditore di giustificare ogni propria scelta. Nello stesso tempo, un siffatto principio generale di parità di trattamento renderebbe superflui gli stessi specifici obblighi di parità in materia, invece, previsti nella nostra legislazione. In ogni caso, anche laddove fosse stato ipotizzabile il lamentato contrasto, la disposizione federale censurata dalla parte reclamante rientrerebbe nelle ipotesi di deroga previste e consentite dalla disposizione di cui al comma 4 bis dell’art. 3 del decreto legislativo n. 216/2003, che così testualmente dispone: «Sono fatte salve le disposizioni che prevedono trattamenti differenziati in ragione dell'età dei lavoratori e in particolare quelle che disciplinano: a) la definizione di condizioni speciali di accesso all'occupazione e alla formazione professionale, di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, allo scopo di favorire l'inserimento professionale o di assicurare la protezione degli stessi; b) la fissazione di condizioni minime di età, di esperienza professionale o di anzianità di lavoro per l'accesso all'occupazione o a taluni vantaggi connessi all'occupazione; c) la fissazione di un'età massima per l'assunzione, basata sulle condizioni di formazione richieste per il lavoro in questione o sulla necessità di un ragionevole periodo di lavoro prima del pensionamento». Precisa, poi, il legislatore, al comma 4 ter, che «Le disposizioni di cui al comma 4-bis sono fatte salve purché siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate da finalità legittime, quali giustificati obiettivi della politica del lavoro, del mercato del lavoro e della formazione professionale, qualora i mezzi per il conseguimento di tali finalità siano appropriati e necessari». Sotto siffatto profilo, le motivazioni del provvedimento federale esplicitate nel testo del C.U. n. 83/A altro non sono che delle specificazioni delle previsioni generali individuate nelle disposizioni di cui allo stesso comma 4 bis. La «valorizzazione dei calciatori formati calcisticamente nei club italiani ed anche in ragione della crisi economica che ha investito il paese da qualche anno, di dover favorire l’accesso alle competizioni del Campionato di Serie A ai calciatori che abbiano avuto una formazione in Italia» e la «avvertita esigenza di garantire una migliore maturazione sportiva dei calciatori giovani formati in Italia, al fine di alimentare il bacino di disponibilità dei calciatori selezionabili per le Nazionali», infatti, ben possono farsi rientrare nell’ambito del reticolo normativo di cui alla disposizione prima richiamata e, segnatamente, nell’ambito della «definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione e alla formazione professionale, di occupazione e di lavoro» e nella «fissazione di condizioni minime di età» per l’accesso «a taluni vantaggi connessi all’occupazione». Del resto, ai fini del giudizio che qui ci occupa, questa Corte è chiamata a valutare la complessiva coerenza della novella federale con le previsione dell’ordinamento generale, al di là ed a prescindere da quelle che sono le motivazioni addotte a sostegno della modifica della disciplina in materia di utilizzo delle rose delle società di serie A. Ebbene, come detto, un’attenta comparazione tra i due testi normativi, quello federale e quello giuridico generale, non evidenzia, diversamente da quanto ipotizzato ed assunto dai reclamanti, contrasto alcuno, anche laddove si tenga presente che una maggiore valorizzazione dei calciatori giovani di età assume rilievo fondante per l’ordinamento calcistico, essendo diretto, più in generale, alla tutela dei vivai, ad agevolare gli investimenti nel settore giovanile da parte delle società cui il provvedimento federale si rivolge, nonché a contrastare iniziative sportive di carattere speculativo. Del resto, come ricordato anche dai medesimi reclamanti, è lo stesso statuto del CONI a porre tra gli obiettivi del Comitato quello della salvaguardia del patrimonio sportivo nazionale e della tutela dei vivai giovanili, in ossequio a quanto disposto dalla norma di cui all’art. 22 della legge 30 luglio 2002, n. 189, che attribuisce, appunto, al CONI anche il compito di «assicurare la tutela dei vivai giovanili». In tal ottica, infatti, l’art. 2, punto 4 bis,dello Statuto del CONI così stabilisce: «il CONI detta principi ed emana regolamenti in tema di tesseramento