CONI – Collegio di Garanzia dello Sport – Sezione Consultiva – coni.it – atto non ufficiale – Parere n. 7/2016 del 11/07/2016 – (richiesta CONI circa rilievo da attribuire al Punto 7.4 dei Principi Fondamentali CONI)
Parere n. 7
Anno 2016
IL COLLEGIO DI GARANZIA
SEZIONE CONSULTIVA
composta da
Virginia Zambrano – Presidente e Relatrice
Barbara Agostinis
Pierpaolo Bagnasco
Giovanni Bruno
Marcello Molè
Ha pronunciato il seguente
PARERE n. 7/2016
Su richiesta di parere presentata, ai sensi dell’art. 12 bis, comma 5, dello Statuto del Coni, e dell’art. 56, comma 3, del Codice della giustizia sportiva, dal Segretario Generale del Coni, dott. Roberto Fabbricini, prot. n. 0007055/2016 del 16 giugno 2016.
La Sezione
Visto il decreto di nomina del Presidente del Collegio di Garanzia, prot. n. 00012/14 del 17 settembre 2014;
vista la richiesta di parere n. 8/2016, presentata dal Segretario Generale del Coni, dott. Roberto Fabbricini, del 16 giugno 2016, ai sensi dell’art. 12 bis, comma 5, dello Statuto del Coni e dell’art. 56, comma 3, del Codice della giustizia sportiva;
visto l’art. 3, commi 2-4, del Regolamento di organizzazione e funzionamento del Collegio di Garanzia dello Sport, che definisce la competenza della sezione consultiva dell’organo de quo;
esaminati gli atti e udito la relatrice, pres. Virginia Zambrano.
Premesse
Con comunicazione prot. n. 0007055/16 del 16 giugno 2016, il Segretario Generale del CONI, dott. Roberto Fabbricini, ha chiesto al Collegio di Garanzia di esprimere motivato parere su alcuni profili controversi. In particolare si chiede alla Sezione Consultiva del Collegio di Garanzia di verificare quale sia il rilievo da attribuire alla previsione di cui all’art. 7.4., comma 7, dei Principi Fondamentali delle Federazioni Sportive Nazionali e delle Discipline Sportive Associate (di seguito Principi Fondamentali FSN/DSA) a norma del quale «Sono, altresì, ineleggibili quanti abbiano in essere controversie giudiziarie contro il CONI, le Federazioni, le Discipline Sportive Associate, o contro altri organismi riconosciuti dal CONI stesso»; nonché dell’art. 25, commi 7 e 8, dello Statuto FIN che, nel comma 7, riprende la formulazione di cui ai Principi Fondamentali FSN/DSA «7) E’ ineleggibile chiunque abbia in essere controversie giudiziarie contro il C.O.N.I. le Federazioni sportive nazionali, le Discipline sportive associate o contro altri organismi riconosciuti dal C.O.N.I. stesso», salvo poi integrare la disposizione al successivo comma, stabilendo che «8) La mancanza anche di uno solo dei requisiti accertata dopo l’elezione o comunque intervenuta nel corso del mandato comporta la decadenza della carica».
In particolare, la questione che investe questa Sezione del Collegio di Garanzia, e ne radica la competenza, trova fondamento nella esigenza di appurare quale la ratio e, dunque, la lettura da ascrivere a siffatte disposizioni sull’incompatibilità, alla luce – appunto – della articolata e complessa vicenda che coinvolge il CONI, da un lato, e la FIN, nella persona di un suo tesserato, dall’altro, senza che in alcun modo ne sia coinvolto il merito (cfr., art. 56, comma 3, CGS).
In questo senso, espunto ogni riferimento alle circostanze di fatto, al fine di meglio chiarire la portata del quesito sottoposto al Collegio di Garanzia, è necessario delineare, seppur sinteticamente, per un verso, il quadro normativo di riferimento (e i valori di cui esso si alimenta ed entro i quali si colloca la problematica) e, per l’altro, esaminare quale sia la condotta che integri violazione di siffatti principi.
