F.I.G.C. – CORTE FEDERALE D’APPELLO – Sezioni Unite – 2017/2018 – figc.it – atto non ufficiale – Decisione pubblicata sul C. U. n. 101/CFA del 17 Aprile 2018 (motivazioni) relativa al C. U. n. 90/CFA del 22 Marzo2018 (dispositivo) – RICORSO DEL PROCURATORE FEDERALE AVVERSO L’INCONGRUITÀ DELLA SANZIONE INFLITTA ALLA SOCIETÀ S.S. LAZIO S.P.A., SEGUITO PROPRIO DEFERIMENTO – NOTA N. 4042/289 PFL 17/18 GP/GM/SDS DEL 14.11.2017 (Delibera del Tribunale Federale Nazionale – Sezione Disciplinare – Com. Uff. n. 36/TFN del 25.1.2018)

RICORSO DEL PROCURATORE FEDERALE AVVERSO L’INCONGRUITÀ DELLA SANZIONE INFLITTA ALLA SOCIETÀ S.S. LAZIO S.P.A., SEGUITO PROPRIO DEFERIMENTO – NOTA N. 4042/289 PFL 17/18 GP/GM/SDS DEL 14.11.2017 (Delibera del Tribunale Federale Nazionale – Sezione Disciplinare – Com. Uff. n. 36/TFN del 25.1.2018)

Il deferimento della Procura federale

     Con atto in data 14 novembre 2017 il Procuratore federale, visti gli atti del procedimento n. 289 – 17/18, effettuate le attività di indagine di propria competenza, ha deferito innanzi al Tribunale federale nazionale (in seguito anche TFN), la società SS Lazio spa per rispondere della violazione dell’art. 11, comma 3, e dell’art. 4, comma 3, codice giustizia sportiva (in seguito anche CGS) perché in occasione della gara Lazio - Cagliari del 22 ottobre 2017, valevole per il campionato di serie A della stagione sportiva 2017/2018, alcuni tifosi dell’anzidetta società, in relazione ai quali risultano essere in corso indagini dell’autorità giudiziaria ordinaria, hanno introdotto ed affisso all’interno della curva sud dello stadio Olimpico di Roma diversi adesivi, riportanti l’effige della bambina ebrea Anna Frank, indossante una maglietta dell’AS Roma spa, dal chiaro intento antisemita, costituente comportamento discriminatorio. Segnatamente, a seguito di un sopralluogo all’interno dello stadio venivano notati, nel settore cuva sud-est, numerosi adesivi di scherno verso i tifosi romanisti di varie fogge e colori, affissi dai tifosi laziali durante la suddetta partita Lazio-Cagliari. Detta affissione nei luoghi appena specificati è stata qualificata dagli organi di pubblica sicurezza come un episodio dal “valore simbolico e chiaramente antisemita dei predetti adesivi, offensivi per il tenore e l’incitazione all’odio razziale, richiamando l’attenzione dei media suscitando vive proteste della comunità ebraica” (comunicazione di notizia di reato ex art. 347 c.p.p. della Digos della Questura di Roma del 24 ottobre 2017).

Il giudizio innanzi al Tribunale federale nazionale e la relativa decisione

     Nell’instaurato giudizio di prime cure innanzi al Tribunale federale nazionale, dopo aver insistito nell’accoglimento del deferimento, la Procura federale ha formulato le seguenti richieste sanzionatorie:

- 2 (due) giornate a porte chiuse dell’impianto sportivo stadio Olimpico, oltre all’ammenda di € 50.000,00 (euro cinquantamila/00) nei confronti della SS Lazio spa.

La SS Lazio spa, rappresentata e difesa dall’avv. Gian Michele Gentile, richiamando quanto già dedotto nella difesa presentata a seguito della comunicazione di conclusione indagini, ha chiesto il proscioglimento sostenendo, in sintesi, di aver attivato tutte le attività di controllo di propria competenza. Nelle suddette osservazioni difensive viene evidenziato come gli adesivi di cui trattasi siano stati rinvenuti nei pressi del varco di accesso 21 della curva sud e (testualmente) che il rapporto della polizia scientifica dà atto: «che uno degli adesivi è stato rinvenuto in un ambiente di medie dimensioni sito alla destra della prima rampa di scale; che altri due adesivi sono stati rinvenuti sul primo gradino della scala; che altri 11 adesivi sono stati rinvenuti in corrispondenza della seconda rampa, sulla parete di vetrocemento, unitamente ad altri adesivi con diverso tema; che altro adesivo è stato rinvenuto su una scatola di plastica dell’impianto elettrico sulla destra della seconda rampa; che altri nove adesivi sono stati rinvenuti in prossimità del bar Arena caffè sito a destra della seconda rampa; che uno ancora nel bar sito a sinistra. Tutti gli adesivi misurano 8x6,5 cm.

Le indagini della PS hanno portato all’arresto di 13 giovani identificati come gli autori materiali dell’affissione: sembra che costoro abbiano anche confessato.

Appena appresa la notizia il Presidente della SS Lazio spa, si è recato, con una corona di fiori bianco azzurri, alla Sinagoga per rendere omaggio alla Comunità ebraica e presentare la sua solidarietà a nome di tutto il popolo laziale: il clima freddo, da parte della Comunità ebraica, che ha accompagnato il gesto nulla toglie al suo significato, anche se su questo punto si è scatenata l’ennesima tempesta mediatica, poi rientrata dopo l’accertamento del reale svolgimento dei fatti».

Il Tribunale federale nazionale ha ritenuto fondato il deferimento, evidenziando la gravità dei fatti, meritevoli di forte e decisa censura.

«L’introduzione nello stadio», si legge nella decisione di prime cure, «e, in particolare nel settore notoriamente cuore del tifo della AS Roma, del materiale raffigurante, fra l’altro, una figura simbolo dell’olocausto degli Ebrei con indosso una maglietta giallorossa, per il contesto nel quale sono stati diffusi, per la prevedibile e giustificata eco che tale azione ha avuto, rappresenta un gesto altamente lesivo dei principi e dei valori cui deve necessariamente tendere l’Ordinamento sportivo.

Dagli atti prodotti in giudizio, in particolare dall’informativa di reato allegata al deferimento, emerge chiaramente la presenza di diversi adesivi volti a schernire la tifoseria avversaria, in ragione di un assurdo e oltremodo oltraggioso riferimento alla religione ebraica.

Tali comportamenti, pertanto, evidentemente provocatori ed ictu oculi idonei a provocare sentimenti di sdegno e vergogna nell’opinione pubblica appaiono chiaramente in contrasto anche con i fondamentali principi sanciti dall’art. 2 dello Statuto della FIGC.

Le successive indagini hanno portato ad appurare, secondo quanto prospettato dalla difesa della SS Lazio, che tale attività sarebbe stata posta in essere da 13 tifosi del sodalizio biancazzurro che sono stati oggetto di DASPO (in realtà dalla lettura dei siti internet emergerebbe che i responsabili sono 20), numero esiguo di soggetti in relazione al numero di persone presenti sia all’interno dello stadio, sia all’interno del settore ove si sono verificati i fatti oggetto di deferimento.

Orbene il Collegio ritiene, tuttavia, che ai fini della valutazione della violazione della disposizione di cui all’art. 11, comma 3 del CGS da parte della Società, debba valutarsi in concreto se la Società stessa abbia adottato tutti i mezzi idonei per cercare di evitare l’illecito.

Infatti, come è noto, l’Ordinamento Federale prevede, all’art. 4, comma 3 del CGS FIGC, la responsabilità oggettiva per le Società, per l’operato dei propri sostenitori all’interno del campo di gioco.

A tale generica disposizione si affianca quella di cui all’art. 11, comma 3 del CGS che afferma la responsabilità della Società per l’introduzione di disegni, emblemi e altro recanti espressioni discriminazione.

Orbene, a meno che non si ritenga che la disposizione in questione sia un mero pleonasmo rispetto a quanto già previsto dall’art. 4, comma 3 del CGS FIGC, questo Tribunale sostiene che, nel caso di specie, ricorra, nei confronti delle Società, un’ipotesi di cd. “responsabilità aggravata” sulla falsa riga di quanto previsto per alcune ipotesi tipizzate di responsabilità previste nel codice civile. Com’è noto tale profilo di responsabilità presuppone una presunzione di colpevolezza che ammette, tuttavia, la prova liberatoria qualora si dimostri che il responsabile abbia posto in essere le misure idonee ad evitare il danno; a conforto di tale tesi soccorre l’art. 13 del CGS che ammette espressamente la cd “prova liberatoria” in presenza di almeno tre circostanze ivi indicate. Se è vero che l’art. 13 CGS fa riferimento, ai fini dell’esclusione della responsabilità, esclusivamente alle condotte tenute dai sostenitori delle Società poste in essere in violazione dell’art. 12 CGS (repressione di fatti violenti), il chiaro riferimento ad ipotesi espressamente previste nell’art. 11 CGS - vedasi l’art. 13 comma 1, lett. b) e c) CGS - fa propendere per l’applicazione delle esimenti anche agli illeciti di cui all’art. 11 CGS.

Sotto altro profilo è evidente che le violazioni previste agli artt. 11 CGS e seguenti sono strettamente correlate al positivo obbligo in capo alla Società di adottare tutte le misure idonee per la tutela dell’ordine pubblico, previste dall’art. 62 delle NOIF FIGC, e pertanto, sono riconnesse ad uno specifico obbligo di controllo, la cui correlata sanzione è consequenziale ad una sua specifica violazione, piuttosto che ad una generica responsabilità oggettiva (per la differenza fra responsabilità aggravata - alla quale corrispondono specifici obblighi di responsabilità di vigilanza, controllo e diligenza - e responsabilità oggettiva, vedasi Cass., sez. III, 20 febbraio 2006, n. 3651).

