F.I.G.C. – TRIBUNALE FEDERALE NAZIONALE – Sezione Disciplinare – 2020/2021 – figc.it – atto non ufficiale – Decisione n. 117/TFN del 8.3.2021 – (Deferimento n. 8862/448pf20-21/GC/blp del 8.2.2021 nei confronti del sig. Michele Marconi – Reg. Prot. 108/TFN-SD) Decisione n. 117/TFN-SD 2020/2021 Deferimento n. 8862/448pf20-21/GC/blp dell’8 febbraio 2021 Reg. Prot. 108/TFN-SD

 

Decisione n. 117/TFN-SD 2020/2021

Deferimento n. 8862/448pf20-21/GC/blp dell’8 febbraio 2021

Reg. Prot. 108/TFN-SD

 

Il Tribunale Federale Nazionale – sezione disciplinare, composto da

 

cons. Giuseppe Rotondo – Presidente;

cons. Gianluca Di Vita – Componente;

cons. Angelo Fanizza – Componente (Relatore);

dott. Giancarlo Di Veglia – Rappresentante AIA;

 

ha pronunciato nella riunione fissata il giorno 3 marzo 2021,

a seguito del deferimento del Procuratore federale n. 8862/448pf20-21/GC/blp dell’8 febbraio 2021 nei confronti del sig. Michele Marconi,

la seguente

DECISIONE

Il deferimento

Con nota prot. 8862 /448pf20-21/GC/blp dell’8 febbraio 2021 la Procura federale ha deferito al Tribunale federale nazionale - sezione disciplinare il sig. Michele Marconi, calciatore del Pisa SC 1909, per violazione degli artt. 4, comma  1, e  28, commi  1 e  2,  del codice di  giustizia sportiva,  per  violazione  dei  doveri  di  lealtà,  probità e correttezza, segnatamente «per avere, alla fine del primo tempo della gara Pisa S.C. 1909 – Chievo Verona del 22 dicembre 2020, a seguito di un’azione di gioco e di un diverbio verbale, utilizzato parole di contenuto discriminatorio e denigratorio per motivi di razza nei confronti del calciatore Obi Joel Chukwuma del Chievo Verona, proferendo le seguenti parole “la rivolta degli schiavi”».

In estrema sintesi è accaduto che intorno al minuto 40° del primo tempo della partita sopra indicata, dopo un rilancio del portiere del Pisa, la palla è giunta in prossimità della zona destra del centrocampo; si è, in particolare, verificato un contrasto di gioco tra il calciatore Obi del Chievo Verona ed il calciatore Marconi del Pisa, intenti a contendersi in volo il possesso del pallone; subito dopo tale contrasto vi sarebbe stato, sempre in prossimità del centrocampo, uno scambio di battute nel corso del quale il calciatore Marconi avrebbe proferito la frase razzista che ha determinato il deferimento.

Occorre soggiungere che di tale accadimento si è subito interessato il dott. Giorgio Fiorenza, collaboratore della Procura federale, il quale ha redatto una relazione, allegata in atti, nella quale ha fatto presente: di essere stato “attratto da un gruppo di giocatori e dirigenti del Chievo che si erano alzati dalla panchina per segnalare al quarto uomo una "presunta" frase che il giocatore del Pisa Michele Marconi, pare a seguito di uno scontro di gioco, avrebbe indirizzato al giocatore e vice capitano del Chievo Obi Joel Chukwuma”; di essersi, quindi, recato, alla fine del primo tempo, “nello spogliatoio degli arbitri per chiedere loro se avessero sentito pronunciare la frase de qua, ma la risposta è stata negativa ed anzi, l'arbitro Sig. Alberto Santoro ed il quarto uomo sig. Federico Dionisi, hanno aggiunto che se avessero sentito pronunciare una frase del genere sarebbero immediatamente intervenuti”; di non aver personalmente “sentito la frase incriminata” e di aver “parlato con il responsabile TV della Lega, che era rimasto in campo, che mi ha confermato che dalla registrazione non era possibile sentire niente”.