La ragion d’essere del presente parere riposa, infatti, sul significato che assume l’articolato de quo, essendo di palese evidenza che la decadenza scatti, quale sanzione, solo in presenza di una chiara rottura di quell’armonia dell’ordinamento sportivo nazionale e internazionale di cui all’art. 7.4. comma 7, Principi Fondamentali FSN/DSA e all’art. 25, commi 7 e 8, Statuto FIN; rottura che la presenza di una controversia giudiziaria in essere (comma 7), ovvero sopravvenuta (comma 8), evidentemente conclama. Gli aspetti controversi travolgono profili soggettivi ed oggettivi, occorrendo verificare: a) la ratio della disposizione, anche alla luce dei principi generali dell’ordinamento, non solo sportivo; b) quale ampiezza vada riconosciuta – da un punto di vista soggettivo all’espressione «controversie giudiziarie contro il CONI e le Federazioni sportive nazionali»; c) quale sia il raggio di azione della previsione normativa, ovverossia la portata del rapporto fra significante e significato che attiva l’espressione «chiunque» (comma 7, art. 25 Statuto FIN).
DIRITTO
1. Abuso del diritto e clausole generali di correttezza e lealtà. Punto di partenza di questa analisi è la previsione di cui al Codice di Comportamento sportivo del 30 ottobre 2012 che, in premessa, sotto la rubrica «Principi Fondamentali», stabilisce che i principi cui atleti, affiliati, associati, amministratori devono ispirare la loro condotta sono quelli «inderogabili e obbligatori, di lealtà, correttezza e probità previsti e sanzionati dagli Statuti e dai regolamenti del CONI, delle Federazioni sportive nazionali, ivi compresi quelli degli organismi rappresentativi delle società, delle Discipline sportive associate, degli Enti di promozione sportiva e delle Associazioni benemerite».
Sebbene non sia agevole attribuire un contenuto preciso a questi doveri, per il loro partecipare della natura di clausole generali, non v’è dubbio che obiettivo del Codice sia quello di delineare una serie di regole di condotta, che devono ispirare «i tesserati alle Federazioni sportive nazionali, alle Discipline sportive associate, agli Enti di promozione sportiva e alle Associazioni benemerite, in qualità di atleti, tecnici, dirigenti, ufficiali di gara, e gli altri soggetti dell'ordinamento sportivo, in eventuali altre qualifiche diverse da quelle predette, comprese quelle di socio cui è riferibile direttamente o indirettamente il controllo delle società sportive» (comma 2 della Premessa). La scelta strutturale compiuta dal legislatore, ovverossia, quella di indicare, in incipit, i criteri di formazione giudiziale della regola da applicare (Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, RCDP, 1986, 10) risulta assolutamente decisiva. Essa, infatti, assolve alla funzione di rendere palesi gli obiettivi di policy che con siffatto codice si è inteso perseguire e, al tempo stesso, mira a delineare una sorta di «manifesto» dell’ordinamento sportivo. L’obiettivo è evidente, trattandosi di garantire una più esplicita e palese valenza di quei principi di eguaglianza, non discriminazione, solidarietà che connotano l’essenza stessa dell’attività sportiva.
Vero è che quelle clausole generali contenute nei codici di condotta, quali values
statement, null’altro fanno che elencare i valori dell’ordinamento di riferimento e fissare le linee guida di una condotta, promettendo che essa sia conforme alla così individuata gerarchia. Sarebbe però impreciso ritenere che, nel caso dell’ordinamento sportivo, siffatti obblighi abbiano un rilievo meramente etico. Proprio la peculiarità dell’ordinamento sportivo fa si, infatti, che i principi etici, si trasformino in altrettanti principi giuridici dell’ordinamento sportivo.