Nel caso di specie, anche sulla scorta della apprezzabili argomentazioni fornite dalla difesa della SS Lazio, il Collegio ritiene non sussistano i presupposti per ritenere la stessa responsabile della violazione di cui all’art. 11, comma 3, CGS giacché è stato dimostrato che la Società ha posto in essere tutte le misure idonee e previste dalle normative vigenti per garantire efficaci misure di controllo. Vero è, inoltre, che gli adesivi introdotti all’interno dello stadio erano di dimensioni talmente ridotte che, anche usando una particolare diligenza, sarebbero facilmente sfuggite ai controlli degli addetti di sicurezza che, come è stato correttamente osservato, non possono neanche effettuare perquisizioni corporali nei confronti degli spettatori.

In altri termini si ritiene che la Società, come evidenziato dalla difesa, abbia fattivamente posto in essere le condotte di cui all’art. 13, comma 1 lett. a), b) ed e) CGS, in relazione alla gara in questione e che l’introduzione degli stickers di ridotte dimensioni, ad opera fra l’altro di un esiguo – rispetto al numero complessivo di spettatori – gruppo di sostenitori, non potesse essere impedito.

I fattori sopra elencati, tuttavia non possono escludere la responsabilità oggettiva della Società deferita che, ai sensi dell’art. 4, comma 3 risponde, per l’appunto oggettivamente, dell’operato dei propri sostenitori, all’interno del campo di gioco, contrario, ovviamente, ai principi sopra indicati.

La responsabilità oggettiva sopra cennata fa da logico corollario, quale norma di chiusura, al principio secondo il quale, nell’ambito dell’Ordinamento sportivo, le Società, anche in funzione del ruolo propulsivo educativo alle stesse riservato dall’Ordinamento Federale, concorrono, in quanto associate alla FIGC, a realizzare il fine espressamente indicato all’art. 2, comma 5 dello Statuto FIGC secondo il quale “La FIGC promuove l’esclusione dal giuoco del calcio di ogni forma di discriminazione sociale, di razzismo, di xenofobia e di violenza”. Responsabilità che sussiste, secondo i parametri tipici della “responsabilità per fatto altrui”, ogni qualvolta venga accertato il nesso causale fra la condotta contestata e l’evento cagionato posto in essere da altri soggetti – i sostenitori – nei confronti dei quali le Società si accollano il rischio in ragione dell’attività esercitata, senza possibilità di invocare l’assenza di dolo o colpa.

Individuata, pertanto, la norma violata, ritiene il Collegio che la sanzione da affliggere non debba essere vincolata ai rigidi parametri di cui all’art. 11 del CGS, ma può essere parametrata agli ordinari canoni previsti dall’Ordinamento Federale.

Pertanto, alla luce di quanto sopra esposto si ritiene non sussistano i presupposti per infliggere la sanzione della disputa di due giornate a porte chiuse in quanto, in tal modo, verrebbe penalizzata la quasi totalità della tifoseria laziale per il becero comportamento di soli venti persone, subendo un danno economico derivante dalla mancata possibilità di assistere alle gare della propria squadra del cuore, soprattutto per coloro che sono in possesso di abbonamento.

Tale sanzione risulta essere estremamente penalizzante per la parte di tifoseria sana che, di fatto, sarebbe ostaggio dei comportamenti inqualificabili tenuti da pochissimi pseudo tifosi e potrebbe portare al compimento di ulteriori atti emulativi sempre da parte di pochi sprovveduti che potrebbero provare ulteriore soddisfazione nel constatare quanto il loro comportamento sia in grado di condizionare un’intera tifoseria.

Pertanto il Collegio ritiene congrua l’irrogazione della sanzione dell’ammenda pari ad € 50.000,00 (euro cinquantamila/00)».

Il ricorso

Avverso la suddetta pronuncia hanno proposto appello il sig. Procuratore Federale e il sig. Procuratore federale aggiunto, censurando, in particolare, il profilo sanzionatorio della decisione e l’accoglimento solo parziale del capo di incolpazione.

Con un primo motivo di appello la Procura federale deduce violazione e falsa applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 11, comma 3, e 13, comma 1, lett. a), b) ed e), CGS, nonché inapplicabilità delle esimenti, previste dall’art. 13 stesso codice, alle fattispecie di discriminazione razziale di cui all’art. 11.

Ritiene, infatti, l’appellante Procura federale, che la decisione del TFN si ponga in contrasto con quanto previsto dall’art. 13 CGS, «che prevede espressamente che le esimenti e le attenuanti nella stessa contemplate, siano applicabili solo ed esclusivamente ai “comportamenti tenuti dai propri sostenitori in violazione dell’art. 12”». Il sistema, insomma, non consentirebbe «alcuna possibilità di deroga alla responsabilità oggettiva delle società in caso di comportamenti dei propri sostenitori che comporti, addirittura anche soltanto “indirettamente”, “offesa, denigrazione, insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine etnica”».

Ritiene, poi, la Procura federale inconfigurabile una possibile interpretazione estensiva “in bonis” dell’esimente in forza del principio generale del “favor rei”, poiché una siffatta applicazione estensiva potrebbe essere ammessa «solo ed esclusivamente nel caso in cui la previsione violata attenga a violazione di gravità analoga o commisurabile». Nel caso di specie, invece, ad avviso dell’appellante, «sussistono livelli di gravità diversi tra un comportamento dei sostenitori violento, intrinsecamente limitato e contestualizzato in un’unica manifestazione sportiva, ed un episodio di discriminazione razziale che ha una “vis lesiva” dei principi fondamentali dello sport e dell’etica sociale che travalica la singola gara; il caso di specie, peraltro, è assolutamente emblematico in proposito per il grado di risonanza mediatica e sociale suscitata».

A sostegno del motivo di gravame la Procura federale evidenzia, altresì, come il riferimento contenuto nelle lettere b) e c) del primo comma dell’art. 11 sia «riferita alla fattispecie di cui al terzo comma dell’art. 12 che prevede espressamente la sanzionabilità dei comportamenti dei sostenitori integranti “denigrazione o insulto per motivi di origine territoriale”; fattispecie quest’ultima di palese minore gravità ed oggetto in tempi recenti, proprio per tale motivo, di una modifica normativa che l'ha distinta dalle espressioni di discriminazione razziale, alle quali era invece in precedenza accomunata».

In tale prospettiva la Procura Federale sottolinea quello che è l’interesse all’impugnazione sul punto, determinato dalla circostanza che la sanzione irrogata dal TFN sarebbe inferiore al minimo edittale che, nel caso di violazione successiva alla prima del disposto di cui all’art. 11, comma 3, CGS «prevede un minimo edittale dell’ammenda di euro 50.000,00 da cumularsi con una o più delle sanzioni previste dall’art. 18 comma 1 lettere d), e), f), g), i), m), oppure ancora con la perdita della gara».

Con un secondo motivo la Procura federale deduce, in via subordinata, errata applicazione dell’esimente di cui all’art. 13, comma 1, lett. a), b), ed e) CGS ed erronea valutazione del materiale probatorio.

Sotto tale profilo, la pubblica accusa federale esamina le tre fattispecie ritenute sussistenti dal Giudice di prime cure ai fini dell’applicazione della esimente di cui trattasi: «lettera a): adozione ed efficace attuazione da parte della società, prima del fatto, di modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire comportamenti della specie di quelli verificati, avendo impiegato risorse finanziarie e umane adeguate allo scopo; lettera b): concreta cooperazione con le forze dell’ordine e le altre autorità competenti per l’adozione di misure atte a prevenire i fatti violenti o discriminatori e per identificare i propri sostenitori responsabili delle violazioni; lettera e): insussistenza di omessa o insufficiente prevenzione da parte della società». Orbene, a tal riguardo la Procura federale «riconosce quanto dedotto dalla società in merito alla non possibilità di perquisizione dei sostenitori all’ingresso dell’impianto sportivo da parte del personale addetto alla sicurezza, così come la sostanziale impossibilità in tale frangente di rinvenire indosso agli stessi gli stikers di ridotte dimensioni»; ritiene, altresì, costituisca «dato acquisito agli atti del procedimento quello relativo alla intervenuta identificazione da parte delle Forze dell’Ordine dell’esiguo numero di sostenitori autori dell’introduzione nell’impianto e dell’affissione degli stessi stikers e la successiva denuncia alla Autorità Giudiziaria Ordinaria». Non ritiene, invece, integrata la lett. a) della disposizione di cui trattasi, poiché la società deferita «non ha prodotto in giudizio alcun modello di organizzazione e di gestione idonea a prevenire comportamenti della specie di quelli verificati, con impiego di risorse finanziarie e umane adeguate allo scopo».

Con un terzo motivo di gravame la Procura federale denuncia, «in ogni caso, inadeguatezza ed inefficacia della sanzione di euro 50.000,00 inflitta con la pronuncia» del TFN, ritenendo non corretta la «valutazione del comportamento oggetto di contestazione sia in via autonoma che in relazione alle precedenti manifestazioni di discriminazione razziale poste in essere dalla stessa società».

In tale prospettiva, richiamata la qualificazione in termini di assoluta gravità dell’episodio operata dallo stesso Giudice di prime cure, la Procura federale ritiene del tutto inadeguata la sanzione inflitta, «anche soltanto per il livello di percezione e diffusione nell’opinione pubblica, nonché per il “vulnus” che l’episodio ha inflitto all’immagine della manifestazione sportiva di maggiore rilevanza nazionale della disciplina sportiva più seguita e praticata in Italia».