Nel corso del procedimento sono stati auditi dalla Procura federale il calciatore sig. Joel Chukwuma Obi, tesserato del Chievo Verona; il calciatore sig. Luca Garritano, tesserato del Chievo Verona; il team manager del Chievo

Verona sig. Marco Pacione; il segretario sportivo del Chievo Verona sig. Edoardo  Busala;  il  calciatore  sig. Michele Marconi, tesserato del Pisa SC 1909.

Nel corso del procedimento il deferito ha depositato una memoria nella quale ha, preliminarmente, dedotto l’incompetenza del Tribunale federale nazionale, e ciò sull’assunto che “le presunte violazioni dell'art. 28 CGS commesse nel corso di una partita ufficiale sono comprese nel perimetro della competenza esclusiva, quale giudice preordinato da regolamento, del Giudice sportivo nazionale, attenendo, ex art. 65, comma 1, CGS, ai fatti, da chiunque connessi, avvenuti nel corso di tutti i campionati... sulla base delle risultanze dei documenti ufficiali e dei mezzi di prova di cui agli artt. 61 o 62 o comunque su segnalazione del Procuratore federale”; cosicché, risultando “incontestabile che la condotta contestata sarebbe connessa a un'azione di giuoco e interna alla competizione” e che “il capo di incolpazione del deferimento fa riferimento alla violazione dell'art. 4, comma 1 CGS "e" alla violazione dell'art. 28 CGS quale unitario capo d'accusa”, si dovrebbe concludere che “la condotta viene unitariamente sussunta nel genus della "condotta antisportiva" in violazione dei principi di lealtà, correttezza e probità sportiva, genus che, ai sensi dell'art. 61 e 65 CGS impone la competenza del solo Giudice sportivo”.

Il  deferito  ha,  conseguenzialmente,  sostenuto  che  il  procedimento  disciplinare  sarebbe  “inammissibile  e/o improcedibile per incompetenza del TFN e, comunque, per inammissibilità dell'esercizio dell'azione disciplinare e inutilizzabilità di tutti gli atti probatori successivi al 18 dicembre 2020, posto che: a) si è provveduto in data 23 dicembre 2020 all'apertura di un procedimento disciplinare a fronte di una nota del collaboratore della procura federale che escludeva la commissione di un illecito e che dunque non può ritenersi in ogni caso ricevimento di notitia criminis, in spregio all'art. 118, comma 2, CGS; b) si è provveduto, a fronte dell'intervenuta attivazione e valutazione del collaboratore della Procura federale, a una riapertura delle indagini in assenza di "nuovi fatti o circostanze rilevanti" e in spregio al principio generale codificato nell'art. 122, comma 4 CGS”.

Nel merito dell’addebito contestato, il sig. Marconi ha dedotto l’insussistenza dei presupposti del deferimento, evidenziando che l’espressione razzista non sarebbe stata affatto pronunciata e che, comunque, tale accusa non sarebbe sostanziata da alcun fondamento probatorio.

Le parti sono state convocate per l’udienza del 3 marzo 2021.

Il procedimento

All’udienza del 3 marzo 2021 il rappresentante della Procura federale, avv. Giorgio Ricciardi, dopo aver illustrato il deferimento, ne ha chiesto l’accoglimento e, per l’effetto, l’irrogazione delle seguenti sanzioni: per il calciatore sig. Michele Marconi 10 (dieci) giornate di squalifica.