Analogamente a quanto accade per l’ordinamento statale – dove il richiamo ai doveri inderogabili di lealtà, correttezza e integrità acquista una caratteristica connotazione giuridica, che affiora proprio dalla necessità di porre limiti a situazioni giuridiche soggettive, alla luce dei valori costituzionali che ispirano l’ordinamento – nel caso dell’ordinamento sportivo g li obblighi di lealtà, correttezza, non violenza, non discriminazione, appaiono interpretare l’essenza stessa dell’ordinamento al punto che la loro viola zione si traduce nella negazione st essa dell’attività sportiva. Né la difficoltà di offrire una definizione esaustiva dei doveri di lealtà, correttezza, probità impedisce di considerarne la rilevanza dal punto di vista giuridico.
Quali clausole generali, siffatti doveri presentano all’opposto un contenuto la cui precettività non è messa in discussione dalla loro naturale storicità e relatività. L’importanza di richiamare compiti, doveri, funzioni, lungi allora dall’apparire sterile esercizio letterario, assolve, piuttosto, il compito di «fare il punto» sui valori che devono permeare il diritto inteso come «etica codificata» (G. Visentini, L’etica degli affari, in Scritti in onore di Buonocore, I, 881). Quando il legislatore richiama questi obblighi lo fa per creare affidamento e delineare, in ultima analisi, il contesto normativo entro il quale tutta la comunità si riconosce ed andrà ad operare.
La flessibilità che è propria delle clausole generali sottintende un complesso processo di «concretizzazione» che non può che essere operato dall’interprete chiamato a verificare il rispetto dei doveri di lealtà, correttezza e buona fede. Il rinvio al dibattito dottrinale che su questi temi occupa la dottrina civilistica è evidente. Ma se, in ambito civilistico, il collegamento fra un generale dovere di correttezza e «quell’aspirazione generalizzata alla instaurazione di una garanzia di sostanziale rispetto della personalità dei soggetti, che, come è noto, rappresenta la direttiva fondamentale di svolgimento delle strutture dell’intero sistema» (Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, I, p. 36), porta la dottrina a riflettere ora sul ruolo dell’art. 1175 c.c. e 1375 c.c., ora sul rilievo che assumono concetti quali quelli di solidarietà, affidamento reciproco, lealtà (Rodotà, Perlingieri), nel caso dell’ordinamento sportivo il problema si semplifica. La normativa di correttezza – proprio in considerazione della peculiarità del sistema – non può che riposare su principi di solidarietà e affidamento reciproco, la cui violazione determina sanzioni giuridiche (S. Romano, Principi di diritto costituzionale generale, Milano, 1946, p. 92; P. Biscaretti di Ruffia, Norme sulla correttezza costituzionale, Milano, 1939, p. 94 ss.; G. Codacci Pisanelli, L’invalidità come sanzione di norme non giuridiche, Milano, 1940, p. 24 ss.; G. Sicchiero, Appunti sul fondamento costituzionale del principio di buona fede, in Giur. It., 1993, I, 1, p. 2129; F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Milano, 1970; M. Santilli, Il diritto civile dello stato. Momenti di una vicenda tra pubblico e privato, Milano, 1985).
Il quadro normativo di riferimento è qui rappresentato non solo dal Codice di Comportamento Coni, ma, in maniera più pregnante per la differenza logica e ontologica fra principi e clausole generali, dai principi contenuti nella Carta Olimpica che fissano le coordinate cui deve ispirarsi la condotta fra consociati, all’interno dell’universo sportivo1. I principi della Carta Olimpica strutturano, infatti, un sistema in cui eguaglianza e non discriminazione, democraticità, partecipazione, sono strumento e affermazione di un più generale principio di solidarietà. Né si deve ritenere c he tali principi riguardino il mero campo relazionale più che quello del diritto in senso stretto, dovendosi interpretare la norma della Carta Oli mpica in maniera da permetterne l’attuazione.
Da un punto di vista pratico, allora, il richiamo ai doveri di correttezza, lealtà e probità, - come vivificati dal contatto con i principi di cui si è discorso – assume il valore di manifestazione di una vera e propria tecnica di formazione giudiziale della regola, che opera non soltanto in funzione integrativa, ma anche valutativa della condotta tenuta2.