Sotto siffatto profilo, in particolare, la Procura federale ritiene che il TFN non abbia tenuto conto che il comportamento oggetto di contestazione nel presente procedimento, posto in essere in occasione della gara del 22 ottobre 2017, «era il terzo del medesimo genere del quale la tifoseria della SS Lazio si era resa protagonista nel corso dell’ultimo anno». In tal ottica la Procura federale sottolinea come, appunto, in precedenza, il Giudice sportivo della Lega Nazionale Professionisti serie A avesse già inflitto alla società biancoceleste, in occasione della gara del 30 aprile 2017 giocata con la Roma, la sanzione della disputa di una gara con il settore denominato curva nord privo di spettatori, a causa di cori di discriminazione razziale ripetuti all’indirizzo del calciatore della Roma Rudiger, nonché, in occasione della gara disputata in data 1 ottobre 2017 con il Sassuolo, la sanzione della disputa di una gara con il settore denominato curva nord privo di spettatori, sempre a causa di cori ed espressioni di discriminazione razziale, durati alcuni secondi, nei confronti dei calciatori Adjapang Cloud e  Duncon Alfred.

In conclusione, la Procura federale chiede che l’adita Corte federale di appello:

«1. Voglia affermare la responsabilità SS Lazio spa per le violazioni alla stessa ascritte con l’atto di deferimento con la qualificazione giuridica nella stessa formulata e, per l’effetto, comminare alla stessa la sanzione dell’ammenda di euro 50.000,00 (cinquantamila/00) oltre all’obbligo di disputare 2 (due) gare a porte chiuse.

2. In subordine, voglia affermare la responsabilità SS Lazio spa per le violazioni alla stessa ascritte con l’atto di deferimento con la qualificazione giuridica nello stesso formulata e, per l’effetto, comminare alla stessa la sanzione dell’ammenda di euro 50.000,00 (cinquantamila/00) oltre all’obbligo di disputare 1 (una) gara a porte chiuse o la diversa sanzione ritenuta di giustizia da codesta onorevole Corte».

La difesa

La SS Lazio spa resiste all’impugnazione per chiedere la conferma della decisione del Tribunale federale nazionale.

Ritiene la società deferita che la «misurazione del peso di illiceità o gravità delle violazioni previste dagli artt. 11 e 12 del Codice non trova riscontro nelle norme» di cui all’articolo 11, comma 3 (introduzione o esibizione negli impianti sportivi da parte dei tifosi di disegni, scritte, simboli ed emblemi recanti espressioni di discriminazione) ed all’art. 12 (introduzione o utilizzazione negli impianti sportivi di materiale pirotecnico, …… disegni, scritte, simboli, emblemi o simili recanti espressioni oscene, oltraggiose, minacciose o incitanti alla violenza …… oltre ai cori, grida ed ogni altra manifestazione oscena, oltraggiosa, minacciosa o incitante alla violenza o che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di origine territoriale).

In tale direzione, l’oggetto comune delle due norme sarebbe rappresentato dal comportamento discriminatorio realizzato con gli stessi mezzi (disegni, scritte, simboli, ecc.), ma nel caso dell’art. 11, la sanzione colpirebbe i cori e le altre manifestazioni che siano, per dimensione e percezione reale del fenomeno, espressione di discriminazione. «Il contenuto discriminatorio del comportamento dei tifosi», si legge nella difesa della SS Lazio spa, «del materiale introdotto, degli scritti o altri emblemi, è sanzionato in entrambe le norme, e mira a tutelare la dignità dell’individuo, l’eguaglianza di tutti senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, come previsto dall’art. 3 della Costituzione.

Affermare, quindi, che la discriminazione dell’art. 11 sia diversa da quella dell’art. 12, ammesso che lo sia, vorrebbe dire creare una graduatoria delle discriminazioni che la Costituzione non ammette, sostituendo ai principi fondamentali dello Stato una distinzione tra quelli riconosciuti dall’ordinamento sportivo e quelli che, invece non sono riconosciuti o lo sono di meno».

In altri termini, ritiene, la SS Lazio spa, che alla luce di siffatti principi appaia «evidente che la distinzione dell’appellante opera tra la discriminazione dell’art. 11 e quella dell’art. 12 CGS, per giungere alla conclusione che la prima sarebbe tanto grave da non meritare le attenuanti o esimenti previste dall’art. 13 del Codice sportivo, non ha ragion di esistere, non trova fondamento giuridico valido, e si rivela contraria all’interpretazione costituzionale che il Giudice deve osservare».

Peraltro, evidenzia la deferita SS Lazio spa, «per valutare la punibilità dei comportamenti discriminatori, va considerata la visibilità dell'offesa e la quantità dei soggetti che la propalano: nella specie l'offesa non è stata vista da nessuno, se non il giorno dopo la partita, in sede di ispezione nell'impianto sportivo da parte della Digos».

Aggiunge, ancora, la difesa laziale che l'art. 11, comma 3, CGS punisce l'esibizione negli impianti sportivi di simboli discriminatori, ma soltanto laddove gli stessi siano esposti nel corso della partita e siano percepibili e visibili dal pubblico; nel caso di specie, invece, ci si troverebbe di fronte «a delle piccole figurine, dal formato di un francobollo mai esposte durante l'incontro, gettate in terra al termine della partita, mai viste da nessuno rinvenute solo il giorno successivo da parte della PS».

Evidenzia, inoltre, la SS Lazio spa che legittimamente trova applicazione nel caso di specie l'art. 13 CGS il quale si riferisce, alla lett. b), «all'adozione della società di misure atte a prevenire i fatti discriminatori, senza distinguere tra quelli puniti dall'art. 11 da quelli puniti all'art.12».

Insiste sul fatto che non c'è prova che le figurine siano state affisse allo stadio prima della partita e che essendo oggetti di ridottissime dimensioni «sono sfuggiti a tutti i controlli operati sia dalla P.S. che dal personale della Lazio».

Circoscrive l'imputabilità dell'azione alla «stupidità» di 15 «soggetti individuati» senza che ci sia

alcun nesso tra le figurine offensive e i calciatori avversari del Cagliari ma, anzi, sottolinea come la finalità delle stesse sembri essere stata proprio quella di «creare discredito sugli stessi tifosi laziali e sulla società».

Quanto al secondo motivo di gravame (mancata dimostrazione del sistema di organizzazione e gestione adottato) la SS Lazio spa fa notare che «lo stesso rappresentante della Procura presente sul campo non ha segnalato nulla di rilievo sotto il profilo disciplinare», oltre al fatto che è stato prodotto il verbale del GOS e che si era già riferito della presenza di oltre duecento steward, così come disposto dall'autorità di pubblica sicurezza. Ad ogni buon conto, la società appellata dimette documentazione atta a dimostrare l'adozione di un modello di organizzazione idoneo a prevenire comportamenti della specie di quelli verificatisi. Documentazione, questa, atta a dimostrare, sempre a dire della società deferita, anche il requisito di cui alla lett. b) della norma richiamata, e, cioè, la concreta cooperazione con le forze dell'ordine.

Ritenendo, dunque, che sussistano le tre circostanze che escludono la responsabilità della SS Lazio spa, la difesa biancoceleste conclude per il rigetto dell'impugnazione, con correlata conferma della decisione impugnata.

La decisione della CFA

All’udienza fissata, per il giorno 22 marzo 2018, innanzi questa Corte federale di appello sono comparsi i dott.ri Melaragni e Mormado, per la Procura federale, nonché l’avv. Gian Michele Gentile per la SS Lazio spa.

Dopo l’ampia ed approfondita discussione, sulle conclusioni delle parti, la Corte si è ritirata in camera di consiglio, all’esito della quale ha assunto la decisione di cui al dispositivo, sulla base dei seguenti

MOTIVI Pacificamente acclarati i fatti oggetto del deferimento.

A causa di manifestazioni di discriminazione razziale (cori cosiddetti razzisti) verificatisi in occasione di precedenti gare disputate dalla SS Lazio spa, la giustizia sportiva aveva disposto la chiusura della curva nord dello stadio olimpico per la gara, per quanto qui interessa, Lazio c/ Cagliari in programma per il giorno 22 ottobre 2017. La predetta società aveva consentito ai propri sostenitori in possesso di titolo di abbonamento per l'accesso al settore curva sud (storicamente cuore del tifo romanista) di poter acquistare, seppur a prezzo simbolico, tagliandi di ingresso per il predetto settore per assistere alla gara in questione.

Nel corso della predetta gara, giocata il 22 ottobre, nulla di rilievo, ai fini disciplinari oggetto del presente procedimento, è stato segnalato (quantomeno, da quanto emerge dagli atti del processo) dalle autorità, sia sportive che di pubblica sicurezza, competenti in materia, nel comportamento dei tifosi biancocelesti.

Il giorno successivo (23 ottobre) il personale di polizia addetto ai servizi di ordine e sicurezza pubblica all'interno dello stadio effettuava un sopralluogo nel corso del quale rinveniva, all'interno, appunto, del settore curva sud-est, numerosi adesivi con l'effige della bambina ebrea Anna Frank (divenuta, come noto, simbolo della shoah per il suo famoso diario scritto nel periodo in cui, unitamente alla propria famiglia, si nascondeva dai nazisti e per la sua successiva tragica morte nel campo di concentramento di Bergen-Belsen) con indosso una maglietta della AS Roma. Chiaro (e disdicevole) l'intento dispregiativo nei confronti della tifoseria romanista e il valore simbolico, di evidente natura antisemita, dei predetti adesivi, di portata anche offensiva. Peraltro, l'episodio aveva ampio risalto nei media, suscitando sentimenti di sdegno nell'opinione pubblica e provocando vibranti proteste da parte della Comunità ebraica.