e utilizzazione degli atleti di provenienza estera al fine di promuovere la competitività delle squadre nazionali, di salvaguardare il patrimonio sportivo nazionale e di tutelare i vivai giovanili». Il tutto, avuto anche riguardo alle esigenze, sempre più avvertite, del fair play finanziario, che le società sportive di livello professionistico sono chiamate a rispettare e tenuto presente che l’ordinamento sportivo rimane pur sempre capace di regolare, anche per il tramite delle sue articolazioni organizzative (i.e. federali), fattispecie generali ed astratte con valenza verso la generalità dei soggetti dell’ordinamento medesimo, in funzione del perseguimento di specifiche finalità pur sempre rientranti nell’interesse generale in ragione del quale esso stesso è costituito e non contrastanti con i principi e le norme fondamentali dell’ordinamento generale dello Stato. Sotto questo angolo prospettico, dunque, il disposto normativo potrebbe rivelarsi anche coerente ed in linea con le previsioni di cui all’articolato normativo posto dall’art. 3, comma 3, del decreto legislativo n. 216/2003. Siffatta disposizione così recita: «Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza e purché la finalità sia legittima, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima». Orbene, la speciale natura dell’attività lavorativa di cui trattasi, il contesto nel quale la stessa viene espletata, le particolari modalità di svolgimento della medesima, potrebbero effettivamente rendere legittima, come ritenuto dal giudice di prime cure, la disposizione federale di cui trattasi, anche avuto riguardo alle sue caratteristiche di adeguatezza, proporzionalità e ragionevolezza. In tal ottica, anche la giurisprudenza ordinaria ha avuto modo di affermare che «l'età rappresenta una condizione personale che, per la natura dell'attività lavorativa e per il contesto in cui viene espletata, costituisce un requisito determinante ai fini dello svolgimento» di determinate attività (cfr. Trib. Milano. 7 luglio 2010, in Riv. critica dir. lav., 2010, 4, p. 1024), mentre quella comunitaria ha precisato che è legittimo derogare al principio di non discriminazione laddove il differente trattamento riservato in ragione dell’età sia giustificato da una finalità legittima perseguita con mezzi appropriati (cfr. Corte Giustizia UE, Grande sezione, 19 gennaio 2010, n. 555). Ad ogni buon conto, tuttavia, occorre ricordare che la norma di cui all’art. 3, comma 6, del decreto legislativo n. 216 del 2003, prevede che non sono discriminatorie «quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari». La suddetta previsione interna è in linea con la direttiva comunitaria 2000/78/CE secondo cui «gli Stati membri possono prevedere che le disparità di trattamento in ragione dell'età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell'ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari. Tali disparità di trattamento possono comprendere in particolare: a) la definizione di condizioni speciali di accesso all'occupazione e alla formazione
professionale, di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l'inserimento professionale o assicurare la protezione degli stessi; b) la fissazione di condizioni minime di età, di esperienza professionale o di anzianità di lavoro per l'accesso all'occupazione o a taluni vantaggi connessi all'occupazione; c) la fissazione di un'età massima per l'assunzione basata sulle condizioni di formazione richieste per il lavoro in questione o la necessità di un ragionevole periodo di lavoro prima del pensionamento». Pertanto, la disciplina normativa settoriale ben può introdurre misure anche oggettivamente svantaggiose per i singoli, laddove la ratio dell'intervento sia quella di perseguire una finalità legittima con mezzi occorrenti e proporzionati, e/o una finalità di riordino dell'assetto organizzativo improntato anche ad esigenze di contenimento della spesa, che deve informare di per sé anche la politica del lavoro nell’ambito sportivo di cui trattasi. Orbene, la norma dedotta in giudizio resiste pienamente al giudizio di proporzionalità indicato a livello comunitario e richiesto dalla disciplina interna: fissata la lista “chiusa” a 25 calciatori, la disposizione di cui trattasi limita a soli 4 giocatori quelli che devono essere formati nel club (ossia, calciatori che tra i 15 e i 21 anni di età