Se così è, ne consegue che il richiamo alla lealtà e correttezza deve considerarsi manifestazione della necessità per l’ordinamento (a maggior ragione quello sportivo) di limitare condotte che, pur formalisticamente espressione di posizioni riconosciute dall’ordinamento, in realtà sono tenute per far valere pretese contrarie ai fini propri dell’ordinamento di riferimento. Ed è in questo senso argomentando che si comprende come il riferimento alle clausole generali non possa che collegarsi alla complessa problematica del diritto soggettivo e dei limiti al suo esercizio.
Non v’è dubbio, infatti, che il titolare di un diritto possa sempre agire per vedere realizzata la sua pretesa. Del pari indubbio, tuttavia, che tale diritto debba essere esercitato nel rispetto di precise condizioni di tempo, di luogo, di modo, di circostanze. I limiti alla condotta sono imposti affinchè del diritto sia fatto un uso «ragionevole» proibendo il raggiungimento di finalità diverse da quelle cui esso è naturalisticamente rivolto. La connessione fra erosione del diritto soggettivo e abuso del diritto è, in tal senso, del tutto evidente. L’abuso, infatti, si sostanzia nell’uso eccessivo di un potere che pure si possiede, al solo fine di arrecare danno a terzi, ovvero per ricavarne, in qualche modo, un indebito vantaggio.
Esso è violazione di principi basilari nella vita di relazione giuridica, recte, di quei principi di collaborazione cui ogni ordinamento moderno deve ispirarsi, e che si spingono al punto di giustificare «l’affidamento per ciascuno di vedersi trattato dagli altri secondo norme di onestà e correttezza» (Trabucchi, Istituzioni di diritto privato, 1992, 489). Ciò che, tuttavia, ridonda in abuso non è il mero superamento dei limiti astrattamente imposti ad una condotta. Il concetto di abuso è, infatti, da mettere in relazione alla più ampia funzione della situazione giuridica soggettiva di cui la persona è titolare; situazione che, per il suo investire poteri, facoltà, oneri, etc., deve, dunque, essere guardata nella sua complessità, dovendosi analizzare non la singola condotta isolatamente considerata, ma l’insieme delle circostanze che la hanno accompagnata (Taruffo, L'abuso del processo: profili generali, in L'abuso del processo, Atti del XXVIII convegno nazionale, Urbino, 23-24 settembre 2011, Bologna, 2012 ).
In altri termini l’esercizio di un diritto è abusivo se il titolare ha intenzionalmente recato un danno ad una controparte, facendosi schermo dell’apparenza di legittimità della propria condotta, come offertagli dalla titolarità di un diritto soggettivo. Laddove l’abusività della condotta è la risultante di un giudizio complesso – il quale non può che fare applicazione dei criteri della ragionevolezza e proporzionalità – che abbraccia momenti, situazioni, circostanze da cui emerge quella «eterogenesi dei fini» di cui discorre la dottrina (D’Amelio, Abuso del diritto, in Nov.Dig.it, 1957, 95-56 ); una eterogenesi vieppiù evidente in presenza di più condotte, da cui emerga una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto e il sacrificio ricadente su una qualche «controparte». La difficoltà di accertare la situazione di abuso – come sembra ricavarsi dallo sforzo euristico di una giurisprudenza c he però mostra di farvi sempre più spesso ricorso – non impedisce di andare alla ricerca, e sanzionare per le ragioni dette, ogni ingiustificata e eccessiva amplificazione del proprio diritto; una amplificazione che (come si diceva) può anche sciogliersi in una serie di condotte le quali, pur singolarmente legittime, manifestano, assunte nel loro succedersi, la sola volontà di arrecare danno a terzi, senza che vantaggio alcuno ne derivi per l’aut ore della st essa o, peggio, portate avanti al solo scopo di danneggiare.