Occorre, per completezza descrittiva del fatto, annotare come i suddetti adesivi (8 cm x 6.5 cm) siano stati rinvenuti essenzialmente e per lo più in corrispondenza delle rampe di accesso al settore di cui trattasi ed in ambienti adiacenti alle stesse.

Ciò premesso in fatto, occorre considerare, sotto il profilo concettuale, che deve considerarsi comportamento discriminatorio ogni condotta che si caratterizzi per la sua natura offensiva o denigratoria che si basi su motivi di razza, colore, religione, origine territoriale o etnica. In diverse parole, la condotta giuridicamente antidoverosa deve essere identificata nella pubblica espressione, con qualsiasi mezzo (frasi, scritti, figurazioni, gesti, ecc.) di dileggio, ingiuria o disprezzo verso l’altrui origine territoriale, razziale, etnica o verso la diversa fede religiosa.  Non vi è dubbio, infatti, che il valore della dignità deve trovare tutela tanto nella dimensione privata, quanto in un contesto di relazione.

La disciplina normativa dettata a tal riguardo trova la propria ragion d'essere nell’inviolabilità di taluni principi generali, come quelli della libertà personale, della libertà di essere e della libertà di manifestarsi, posti a presidio di ogni ordinamento democratico e civile.

L’oggetto della tutela di cui trattasi, in altri termini, può essere rinvenuta nel perseguimento dell'obiettivo di garantire la dignità di ogni persona e di ogni gruppo sociale e del correlato diritto ad essere considerati per ciò che si è, a prescindere dal credo religioso, dalla razza, dall'etnia, dall'origine territoriale.

Questa Corte, dunque, non nutre dubbio alcuno che nel caso di specie ci si trovi di fronte ad un grave episodio di chiaro intento razzista. Sotto tale profilo, peraltro, l'antigiuridicità dello stesso non verrebbe di certo meno neppure laddove la manifestazione obiettivamente vilipendiosa fosse stata finalizzata a suscitare il mero riso delle persone in occasione di un evento sportivo. Del resto, nel caso di specie, ci si trova innanzi ad un comportamento discriminatorio che si connota, comunque, in sé per la sua manifestazione dispregiativa degli altrui valori etico-spirituali e dell’altrui appartenenza etnica.

Premesso quanto sopra sul piano dogmatico, ritiene opportuno, questa Corte, ancora in via preliminare, ricostruire il quadro di riferimento normativo applicabile alla fattispecie, anche al fine di procedere ad una interpretazione letterale delle disposizioni in materia, congiuntamente ad un complessivo esame logico-sistematico delle stesse.

 Recita l'art. 2, comma 5, dello statuto FIGC: «La FIGC promuove l’esclusione dal giuoco del calcio di ogni forma di discriminazione sociale, di razzismo, di xenofobia e di violenza».

Il codice di giustizia sportiva prevede, all'art. 4, comma 3, la responsabilità delle società per l'operato degli addetti ai servizi e dei sostenitori. In particolare, così testualmente dispone la predetta norma: «Le società rispondono oggettivamente anche dell'operato e del comportamento delle persone comunque addette a servizi della società e dei propri sostenitori, sia sul proprio campo, intendendosi per tale anche l'eventuale campo neutro, sia su quello delle società ospitanti, fatti salvi i doveri di queste ultime».

L'art. 11, comma 1, CGS, così dispone: «Costituisce comportamento discriminatorio, sanzionabile quale illecito disciplinare, ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine etnica, ovvero configuri propaganda ideologica vietata dalla legge o comunque inneggiante a comportamenti discriminatori».

Il successivo comma 3, della predetta norma, così, invece, recita: «Le società sono responsabili per l’introduzione o l’esibizione negli impianti sportivi da parte dei propri sostenitori di disegni, scritte, simboli, emblemi o simili, recanti espressioni di discriminazione. Esse sono altresì responsabili per cori, grida e ogni altra manifestazione che siano, per dimensione e percezione reale del fenomeno, espressione di discriminazione. In caso di prima violazione, si applica la sanzione minima di cui all’art. 18, comma 1 lett. e). Qualora alla prima violazione, si verifichino fatti particolarmente gravi e rilevanti, possono essere inflitte anche congiuntamente e disgiuntamente tra loro la sanzione della perdita della gara e le sanzioni di cui all’art.18, comma 1, lettere d), f), g), i), m).

In caso di violazione successiva alla prima, oltre all’ammenda di almeno euro 50.000,00 per le società professionistiche e di almeno euro 1.000,00 per le società dilettantistiche, si applicano congiuntamente o disgiuntamente tra loro, tenuto conto delle concrete circostanze dei fatti e della gravità e rilevanza degli stessi, le sanzioni di cui all’art. 18, comma 1 lettere d), e), f), g), i), m) e della perdita della gara».

L’art. 12, comma 3, CGS dispone quanto segue: «Le società rispondono per la introduzione o utilizzazione negli impianti sportivi di materiale pirotecnico di qualsiasi genere, di strumenti ed oggetti comunque idonei a offendere, di disegni, scritte, simboli, emblemi o simili, recanti espressioni oscene, oltraggiose, minacciose o incitanti alla violenza. Esse sono altresì responsabili per cori, grida e ogni altra manifestazione oscena, oltraggiosa, minacciosa o incitante alla violenza o che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di origine territoriale».

L'art. 13 CGS così recita: «La società non risponde per i comportamenti tenuti dai propri sostenitori in violazione dell’articolo 12 se ricorrono congiuntamente tre delle seguenti circostanze:

a) la società ha adottato ed efficacemente attuato, prima del fatto, modelli di organizzazione e di gestione della società idonei a prevenire comportamenti della specie di quelli verificatisi, avendo impiegato risorse finanziarie ed umane adeguate allo scopo;

b) la società ha concretamente cooperato con le forze dell’ordine e le altre autorità competenti per l’adozione di misure atte a prevenire i fatti violenti o discriminatori e per identificare i propri sostenitori responsabili delle violazioni;

c) al momento del fatto, la società ha immediatamente agito per rimuovere disegni, scritte, simboli, emblemi o simili, o per far cessare i cori e le altre manifestazioni di violenza o di discriminazione;

d) altri sostenitori hanno chiaramente manifestato nel corso della gara stessa, con condotte espressive di correttezza sportiva, la propria dissociazione da tali comportamenti;

e) non vi è stata omessa o insufficiente prevenzione e vigilanza da parte della società.

2. La responsabilità della società per i comportamenti tenuti dai propri sostenitori in violazione dell’articolo 12 è attenuata se la società prova la sussistenza di alcune delle circostanze elencate nel precedente comma 1».

Quanto al profilo sanzionatorio la disciplina è dettata dall'art. 18 CGS:

 «1. Le società che si rendono responsabili della violazione dello Statuto, delle norme federali e di ogni altra disposizione loro applicabile sono punibili con una o più delle seguenti sanzioni, commisurate alla natura e alla gravità dei fatti commessi: a) ammonizione;   b) ammenda; c) ammenda con diffida; d) obbligo di disputare una o più gare a porte chiuse; e) obbligo di disputare una o più gare con uno o più settori privi di spettatori; f) squalifica del campo per una o più giornate di gara o a tempo determinato, fino a due anni; g) penalizzazione di uno o più punti in classifica; la penalizzazione sul punteggio, che si appalesi inefficace nella stagione sportiva in corso, può essere fatta scontare, in tutto o in parte, nella stagione sportiva seguente; h) retrocessione all'ultimo posto in classifica del campionato di competenza o di qualsiasi altra competizione agonistica obbligatoria; in base al principio della afflittività della sanzione, la retrocessione all’ultimo posto comporta sempre il passaggio alla categoria inferiore; i) esclusione dal campionato di competenza o da qualsiasi altra competizione agonistica obbligatoria, con assegnazione da parte del Consiglio federale ad uno dei campionati di categoria inferiore; l) non assegnazione o revoca dell'assegnazione del titolo di campione d'Italia o di vincente del campionato, del girone di competenza o di competizione ufficiale; m) non ammissione o esclusione dalla partecipazione a determinate manifestazioni; n) divieto di tesseramento di calciatori fino a un massimo di due periodi di trasferimento.

2. Alle società può inoltre essere inflitta la punizione sportiva della perdita della gara nelle ipotesi previste dall'art. 17 del presente Codice».

Da ultimo, l'art. 2 bis NOIF così prevede: «E’ vietato introdurre e/o utilizzare negli stadi e negli impianti sportivi materiale pirotecnico di qualsiasi genere, strumenti ed oggetti comunque idonei ad offendere, disegni, scritte, simboli, emblemi o simili, recanti espressioni oscene, oltraggiose, minacciose, incitanti alla violenza o discriminatorie per motivi di razza, di colore, di religione, di lingua, di sesso, di nazionalità, di origine territoriale o etnica, ovvero configuranti propaganda ideologica vietata dalla legge o comunque inneggiante a comportamenti discriminatori».