siano stati tesserati a titolo definitivo per il club medesimo per un periodo, anche non continuativo, di 36 mesio per tre intere stagioni sportive, intendendosi per “stagione sportiva” il periodo che intercorre tra la prima e l’ultima giornata di campionato) ed altri 4 quelli che devono essere formati in Italia (ossia, calciatori che tra i 15 e i 21 anni di età, indipendentemente dalla loro nazionalità o età, siano stati tesserati a titolo definitivo per uno o più club italiani per un periodo, anche non continuativo di 36 mesi, o per tre intere stagioni sportive). La norma di cui trattasi, dunque, supera l’esame di proporzionalità invocato dai reclamanti, anche laddove si consideri che l’elenco dei 25 calciatori, come sopra composto, deve essere predisposto prima dell’inizio del campionato, ma può, poi, essere variato fino al giorno successivo alla chiusura del primo periodo di campagna trasferimenti e può essere nuovamente variato dall’inizio del secondo periodo di campagna trasferimenti fino al giorno successivo alla chiusura del predetto medesimo periodo. Rafforza il suddetto giudizio di adeguatezza e proporzionalità della disposizione, anche in funzione delle finalità perseguite, realizzando un giusto equilibrio tra le molteplici esigenze in gioco ed un adeguato assetto dei diversi interessi e diritti che insistono nella fattispecie, la previsione di cui al comma 6 della delibera censurata dai reclamanti, a mente del quale, «le società di serie A, in qualsiasi momento della stagione sportiva, possono procedere alle variazioni di seguito indicate dell’elenco dei 25 calciatori: a) sostituzione di un portiere con un altro portiere; b) sostituzione di un calciatore proveniente dall’estero per il quale non si sia completata positivamente la procedura di rilascio del transfer; c) sostituzione di un calciatore al quale sia stato revocato il tesseramento; d) sostituzione di un calciatore con cui sia intervenuta risoluzione consensuale di contratto; e) sostituzione, per una sola volta nella stagione, fino ad un massimo di due calciatori (diversi dal portiere) con altri due calciatori». Si aggiunga, ancora, che lo stesso sopra richiamato Libro bianco sullo sport, di cui alla Comunicazione della Commissione europea 11 luglio 2007 (lo ricorda anche parte reclamante), definisce «la promozione della formazione dei giovani sportivi di talento nelle condizioni adeguate» quale «elemento fondamentale per uno sviluppo sostenibile dello sport a tutti i livelli». Si legge, quindi, nella predetta Comunicazione: «Le regole che impongono alle squadre una quota di calciatori formati sul posto possono ritenersi compatibili con le disposizioni del trattato sulla libera circolazione delle persone se non causano una discriminazione diretta basata sulla nazionalità e se gli eventuali effetti discriminatori indiretti possono essere giustificati come proporzionati a un obiettivo legittimo perseguito, ad esempio potenziare e tutelare la formazione e lo sviluppo dei giovani giocatori di talento». In conclusione, un attento esame della disciplina legislativa in materia e una lettura complessiva e sistematica della stessa alla luce delle relative indicazioni sia degli organismi comunitari, che dell’ordinamento sportivo sovranazionale, conduce ad affermare che la deliberazione del Consiglio federale oggetto del presente procedimento, anche avuto riguardo alle finalità dalla stessa perseguite ed alle modalità della sua attuazione, è esente da vizi di contrasto con le disposizioni dell’ordinamento giuridico generale e dell’ordinamento sportivo. Per questi motivi la C.F.A. respinge i ricorsi come sopra proposti dai signori Damiano Tommasi e Umberto Calcagno. Dispone incamerarsi le tasse reclamo.
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5) RICORSO DEL SIG. DAMIANO TOMMASI AVVERSO LA REIEZIONE DEL RICORSO TENDENTE AD OTTENERE L’ANNULLAMENTO DELLA DELIBERA DEL CONSIGLIO FEDERALE F.I.G.C. DI CUI AL COM. UFF. N. 83/A DEL 20.11.2014 (Delibera del Tribunale Nazionale Federale Sez. Disciplinare – Com. Uff. n. 32/TFN del 17.2.2015)
6) RICORSO DEL SIG. UMBERTO CALCAGNO AVVERSO LA REIEZIONE DEL RICORSO TENDENTE AD OTTENERE L’ANNULLAMENTO DELLA DELIBERA DEL CONSIGLIO FEDERALE F.I.G.C. NDI CUI AL COM. UFF.. 83/A DEL 20.11.2014 (Delibera del Tribunale Nazionale Federale Sez. Disciplinare – Com. Uff. n. 32/TFN del 17.2.2015)"