2. Sulla valenza del l’espressione controversie giudiziarie – Tanto l’art. 7, comma 4, dei Principi Fondamentali FSN/DSA, quanto l’art. 25, comma 7, dello Statuto Fin, così come i principi contenuti nella Carta Olimpica, muovono in una medesima direzione. L’obiettivo, ben espresso dall’art. 3 della Carta, è quello di mettere lo sport al servizio dell’uomo per favorire lo sviluppo di una società «pacifica». Dal canto suo, la Regola 25.2.1, dichiarando di voler sanzionare in maniera esplicita ogni comportamento che arrechi danno al C.I.O., fa uscire i Principi Fondamentali (segnatamente i punti 1-8) dal limbo della programmaticità per assegnare ad essi quella diretta rilevanza giuridica di cui si è detto. Un quadro normativo sufficientemente delineato finisce così con il fissare le coordinate che definiscono il comportamento eticamente corretto; coordinate entro le quali devono muoversi tutti gli attori del variegato universo sportivo (dirigenti, atleti, tecnici, funzionari etc.).
Orbene, senza entrare nel merito di una vicenda che da tempo vede coinvolti Coni, da un lato e Fin, dall’altro, trattandosi di attività che esula dalla competenza di questa Sezione come adamantinamente fissata dall’art. 56, comma 3, CGS, pare a codesto Collegio che elemento centrale del parere sia la questione di cosa, in concreto, costituisca abuso del diritto e, più precisamente, quale la portata e l’ampiezza della formula «controversie giudiziarie contro il Coni».
A scanso di equivoci è necessario – alla luce delle considerazioni svolte – sgomberare il campo da ogni approccio formalistico nella considerazione degli atti/comportamenti dei soggetti e precisare, altresì, come, all’interno della tematica dell’abuso del diritto, si collochi il filone processualistico dell’abuso del processo, quale sviamento dello strumento giurisdizionale. Laddove chiaro è il riferimento all’esplicitarsi di comportamenti legittimi delle parti (o del giudice), ma che tuttavia perseguono finalità differenti rispetto a quella naturale. Un esempio per tutti, è certo dato dall’uso strumentale della prescrizione, quale unica meta dell’attività difensiva ovvero, da tutte quelle attività volte ad ostacolare l’esercizio del diritto dell’altra parte, come, ad esempio, potrebbe dirsi, avuto riguardo all’ordinamento sportivo, allorchè si pongano in essere condotte volte ad impedire, ostacolare o rendere più complesso l’esercizio del diritto di difesa dilatando oltre il necessario i tempi per depositi di atti, documenti, etc., senza offrire all’altra parte la possibilità di elaborare una seria controargomentazione.
Con abuso del processo deve, pertanto, intendersi un uso incongruo del diritto di compiere attività processuale, si tratti dell'avvio del processo, della proposizione di eccezioni, della formulazione di istanze istruttorie, e così via. Gli indici da cui desumere un abuso del processo sono assai eterogenei fra loro e si risolvono (senza pretesa di esaustività): a) nella volontà di nuocere da parte del suo autore; b) nel difetto di un reale interesse in capo al medesimo; c) nella non meritevolezza di tutela di tale interesse o comunque nella necessità di operare un bilanciamento con quello della controparte, o delle controparti; d) nella scorrettezza delle modalità di esercizio del diritto; e) nell'uso di quest'ultimo per uno scopo diverso rispetto a quello per il quale esso è conferito e così via enumerando.
L’abuso del processo, come ben osservano i giudici in Cass., 22 luglio 2014, n. 16627, che si richiamano alla giurisprudenza europea, «discende dal fatto che ogni ordinamento che aspiri a completezza e funzionalità deve “tutelarsi” per evitare che i diritti da esso garantiti siano esercitati o realizzati, pure a mezzo di un intervento giurisdizionale, in maniera “abusiva”, ovvero eccessiva e/o distorta».