Da una complessiva lettura delle disposizioni sopra richiamate traspare la volontà, dell’ordinamento federale, di contrastare e punire tutti i comportamenti discriminatori, di ogni genere e tipologia, volti a negare il diritto di ciascuno ad essere riconosciuto quale persona libera ed eguale, anche in attuazione del principio del mutuo rispetto, posto a base di ogni convivenza civile e democratica. La condotta discriminatoria, del resto, si sostanzia in ogni forma di discriminazione dei diritti fondamentali della persona, che non può non provocare una dura reazione da parte non solo dell'ordinamento giuridico generale, ma anche da parte di quello sportivo, anche alla luce degli inequivoci principi posti dalla nostra Costituzione in materia.

In breve, le condotte di tale natura costituiscono, sotto il profilo disciplinare-sportivo qui in rilievo, un vero e proprio  comportamento illecito ed a tal fine sono severamente punite tanto se poste in essere da calciatori, dirigenti o tesserati, quanto se realizzate dai tifosi di una società, segnatamente, con specifico riferimento alla fattispecie qui oggetto di disamina, mediante l’introduzione o l’esibizione negli impianti sportivi di disegni, scritte, simboli, emblemi recanti espressioni di discriminazione, così come anche per i cori e ogni altra manifestazione volta a rappresentare discriminazione.

In tale prospettiva, la nozione di comportamento discriminatorio elaborata dal legislatore federale risulta anche coerente ed in sintonia con quella adottata dagli organismi e dalle istituzioni internazionali.

Il nostro Paese, ad esempio, ha recepito la convenzione internazionale in tema di eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (Convenzione di New York del 1966), mentre, in ambito europeo, la CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, 1950) statuisce, all'art. 14: «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione». Analogo il contenuto dell'art. 21 della Carta dei diritti fondamentali della Unione europea (proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000).

La stessa Dichiarazione Universale dei diritti umani (Parigi, 10 dicembre 1948) prevede l’obbligo di rispettare ogni persona indipendentemente dalla sua appartenenza etnica, religiosa, linguistica, ecc., mentre la direttiva 2000/43/CE, vieta i «comportamenti indesiderati adottati per motivi di razza o di origine etnica e aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo».

Quanto allo specifico contesto normativo sportivo internazionale, la Carta olimpica, ad esempio, sancisce, all’art. 3, l’incompatibilità con l’appartenenza al movimento olimpionico di ogni forma di discriminazione, verso un Paese o verso un individuo, basata su ragioni di natura razziale, politica, sessuale, religiosa o altro. Segno evidente dell’esigenza sottesa alla necessaria protezione del sentimento religioso e dell’appartenenza a una diversa etnia o ad un differente territorio.

La disciplina UEFA ha tra i suoi obiettivi quello della promozione del giuoco del calcio in uno spirito di pace, comprensione, fair play, senza alcuna discriminazione in materia politica, di genere, di religione, di razza o di ogni altra ragione. In particolare, la UEFA definisce discriminazione l’insulto alla dignità umana della persona o del gruppo, effettuato, con qualsiasi mezzo, per ragioni riferibili alla razza, al colore della pelle, alla religione, alle origini etniche o per ogni altra ragione.

Nella medesima direzione si muove la definizione FIFA in materia, secondo cui, appunto, discriminazione è l’offesa alla dignità di una persona o di un gruppo di persone attraverso parole, gesti, azioni di disprezzo, discriminatorie o denigratorie nei confronti della razza, del colore, della lingua, della religione e delle origini.

Anche il CONI, infine, codifica il principio di non discriminazione, laddove impone a tutti i soggetti dell’ordinamento sportivo l’obbligo di astenersi da qualsiasi comportamento discriminatorio in relazione alla razza, all’origine etnica o territoriale, all’età, al sesso, alla religione, alle opinioni personali, anche politiche.

In tale contesto, dunque, anche nell'ambito dell'ordinamento sportivo vi è l'esigenza di dare adeguata tutela alla dignità ed alla libertà di tutti e di ciascuno a prescindere dalla religione, dall’appartenenza etnica e territoriale, dal colore della pelle. Sotto tale profilo, in modo del tutto legittimo e condivisibile l'ordinamento federale persegue e sanziona ogni manifestazione e ogni condotta discriminatoria, trasponendo al suo interno le regole dettate dall’ordinamento giuridico generale per la generalità dei consociati e volte, anche in ossequio alle previsioni costituzionali, ad assicurare a tutti il libero esercizio dei propri diritti e, di conseguenza, ad impedire e reprimere comportamenti che siano in contrasto con l’essenza stessa dei prerequisiti di libertà ed eguaglianza propri di ogni ordinamento democratico.

Posta, affermata e ribadita la inaccettabilità di ogni tipo di discriminazione, accertato che la condotta correttamente contestata dalla Procura federale realizza una chiara ipotesi di comportamento discriminatorio previsto e punito, per quanto qui rileva, dall'ordinamento sportivo, occorre verificare, sul piano degli effetti, se e in che termini e misura detta condotta di alcuni sostenitori biancocelesti sia imputabile alla responsabilità della SS Lazio spa.

A tal riguardo, questa Corte condivide, nella sostanza, il ragionamento operato dal Tribunale federale nazionale. Infatti, la condotta oggetto del deferimento appare sussumibile nella fattispecie di cui all'art. 11, comma 3, CGS, che chiama le società a rispondere per l'introduzione o l'esibizione nell'impianto sportivo, da parte dei propri sostenitori, tra l'altro, di disegni e simboli espressione di discriminazione. Condotta, questa, punita a titolo di responsabilità oggettiva nel caso di prima violazione con la sanzione minima dell'obbligo di disputare una o più gare con uno o più settori privi di spettatori (ma, per fatti particolarmente gravi e rilevanti, le sanzioni sono inasprite), mentre, per le violazioni successive alla prima, oltre all'ammenda stabilita nel minimo edittale pari ad euro 50.000 (per le società professionistiche), anche tenuto conto delle concrete circostanze dei fatti e della gravità e rilevanza degli stessi, con le sanzioni  della perdita della gara e quelle di cui all’art. 18, comma 1 lettere d), e), f), g), i), m), ossia: obbligo di disputare una o più gare a porte chiuse; obbligo di disputare una o più gare con uno o più settori privi di spettatori; squalifica del campo per una o più giornate di gara o a tempo determinato, fino a due anni; penalizzazione di uno o più punti in classifica; esclusione dal campionato di competenza o da qualsiasi altra competizione agonistica obbligatoria, con assegnazione da parte del Consiglio federale ad uno dei campionati di categoria inferiore; non ammissione o esclusione dalla partecipazione a determinate manifestazioni.

Evidenti, pertanto, la responsabilità della società SS Lazio spa e la riconducibilità alla medesima dei comportamenti imputati ai sostenitori biancocelesti.

Non del tutto condivisibile, invece, la decisione del TFN in punto estensione, alle ipotesi di cui all’art. 11 CGS, delle esimenti previste dal successivo art. 13. «Se è vero che l’art. 13 CGS», si legge nella decisione del TFN, «fa riferimento, ai fini dell’esclusione della responsabilità, esclusivamente alle condotte tenute dai sostenitori delle Società poste in essere in violazione dell’art. 12 CGS (repressione di fatti violenti), il chiaro riferimento ad ipotesi espressamente previste nell’art. 11 CGS - vedasi l’art. 13 comma 1, lett. b) e c) CGS - fa propendere per l’applicazione delle esimenti anche agli illeciti di cui all’art. 11 CGS». In realtà, a ben vedere, è vero che l’art. 13 CGS fa riferimento anche a fatti e manifestazioni di discriminazione, ma, come correttamente rilevato dalla Procura federale, detto riferimento deve essere letto alla luce del comma 1 della stessa norma, che fa espresso ed esclusivo richiamo ai «comportamenti tenuti dai propri sostenitori in violazione dell’articolo 12». Se ne deve dedurre, pertanto, che quando nel corpo dell’art. 13 si richiamano le condotte connotate da atteggiamento discriminatorio, il legislatore federale intenda riferirsi alle ipotesi di discriminazione disciplinate nell’art. 12, ossia (solo) a quelle legate a «motivi di origine territoriale». Del resto, pur apprezzando la pregevole ricostruzione sistematica e le relative argomentazioni del TFN, il dato letterale contenuto in apertura dell’art. 13 CGS («La società non risponde per i comportamenti tenuti dai propri sostenitori in violazione dell’articolo 12 se …»), appare difficilmente superabile.

Né appare possibile, così come, ancora una volta correttamente osservato dall’appellante Procura federale, una interpretazione analogico-estensiva della disposizione di cui trattasi. In tal senso, non può, qui, che condividersi la giurisprudenza di legittimità in materia: «Il principio della non esigibilità di una condotta diversa – sia che lo si voglia ricollegare alla ratio della colpevolezza riferendolo ai casi in cui l'agente operi in condizioni soggettive tali da non potersi da lui "umanamente" pretendere un comportamento diverso, sia che lo si voglia ricollegare alla ratio dell'antigiuridicità riferendolo a situazioni in cui non sembri coerente ravvisare un dovere giuridico dell'agente di uniformare la condotta al precetto penale – non  può trovare collocazione e spazio al di fuori delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate, in quanto le condizioni e i limiti di applicazione delle norme penali sono posti dalle norme stesse senza che sia consentito al giudice di ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l' "analogia juris"» (cfr. Cassazione pen., sez. III, 11 marzo 2008, n. 14747; Cassazione pen., sez. VI, 2 aprile 1993, n. 973).

Pertanto, ritiene, in definitiva, questa Corte, che l’art. 13 CGS ed il relativo corredo di esimenti non sia tout court ed astrattamente applicabile alle fattispecie di discriminazione di cui all’art. 11 CGS («… ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine etnica …»). Sul punto, dunque, in questi termini deve intendersi precisata e, in parte, corretta la motivazione del Tribunale federale nazionale.