L'abuso del processo, così, consiste (Cass., Sez. Un., sentenza n. 155 del 29/09/2011, in Ced Cass., Rv. 251496) «in un vizio, per sviamento, della funzione, ovvero in una frode alla funzione, e si realizza allorché un diritto o una facoltà processuali sono esercitati per scopi diversi da quelli per i quali l'ordinamento processuale astrattamente li riconosce all'imputato, il quale non può in tale caso invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non erano in realtà effettivamente perseguiti». In tale sede, in tema di abuso di ufficio, è stata esclusa qualsiasi violazione del diritto alla difesa. I giudici, all’opposto, hanno censurato l’eccessivo numero di iniziative processuali, ravvisando in esse un concreto pregiudizio dell'interesse obiettivo dell'ordinamento, e di ciascuna delle parti.
Di siffatta complessa rilevanza della figura di abuso del diritto/del processo ben si rende conto lo stesso legislatore sportivo (cfr., Premessa dei Principi Fondamentali di cui al Codice di Comportamento) ove di siffatta figura egli discorre in chiave dogmatica e riassuntiva (violazione dell'obbligo di comportarsi secondo correttezza e buona fede), ma altresì, processuale, (violazione degli obblighi di lealtà e probità).
Ed allora, vero è che l’attribuzione, in via generale ed astratta, di un diritto soggettivo rappresenta l’esito della scelta di formalizzare l’interesse sottostante (il «bene della vita», nella terminologia di alcuni giuristi), attribuendogli una determinata forma di protezione giuridica. Del pari indubbio che l’esercizio di questo diritto non può sostanziarsi, come si diceva, in un right to do wrong e cioè nella possibilità, pure offerta dall’ordinamento, di compiere atti che «pervertono» la funzione o il «senso» del diritto stesso.
Se così è, ne discende che l’intrecciarsi di azioni, deferimenti , denunce presentate nella consapevolezza dell ’innocenza del la par t e denunciata (specie se seguita da archiviazione senza che si sia arrivati al dibattimento), opposizioni all’archivia zione, uso strumentale di rimedi processuali, enfatizzazione mediatica di vicende processuali che esuli no dal diritto all’informazione sono indicativi di una condotta contraria a quei doveri di correttezza, lealtà e probità di cui si è discorso. Ed ancora in tal senso depone, ogni allontanamento – mascherato da motivazioni fittizie o in assenza di un interesse specifico – dalla indiscutibile procedimentalizzazione delle controversie sportive, chiamando in causa il giudice statale a dispetto del vincolo di giustizia «momento fondamentale dell’ordinamento sportivo, essendo fisiologicamente finalizzato a garantirne l’autonomia, quanto alla gestione di interessi settoriali, rispetto a quello statale» (Cass. 2005/18919)3.
Ammessa, infatti, la rilevanza giuridica di quegli obblighi di correttezza, lealtà, probità etc. occorre giocoforza riconoscere che è sulla sanzione che inevitabilmente è destinato a «scaricarsi» per dir così il peso della precettività di siffatti obblighi, pena l’attrazione di quei doveri all’ambito dell’irrilevante giuridico (cosa che non è).
Sul piano delle sanzioni, nel caso dell’ordinamento statale (ma il discorso con gli opportuni adattamenti è destinato a valere anche per l’ordinamento sportivo) occorre operare una distinzione fra ciò che attiene la sorte del processo e il profilo delle eventuali ulteriori sanzioni.
Nel primo caso, l’assenza del diritto di compiere un atto, ovvero la presentazione di una domanda non assistita dal diritto di azione (neppure astrattamente intesa), non può che condurre al rigetto della stessa. Nel secondo, e cioè sotto il profilo delle conseguenze economiche, dubbio alcuno riveste l’applicazione dell’art. 92, comma 1º, c.p.c. ovvero dell’art. 96 c.p.c., in caso di richiesta di risarcimento. Il punto di partenza, come ovvio, è rappresentato dalla violazione dei doveri di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c.
Che si tratti di un principio, quello della lite temeraria che trovi riconoscimento anche nell’ordinamento sportivo è testimoniato dal rilievo riconosciuto a questa regola (cfr. art. 16, Reg. Giustizia Fin).