Ciò chiarito, questo Collegio ritiene corretta la qualificazione giuridica, in termini di responsabilità aggravata, della fattispecie prevista dall’art. 11, comma 3, CGS. Del resto, come correttamente osservato dal TFN, la qualificazione della predetta fattispecie quale ipotesi di responsabilità oggettiva in senso stretto mal si concilierebbe con la previsione generale di cui all’art. 4, comma 3, CGS e rischierebbe di tradursi in una sostanziale duplicazione (priva di ratio e logica) della medesima. Ad ogni buon conto, anche in disparte la qualificazione della fattispecie astratta, non nutre dubbi, questa Corte, che nel caso concreto dedotto in giudizio si versi in ipotesi di c.d. responsabilità aggravata.

Come noto, nelle fattispecie di responsabilità oggettiva l’interesse protetto è già predeterminato dal legislatore (sportivo), non dovendo essere lo stesso ricercato all’interno della categoria del danno ingiusto. Del danno (prefigurato) risponde (per l’ordinamento sportivo) un soggetto diverso dall’autore dell’illecito (responsabilità per fatto altrui), ovvero colui che riveste una data qualità o esercita un certo mestiere o attività, a prescindere dalla sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa. E ciò in forza e conseguenza del principio cuius commoda eius et incommoda.

Altrettanto noto che da tale responsabilità non ci si libera (responsabilità oggettiva propria od in senso stretto), ovvero, in casi particolari, ci si può liberare dando la prova della sussistenza dell’elemento di volta in volta assunto dall’ordinamento a causa (i.e. ragione) dell’esonero (responsabilità c.d. semi-oggettiva o aggravata). In quest’ultima fattispecie vi è una presunzione di colpa, essendo sufficiente, ai fini della dichiarazione di responsabilità, accertare il nesso di causalità tra l’attività esercitata (o la qualità rivestita) dal soggetto indicato quale responsabile oggettivo ed il fatto, ossia che questo costituisca l’antecedente necessario dell’evento disciplinato (e vietato) dall’ordinamento. Salva fatta, però, la possibilità che la funzione dell’antecedente sia “annullata” – sotto il profilo eziologico – dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo ad interrompere il nesso di causalità o ad escludere la responsabilità. In altri termini, in tali ipotesi l’ordinamento giuridico consente di liberarsi dalla responsabilità provando un dato fatto idoneo ad escludere un determinato effetto, nel senso che, nella fattispecie di responsabilità (c.d. aggravata) qui in esame, l’ordinamento considera quel predetto determinato fatto come presuntivamente non esistente: di conseguenza, il verificarsi dello stesso viene giuridicamente ad incidere in ordine alla produzione dell’effetto.

Orbene, questa Corte ritiene che i fatti di cui trattasi vadano ricondotti ad episodi di discriminazione per i quali in capo alla società SS Lazio spa deve riconoscersi una responsabilità oggettiva ai sensi dell'art. 11, comma 3, CGS, nella particolare qualificazione, come detto, di responsabilità aggravata, la quale, pur prevedendo la presunzione di colpa della predetta società, connessa agli obblighi di vigilanza, controllo e diligenza che spettano alla stessa, consente la c.d. “prova liberatoria” sulla base della non prevedibilità dell'evento dannoso verificatosi e dell'adempimento dei predetti obblighi.

Occorre, infatti, avere riguardo al singolo specifico caso di specie di cui qui ci occupiamo, nel quale la “manifestazione” della discriminazione è, indubbiamente, del tutto particolare.

Sotto questo profilo, non può trascurarsi di considerare che la stessa norma di cui all’art. 11, comma 3, CGS si riferisce espressamente all' «introduzione» o «esibizione» negli impianti sportivi di simboli discriminatori di vario tipo che siano, quindi, visibili dal pubblico ed esposti durante la manifestazione sportiva. In altri termini, la ratio dell'art. 11, comma 3, CGS sembra essere quella della platealità e visibilità della manifestazione di discriminazione. Nel caso di specie, invece, ci troviamo di fronte ad una manifestazione connotata dalla ridotta dimensione e dall’esiguo numero degli emblemi e dalla esposizione degli stessi prevalentemente "interna" o semi nascosta (tanto che non risulta che nessuno se ne sia accorto durante la partita, ma solo dopo e l'effetto mediatico è derivato piuttosto dalla diffusione delle notizie del ritrovamento – il giorno dopo – delle immagini di cui trattasi).

Insomma, nella particolare fattispecie qui in esame, come detto, la “condizione” di “visibilità” della manifestazione di discriminazione appare insussistente o, comunque, fortemente contenuta, sia, lo si ribadisce, per le ridottissime dimensioni delle immagini di cui trattasi, sia perché le stesse sono state rinvenute solo il giorno successivo alla gara. In altri termini, la “visibilità” dell’offesa (nell’accezione codificata dalle disposizioni federali) è quasi inesistente (e sarebbe, forse, stata sostanzialmente nulla se non fosse stato per il risalto mediatico) e, di conseguenza, sotto il profilo dell’intento discriminatorio, l'azione perde gran parte della propria rilevanza e, comunque, intensità lesiva.

Ma, soprattutto, non si può non tenere in debita (e decisiva) considerazione che nel caso di specie l’atteggiamento di discriminazione non è riferibile a “cori” o striscioni od altra eclatante manifestazione in ordine alla quale poteva pretendersi un comportamento attivo da parte della società, bensì, come detto, ad immagini di ridotte dimensioni, impossibili da “intercettare” all’ingresso nello stadio ed esposte nelle modalità già ricordate.

 Orbene, ciò premesso in fatto ed in ordine alla enucleazione dello specifico caso di specie rispetto alla fattispecie generale astratta codificata per le ipotesi (purtroppo) di maggiore frequenza statistica di manifestazioni di discriminazione di cui all’art. 11 CGS, occorre ricordare come la predetta forma di responsabilità, che trova fondamento in alcune ipotesi tipizzate disciplinate dal codice civile in riferimento all'illecito extracontrattuale, comporti, un'inversione dell'onere della prova, che «non fa peraltro venire meno la rilevanza del requisito della colpa, che concorre - seppure in via presuntiva - a costituire l'illecito, come reso palese dalla stessa possibilità di provarne la mancanza» (cfr. Corte di Cassazione, sent. n. 3651 del 2006). Sottolinea, infatti, a tal proposito, la Suprema Corte, come la responsabilità aggravata debba considerarsi distinta da quella oggettiva precisando come, solo in riferimento alla prima è ammessa dimostrazione «di avere mantenuto una condotta caratterizzata da assenza di colpa», facendo venir così meno l'addebitabilità della responsabilità. Pertanto, il custode, dimostrando di aver adottato «tutte le misure idonee a prevenire ed impedire la produzione di danni a terzi, con lo sforzo diligente adeguato alla natura della cosa e alle circostanze del caso concreto» è esonerato da responsabilità, avendo fornito la cd. prova liberatoria.

Differentemente, quindi, dall'ipotesi di imputazione oggettiva, nel caso di responsabilità aggravata è data al responsabile la possibilità di liberarsi dalla colpevolezza presuntivamente posta a suo carico. Più nel dettaglio, nel caso di specie, ritiene, questa Corte, che la prova liberatoria possa essere modellata sulla base sostanziale dello schema generale descritto nella previsione di cui all’art. 13 CGS e nel rispetto, quindi, di almeno tre delle condizioni ivi previste, la cui congiunta presenza esonererebbe, dunque, ad avviso di questa Corte, la società SS Lazio spa da responsabilità.

Disposizione, questa, lo si ribadisce, che deve ritenersi applicabile al caso di specie, non già per l’effetto di una (come detto) inammissibile ed automatica estensione analogica, bensì in forza di un riferimento diretto dell'esimente ad un caso non espressamente e testualmente previsto.

In tale prospettiva, peraltro, è possibile anche osservare che, pur riferendosi espressamente – la predetta disposizione normativa – alle sole infrazioni di quanto vietato dall'art. 12 CGS ossia, in generale, agli atti connotati da elementi di violenza (come l'introduzione negli impianti sportivi di materiali e oggetti di qualsiasi tipo idonei a offendere, di scritte, immagini, cori o altro tipo di manifestazioni minacciose o incitanti alla violenza anche in riferimento all'origine territoriale), la medesima esimente deve ritenersi direttamente (e non analogicamente) applicabile anche alla presente specifica fattispecie. Sembra, infatti, che il legislatore federale, prevedendo e vietando sic et simpliciter i comportamenti discriminatori, senza nulla precisare in riferimento al criterio concreto sulla base del quale riconoscere la responsabilità della società, abbia lasciato all'interprete ed al giudice sportivo il compito di definire il contenuto della disposizione in relazione agli specifici episodi oggetto di disamina, al fine di definirne la concreta portata lesiva e i criteri di attribuzione della responsabilità, confrontando le misure attivate dalla società con l'obiettivo di tutela raggiunto.