Nel caso dell’ordinamento sportivo, tuttavia, il discorso non può che assumere una intensità maggiore, che non si appiattisce né si risolve nella sola dimensione risarcitoria. Questa intensità emerge dal fatto che, anche a prescindere da situazioni di abuso processuale, siprevede la sanzione dell’ineleggibilità per «chiunque» abbia in essere controversie giudiziarie conto il Coni (così i Principi Fondamentali FSN/DSA e così anche l’art. 25, comma 7, Statuto Fin). Laddove chiara è la ratio dell’ineleggibilità, qui disposta a tutela di quell’armonia, accordo, serenità di rapporti che tanto più devono riscontrarsi in chi assume responsabilità gestorie e di amministrazione.
Ma se così è, se cioè, anche l’agire a tutela di un proprio interesse crea i presupposti dell’ineleggibilità, a maggior ragione ciò deve sostenersi nel caso in cui la condotta sia espressione di abuso. Ed ancora, a conferma della forza che possiede il principio dell’armonia del sistema sportivo, vale la disposizione di cui all’art. 25, comma 8, che commina la decadenza al verificarsi, anche durante il mandato, di una di quelle condizioni. Non trovano spazio qui considerazioni formalistiche – e non lo potrebbero, a meno di negare la ratio stessa della norma – sul persistere della mancanza del requisito al momento dell’accertamento. La prospettiva assiologica, da cui a parere di questo Collegio non è dato allontanarsi, impone di ritenere che se principio generale è quello della salvaguardia di quell’armonia, concordia e trasparenza, che nell’ordinamento sportivo devono essere al massimo assicurate, allora sia procedimenti in atto, sia conclusi (art. 25, comma 8, Statuto Fin) negano quel principio.
Ne consegue che il dare inizio ad una controversia ora si risolve in causa di ineleggibilità, ove l’azione sia intentata da un possibile candidato, ora sfocia in causa di decadenza, per «chiunque», in corso di mandato, dia comunque avvio ad una controversia; ipotesi per la quale è stata, evidentemente, prevista la sanzione della decadenza.
3. Abuso del diritto e superamento della personalità giuridica. Ora, proprio l’espressione
«chiunque» adoperata dal legislatore fa ben intendere la portata espansiva del principio enunciato. «Chiunque», infatti, è qualsiasi persona e la sua riferibilità ai «requisiti personali» di eleggibilità di coloro che possono rivestire cariche federali non è, in vero, in discussione.
Ma se ciò è, se, vale a dire, la valenza soggettiva della norma è ben delineata, per cui l’ineleggibilità/decadenza scatta solo nel caso in cui la controversia sia proposta da una persona fisica – per cui in presenza di controversia sollevata da una Federazione non si realizza la casistica di cui al comma 7 dell’art. 25 Statuto Fin - altrettanto vero è che la persona giuridica non può mai rappresentare il comodo schermo dietro cui trincerarsi per far valere interessi personali.
Il problema dell'abuso della personalità giuridica si manifesta, infatti, laddove si usi l'esenzione dal diritto comune oltre i limiti in cui il legislatore ha previsto e voluto contenerla. In tutti questi casi, ogni qual volta, vale a dire, vengano meno i presupposti che giustificano le ragioni del privilegio normativo offerto dalla disciplina codicistica, la repressione dell'abuso della personalità giuridica importa inevitabilmente la disapplicazione della disciplina speciale prevista, ed il ritorno al diritto comune. Abusare della personalità giuridica, tecnicamente, significa godere della disciplina speciale in situazioni diverse da quelle che ne giustificano l'applicazione: significa in altri termini, fruire dell'esenzione dal diritto comune oltre i limiti entro i quali il legislatore ha inteso contenerla. Il ricorso analogico alle posizioni giurisprudenziali sugli abusi della persona giuridica, in caso (ad esempio) di socio unico, permette di vedere come la reazione dell’ordinamento inevitabilmente segua alla condotta «dolosa» e si concentri sulla sanzione della decadenza dal beneficio della responsabilità limitata (fino alla previsione dello stesso fallimento).