Sotto altro aspetto, deve, del resto, considerarsi che per razzismo deve intendersi tutto quel complesso di manifestazioni o atteggiamenti d’intolleranza originati da profondi e radicati pregiudizi sociali ed espressi attraverso forme di disprezzo e di emarginazione nei confronti di individui o gruppi appartenenti a Comunità etniche e culturali ritenute diverse e/o inferiori. Il razzismo, insomma, si traduce, in definitiva, e sul piano della natura e degli effetti giuridici, in un comportamento che, per il suo connotato fattuale infarcito di vessazioni, sopraffazioni e prevaricazioni, è sovrapponibile, sotto il profilo del suo contenuto ideologico, al comportamento violento. Del resto, colui che, nel contesto di una manifestazione sportiva disprezza un giocatore di colore o schernisce, con qualsiasi modalità, manifestazione o espressione, gruppi etnici o religiosi differenti dal proprio, altro non fa che porre in essere una delle condotte con cui il decreto legge 20 agosto 2001, n. 336, convertito, con modificazioni, in legge 19 ottobre 2001, n. 377 (Disposizioni urgenti per contrastare i fenomeni di violenza in occasione di manifestazioni sportive) ha inteso punire l'incitamento, l'inneggiamento e l'induzione alla violenza, anche in sintonia con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (cfr., sul punto, Cassazione pen., n. 1872 del 2007).

Sempre in tale prospettiva, deve, ancora, annotarsi come anche in una più recente pronuncia in tema di razzismo durante una partita di calcio, e con la sua particolare declinazione nella forma dell'antisemitismo, la Suprema Corte abbia affermato che «il "saluto romano" non è espressione della possibilità di manifestare liberamente il proprio pensiero, ma è un gesto che istiga all'odio razziale, cioè che sconfina nell'istigazione alla violenza, e - quindi - come tale va punito ex art. 2 legge 205/93», trattandosi di un'azione «inequivocabilmente diretta a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale od etnico» (cfr. Cassazione pen., n. 20450 del 2016).

D'altra parte, tanto lo specifico fatto - manifestazione di discriminazione addebitato (ex art. 11 CGS) alla società deferita nel presente procedimento, quanto le condotte previste e punite dalla disposizione in tema di comportamenti connotati da violenza (ex art. 12 CGS), sono riferibili alla esigenza di garantire la tutela dell'ordine pubblico in occasione delle gare, e, quindi, in entrambe le fattispecie deve ritenersi che il positivo adempimento degli obblighi di vigilanza e controllo da parte della società, al fine di impedire il verificarsi dell'evento dannoso, esoneri la società dalla responsabilità, senza che possa essere previsto un generico (oggettivo) criterio di imputazione.

Il fatto che l'art. 62 delle Norme organizzative interne federali della FIGC accomuni, ai commi 2 bis e 3, le disposizioni relative al divieto di introdurre negli stadi oggetti offensivi e/o discriminatori, nonché l'obbligo di rimuoverli prima dell'inizio della gara, conferma come la fattispecie astratta prevista dall’art. 12 CGS e quella concreta oggetto del presente giudizio non possano essere trattate differentemente in ordine, quantomeno, all'individuazione del criterio della responsabilità. In entrambi i casi si tratta di violazione di obblighi di controllo in senso lato e deve essere ammessa esclusione della responsabilità della società qualora la stessa fornisca idonea prova liberatoria, sulla base delle previsioni concretamente poste dal più volte ricordato art. 13 CGS, direttamente, per le ragioni già rappresentate, applicabile al caso di specie o comunque da prendersi quale base di riferimento per la individuazione delle concrete circostanze esimenti da valutare sia ai fini della prova liberatoria, sia ai fini della graduazione della eventuale sanzione.

Ciò premesso, occorre allora, in fatto, valutare se sussista o meno, nel caso di specie, alcuna delle circostanze esimenti di cui si è detto.

Si ricorda che le condotte adottate dalla società deferita, di rilievo ai fini del presente procedimento, in presenza delle quali verrebbe meno l'addebitabilità alla stessa della responsabilità dei fatti di cui trattasi sono le seguenti:

«-lettera a): adozione ed efficace attuazione da parte della società, prima del fatto, di modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire comportamenti della specie di quelli verificati, avendo impiegato risorse finanziarie e umane adeguate allo scopo;

-lettera b): concreta cooperazione con le forze dell’ordine e le altre autorità competenti per l’adozione di misure atte a prevenire i fatti violenti o discriminatori e per identificare i propri sostenitori responsabili delle violazioni;

-lettera e): insussistenza di omessa o insufficiente prevenzione da parte della società».

Pacifica la corretta adozione da parte della società biancoceleste delle condotte previste dalle lett. b) ed e), in quanto non contestate dalla stessa Procura federale che espressamente riconosce, quanto alla lett. b), il supporto della società nella identificazione dei soggetti autori del fatto offensivo e la denuncia alla Autorità Giudiziaria Ordinaria, e rileva, quanto alla lett. e), la materiale e concreta impossibilità di perquisire le persone all'ingresso dell'impianto sportivo, nonchè le ridottissime dimensioni delle immagini – connotate da intento discriminatorio – di cui trattasi, che potevano essere facilmente occultate, senza che nulla la società deferita potesse fare per impedirne l'introduzione.

In relazione, invece, alla condotta disciplinata dalla lett. a), la cui presenza è contestata dalla Procura, ritiene, questa Corte, che possa ritenersi esistente e provata anche la medesima, alla luce del complessivo materiale probatorio acquisito al procedimento. Del resto, nulla, in merito, hanno rilevato e, tantomeno contestato alla SS Lazio spa, le autorità sportive e di pubblica sicurezza preposte, riferendo, anzi, della presenza di oltre duecento steward.

Pertanto, accertata la presenza delle predette tre circostanze, applicata, dunque, l’esimente di cui all’art. 13 CGS in questione, ne consegue l'evidente esclusione della responsabilità della società SS Lazio spa in ordine alla violazione dell'art. 11, comma 3, CGS.

Residua, tuttavia, in capo alla stessa predetta società romana, la responsabilità oggettiva ai sensi dell'art. 4, comma 3, CGS per l'operato dei propri sostenitori, in ossequio al principio generale dell'ordinamento sportivo che, al fine di garantire le esigenze di giustizia e di assicurare la regolarità e il corretto svolgimento delle competizioni, adotta il criterio della responsabilità indiretta, addebitando, alle società, le conseguenze di "fatti illeciti altrui". Lo stesso principio vale anche in ragione della tutela dei valori etici di cui lo sport si fa portatore, con particolare riferimento, nel caso di specie, al contrasto di ogni tipo di discriminazione, come espressamente affermato dallo Statuto FICG, all’art. 2, comma 5, e, pertanto, risulta abbeditabile alla società il fatto offensivo dei propri sostenitori, pur in assenza di dolo o colpa della stessa.

La posizione della società nelle ipotesi in cui la stessa è chiamata a rispondere a titolo di responsabilità oggettiva, rimane del tutto estranea a quella dell’agente, che può addirittura non essere legato da un rapporto organico o di collaborazione con il sodalizio. In siffatte ipotesi nulla può essere “rimproverato” alla società, che, pur tuttavia, ne risponde a titolo oggettivo. Previsione, questa, che ha anche una chiara finalità di natura dissuasiva, volta ad evitare comportamenti dei tifosi di carattere violento o discriminatorio.

Per inciso ed al fine di evitare possibili letture strumentali della presente decisione questa Corte tiene, dunque, qui, ancora una volta, a ribadire, come già di recente osservato da questo medesimo Collegio in occasione della decisione relativa al processo nei confronti della società Juventus Spa + altri (C.U. n. 78/CFA del 22 gennaio 2018), «come il principio della responsabilità oggettiva costituisca un pilastro sul quale l’ordinamento federale poggia le proprie fondamenta. Come già da tempo, in modo consolidato, affermato dalla giustizia sportiva “la responsabilità oggettiva consegue in termini automatici e legali a quella materiale del responsabile fisico, e non può, quindi, in nessun caso, essere elusa, ma solo graduata e misurata nei suoi limiti quantitativi sanzionatori” (cfr., ex multis, Corte appello federale, C.U. n. 30/c del 18 giugno 1985).

Istituto, quello della responsabilità oggettiva, di natura senza dubbio eccezionale, laddove si consideri, che – ordinariamente – la violazione di una disposizione, per essere punibile, deve conseguire ad un comportamento attribuibile, per il tramite dei consueti canali del dolo o della colpa, al suo responsabile e deve, dunque, rispondere al principio della personalità della responsabilità ex art. 27 Costituzione, mentre, in ambito civilistico, opera, come noto, il “generale principio della colpa quale regola generale ispiratrice della responsabilità civile” (A. LEPORE, A. REDI, commento all’art. 4 CGS, in A.

BLANDINI, P. DEL VECCHIO, A. LEPORE, U. MAIELLO (a cura di), Codice di giustizia sportiva FIGC – annotato con la dottrina e la giurisprudenza, Napoli, 2016, p. 87). Nel contempo, tuttavia, la responsabilità oggettiva (“esigenza di tutela dei terzi”, la cui ratio è quella “di indurre le società sportive a porre in essere tutti gli accorgimenti necessari ad evitare l’accadimento di certi fatti”, così, ad esempio, A. VALORI, Il diritto nello sport. Principi, soggetti, organizzazione, Torino, 2009) è manifestazione peculiare ed insopprimibile dell’ordinamento sportivo e, ad avviso di questa Corte, ne rappresenta un architrave.

Del resto, “la fattispecie della responsabilità oggettiva, dunque, non è altro che una conseguenza dell’organizzazione della società moderna, in cui, specie nell’ambito delle attività imprenditoriali e delle c.d. attività rischiose, si preferisce utilizzare criteri di imputabilità della responsabilità che non richiedano analisi complesse, ma che rendano conoscibile a priori il soggetto che deve essere tenuto al risarcimento” (M. SANINO, Diritto sportivo, Padova, 2002, p. 445). Il corposo impiego, dunque, nell’ordinamento sportivo del modello della responsabilità addebitale pur in difetto del criterio di collegamento rappresentato dal dolo e dalla colpa, è volto ad impedire che determinati eventi rimangano, quantomeno sotto il profilo disciplinare che qui rileva, privi di conseguenza. Nel contempo, lo stesso è diretto ad assicurare salvaguardia al perseguimento delle finalità istituzionali dello sport, in generale, e del giuoco del calcio, in particolare, garantendo la regolarità delle competizioni sportive. In definitiva, il principio della responsabilità oggettiva è funzionale all’attuazione dello stesso ordinamento sportivo. Si tratta, come anche osservato in dottrina, di responsabilità la cui natura esula da una dimensione meramente “punitiva”, mirando, invece, a dare giusto equilibrio ai valori che determinano il risultato sportivo (cfr. F. PAGLIARA, Ordinamento giuridico sportivo e responsabilità oggettiva, in Rivista diritto sportivo, 1989, p. 158).

[…]

Tuttavia, premesso che, in via di principio ed allo stato della vigente disciplina federale, non ogni comportamento delle persone tesserate o aderenti al club sportivo è suscettibile di imputazione di responsabilità oggettiva a carico di quest’ultimo, bensì soltanto quello in cui è ravvisabile il requisito della coincidenza ed identità “del centro di interesse e di profitto tra l’operato del responsabile subiettivo e la sfera d’azione del responsabile obiettivo” (Corte appello federale, 30 gennaio 1985, in Rivista diritto sportivo, 1985, p. 556), occorre ricordare che la responsabilità oggettiva trova spiegazione anche in una prospettiva di qualificazione quale strumento di semplificazione: “poter prescindere dall’accertamento della sussistenza del c.d. elemento soggettivo doloso o colposo è inevitabile per ordinamenti che, come quello sportivo, non dispongono di sufficienti risorse, strutture, personale, non conoscono procedimenti cautelari e che tuttavia non possono permettersi di lasciare determinati eventi privi di conseguenze sanzionatorie” (M. SANINO, Diritto sportivo, Padova, 2002, p. 446).

[…]

L’ampia utilizzazione, nell’ordinamento sportivo, in generale, e, nel calcio, in particolare, dei moduli della responsabilità oggettiva è, insomma, anche correlata alle necessità operative ed organizzative, trattandosi di strumento di semplificazione utile per venire a capo, in tempi celeri e compatibili con il prosieguo dell’attività sportiva e, quindi, con la regolarità delle competizioni e dei campionati, di situazioni di fatto che altrimenti richiederebbero, anche al fine di definire le varie posizioni giuridicamente rilevanti in campo, lunghe procedure e complessi, oltre che costosi, accertamenti (cfr. Corte appello federale, C.U. n. 7/C s.s. 2004/2005). “In altre più semplici parole, la ratio della responsabilità oggettiva, nell’ottica dell’ordinamento sportivo, poggia sulla necessità di conseguire con immediatezza i fini che lo sport si prefigge, ossia il conseguimento del risultato sportivo, attraverso la regolarità della gara. Questa è la ragione prima sottesa alla scelta di utilizzare il modulo della responsabilità senza colpa” (P. SANDULLI, M. SFERRAZZA, Il giusto processo sportivo, Milano, 2015)».

In definitiva, il principio generale della responsabilità oggettiva è immanente all’ordinamento sportivo e, allo stato, appare fondamentale per lo stesso. Appaiono, dunque, evidenti e fondate le ragioni che sottendono all'adozione del criterio della responsabilità oggettiva, al fine non solo di tenere indenni le competizioni sportive da alterazioni riguardanti aspetti strettamente attinenti alla regolarità del gioco, ma anche dal verificarsi di episodi che mettano in serio pericolo oltre che l'ordine pubblico anche la tutela dei valori etici che devono costituire i principi cardine di ogni esperienza umana, comprese le manifestazioni sportive, e sulla garanzia dei quali vigila, come sopra ricordato dalle norme brevemente richiamate, la giustizia sportiva.

Queste considerazioni, tuttavia, non elidono l’esigenza di attenuare possibili distorsioni, legate ad alcuni rigidi automatismi, nell’applicazione del criterio della responsabilità oggettiva, anche nella prospettiva del perseguimento di un compromesso, sostenibile ed efficace, tra principio della responsabilità personale, da un lato, ed esigenza di regolarità delle gare e dei campionati, dall’altro, al fine di fornire specifica ed idonea tutela ai fruitori del giuoco del calcio e di contribuire al perseguimento degli obiettivi di sicurezza, ordine pubblico, fair play e contrasto ad ogni forma di razzismo e di discriminazione di qualsiasi natura.

Di conseguenza, accertata la condotta dei sostenitori della SS Lazio spa come contestata dalla Procura federale, la società deferita deve rispondere in relazione ai fatti accaduti per responsabilità oggettiva ai sensi dell'art. 4, comma 3, CGS. Del resto, la ferma opposizione dell'ordinamento federale nei confronti di comportamenti discriminatori in funzione della salvaguardia dei supremi valori e interessi sui quali si fonda la nostra comunità non può lasciare privi di alcuna sanzione disciplinare i fatti quali quelli oggetto del presente giudizio.

Chiaro ed evidente, infatti, è l'originario intento discriminatorio delle azioni intraprese dai sostenitori biancocelesti, ma altrettanto manifesto è che per le concrete modalità di svolgimento dei fatti e in virtù degli adeguati sistemi di organizzazione e gestione attuati dalla società deferita (che costituiscono, come detto, esimenti tali da escluderne la responsabilità per atti discriminatori compiuti dai propri sostenitori), l'obiettivo non è stato raggiunto.

Quanto alla concreta commisurazione della sanzione, ritiene congrua, questa Corte, quella individuata dal TFN. Ogni sanzione, infatti, deve essere adeguata e proporzionata al fatto, alla sua gravità, al grado di colpa attribuibile alla società o al nesso di causalità e/o collegamento tra condotta dei sostenitori ed attività / operato della società. Del resto, in una prospettiva di individualizzazione della pena, in attuazione del c.d. principio di proporzionalità, occorre, appunto, commisurare la sanzione prevista a carico della società alla specifica violazione relativa ai comportamenti dei propri sostenitori, al loro concreto atteggiarsi in termini di antidoverosità, alla effettiva intensità lesiva degli stessi, alle circostanze che connotano il fatto o comportamento punito ed al complessivo contesto nel quale lo stesso è stato posto in essere.

Alla luce di tali criteri, deve osservarsi come, nel caso di specie, ferma restando la indubbia gravità del gesto in sé (come detto, intollerabile ed inaccettabile) posto in essere dallo sparuto gruppo di (pseudo-)tifosi della società biancoceleste di cui si è detto, deve considerarsi – nella prospettiva di una specifica commisurazione della pena alla concreta fattispecie – come l’episodio di discriminazione di cui trattasi abbia avuto una rilevante eco mediatica a fronte di uno scarso o nullo (per le ragioni già sopra spiegate) rilievo (i.e. “visibilità”) in occasione della gara in questione, con correlato depotenziamento della propria “naturale” capacità ed intensità lesiva.

Sotto tale aspetto, ai fini che qui interessano, deve, dunque, anche valutarsi il pericolo concreto o l’offesa effettiva, che non può che rappresentare una sorta di “predicato” storico, ossia non in senso assoluto, e quindi valido sempre e comunque, bensì in un’ottica di verifica contingente.

Altro elemento da considerare è quello dell’esiguo numero di soggetti resisi autori dello spregevole ed intollerabile gesto con finalità discriminatorie: correttamente, dunque, sul punto, il TFN ha messo in rilievo come si sia trattato di uno sparuto gruppetto di ragazzi, che forse neppure ben si sono resi (purtroppo) conto del significato e della valenza della loro azione, a fronte delle migliaia di sostenitori laziali presenti nella stessa medesima curva di cui trattasi e di quelli complessivamente che hanno assistito alla gara in questione allo stadio.

Occorre, ancora, tenere in debito conto la fattiva ed incontestata cooperazione fornita dalla società SS Lazio spa alle autorità sportive e di pubblica sicurezza, nonché il riconosciuto sufficiente impiego, nell’occasione, di risorse umane e finanziarie adeguate allo scopo da parte della predetta medesima società.

Ritiene, infine, questa Corte, di poter valorizzare, nella prospettiva della concreta determinazione della sanzione, anche l’attività e le iniziative poste in essere dalla SS Lazio spa e dal suo Presidente, finalizzate a dissociarsi dal gesto, qui in esame, compiuto dai predetti tifosi e ad attivare comportamenti virtuosi diretti alla diffusione della conoscenza dei valori della cultura ebraica e della figura (simbolo) di Anna Frank ed evitare che l’atteggiamento discriminatorio di cui trattasi fosse portato ad ulteriori indebite conseguenze. Dissociazione, questa, effettuata dal Presidente della SS Lazio spa a titolo personale e della società medesima, ma anche e soprattutto a nome della squadra e dei sostenitori tutti, altra parte, quest’ultima, unitamente alla squadra ed alla società, ad aver ingiustamente subito le ricadute mediatiche dell’evento di cui trattasi.

Per le suddette considerazioni tutte si ritiene che, nel caso di specie, il nesso di collegamento tra il fatto posto in essere dai predetti pseudo-sostenitori biancocelesti e la responsabilità della SS Lazio spa sia alquanto tenue, seppur non interrotto in forza della natura (oggettiva) della responsabilità di cui trattasi. Tali ragioni inducono, pertanto, questa Corte, a ritenere congrua la misura sanzionatoria (nonché l’entità della stessa) individuata dal Tribunale federale nazionale.

 Per questi motivi la C.F.A., respinge il ricorso come sopra proposto dal Procuratore Federale.

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