Nel caso del diritto societario, le tecniche di repressione sono diverse a seconda del tipo di abuso, spingendosi, nei casi piú gravi, allorchè una società di capitali risulti costituita al solo scopo di procurare ai soci il beneficio della responsabilità limitata e questi abbiano agito nel piú assoluto disprezzo delle regole di organizzazione e di funzionamento del tipo di società prescelto, ad un superamento dello schermo della personalità giuridica che consente, addirittura, di perseguire i soci, illimitatamente e solidalmente, per tutte le obbligazioni sociali.
In altri casi, superando lo schermo della personalità giuridica si arriva ad imputare direttamente ai soci i rapporti giuridici posti in essere dalla società (in questo senso, v. App. Roma, 28 ottobre 1986, in Giur. it., 1987, I, 2, c. 460, commentata da GALGANO, L'abuso della personalità giuridica, p. 365 ss.). L’utilità del ricorso al diritto societario, così come la possibilità di fare applicazione analogica delle soluzioni adottate, è evidente. Qui come lì, l’abuso della personalità giuridica non è niente altro che abuso dei diritti nascenti dalle norme che la legge «riassume» nel concetto di persona giuridica. La possibilità di fare appello all’abuso della personalità giuridica ed all’esigenza di superarne lo schermo si realizza, quindi, ogni qual volta la personalità giuridica sia ridotta a mero simulacro formale, comodo schermo dietro il quale si celano interessi specifici dei singoli.
Si tratta di condotta che l’ordinamento sanziona perché contraria a quei doveri di correttezza e buona fede di cui si è discorso, con la conseguenza che, laddove si verifichi questa eventualità, responsabile non potrà che essere il singolo, avuto riguardo al ruolo svolto. Ne consegue che, così come nel caso del diritto societario la condotta abusiva del socio conduce alla disapplicazione della disciplina speciale prevista ed il ritorno al diritto comune, anche nell’ordinamento sportivo, in presenza di una condotta che mostra di far uso della disciplina speciale in situazioni diverse da quelle che ne giustificano l'applicazione, lo schermo della Federazione non può che cadere.
PQM
Nei sensi su esposti è il parere della Sezione Consultiva.
Deciso nella camera di consiglio del 1 luglio 2016.
Il Presidente e Relatore
F.to Virginia Zambrano
Depositato in Roma, in data 4 luglio 2016.
Il Segretario
F.to Alvio La Face
1 Un discorso a parte vale per il Codice Europeo di Etica sportiva, approvato dai Ministri europei responsabili per lo Sport, a Rodi il 13-15 maggio 1992, che, pur non potendosi tecnicamente ritenere una fonte, comunque rileva ai fini del presente parere, nella parte in cui dispone: «Il principio fondamentale del Codice è che le considerazioni etiche insite nel gioco leale (fair play) non sono elementi facoltativi, ma qualcosa d’essenziale in ogni attività sportiva, in ogni fase della politica e della gestione del settore sportivo».
2 L’imposizione di specifici criteri di valutazione della stessa evita, infatti, «di dover considerare permesso ogni comportamento che nessuna norma vieta e facoltativo ogni comportamento che nessuna norma
rende obbligatorio» (F. Galgano, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 1990, p. 462).
3 Non a caso, negli Statuti delle Federazioni si rinviene (e non pare che altro sia il tenore da riconoscersi alla stessa formulazione dell’art. 88 Regolamento di Giustizia Fin) l’accettazione autonoma e consapevole della rimessione della decisione al Collegio di Garanzia in presenza di «decisioni non altrimenti impugnabili nell’ambito dell’ordinamento federale emesse dai relativi organi di giustizia»; Collegio di Garanzia il cui giudizio interviene in unico grado. Sulla questione della natura delle Federazioni, cfr., Napolitano, La Riforma del Coni e delle Federazioni sportive, in Giornale di diritto amministrativo, 2000, 118).