Motivi della decisione

Preliminarmente, non è ravvisabile il difetto di competenza di questo Tribunale, dedotto dal deferito con richiamo:

- all’art. 65, comma 1, lett. a) del codice di giustizia sportiva, in cui si prevede che “i giudici sportivi giudicano, senza udienza e con immediatezza, in ordine: a) ai fatti, da chiunque  commessi, avvenuti nel corso di tutti i campionati e delle competizioni organizzate dalle Leghe e dal Settore per l’attività giovanile e scolastica, sulla base delle risultanze dei documenti ufficiali e dei mezzi di prova di cui agli artt. 61 e 62 o comunque su segnalazione del Procuratore federale”;

- all’art. 61, comma 3 del codice di giustizia sportiva, in cui si prevede che “per le gare della Lega di Serie A e della Lega di Serie B, limitatamente ai fatti di condotta violenta o gravemente antisportiva o concernenti l’uso di espressione blasfema non visti dall’arbitro o dal VAR, con la conseguenza che l’arbitro non ha potuto prendere decisioni al riguardo, il Procuratore federale fa pervenire al Giudice sportivo nazionale riservata segnalazione entro le ore 16:00 del giorno feriale successivo a quello della gara”.

In primo luogo, occorre considerare che nella specie è stato contestato al deferito di aver pronunciato all’indirizzo del calciatore di colore Obi del Chievo Verona un’espressione razzista (“la rivolta degli schiavi”) tale da integrare non soltanto la violazione dei doveri di lealtà, probità e correttezza di cui all’art. 4, comma 1 del codice di giustizia sportiva, ma anche l’illecito di cui al successivo art. 28, commi 1 e 2.

Tale ultima disposizione, rubricata “comportamenti discriminatori”, prevede, in particolare, che “costituisce comportamento discriminatorio ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporta offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine anche etnica, condizione personale o sociale ovvero configura propaganda ideologica vietata dalla legge o comunque inneggiante a comportamenti discriminatori” (comma 1), soggiungendosi che “il calciatore che commette una violazione di cui al comma 1 è punito con la squalifica per almeno dieci giornate di gara o, nei casi più gravi, con una squalifica a tempo determinato e con la sanzione prevista dall’art. 9, comma 1, lettera g) nonché, per il settore professionistico, con l’ammenda da euro 10.000,00 ad euro 20.000,00” (comma 2).

I “comportamenti discriminatori” – delineati all’art. 28 con specifico riferimento, per quanto interessa il presente giudizio, ai “motivi di razza” – nulla hanno, però, a che vedere con le fattispecie oggetto della dedotta violazione dell’art. 61, comma 3 del codice di giustizia sportiva, riguardanti, cioè, i “fatti di condotta violenta” (all’opposto disciplinati dall’art. 38), i fatti di condotta “gravemente antisportiva” (disciplinati dall’art. 39, nonché dall’art. 61, comma 4) e, infine, i fatti di condotta “concernenti l’uso di espressione blasfema” (disciplinati dall’art. 37).

Dunque, la disposizione di cui all’art. 61, comma 3 del codice di giustizia sportiva – che fonderebbe, ad avviso del deferito, la competenza del Giudice sportivo (regolata dall’art. 65, comma 1, lett. a) del codice di giustizia sportiva) – esula in realtà completamente, dal punto di vista contenutistico e precettivo, dalla materia e dalla specifica fattispecie di illecito (“comportamenti discriminatori”) regolati all’art. 28, norma, quest’ultima, la cui violazione è stata, invece, espressamente contestata dalla Procura federale al sig. Marconi.

Ne deriva che il richiamo del deferito alla “condotta antisportiva” (pag. 7 della memoria in atti) deve ritenersi inconferente e, a maggior ragione, non può deporre per la devoluzione del presente procedimento alla competenza al Giudice sportivo.

Ad ulteriore avallo di tale conclusione va, inoltre, considerato che l’altra disposizione – vale a dire l’art. 65, comma 1, lett. a) del codice di giustizia sportiva – che, sempre ad avviso del deferito, suffragherebbe l’incompetenza di questo Tribunale in favore del Giudice Sportivo, presuppone che la contestazione dei fatti debba avvenire “sulla base delle risultanze dei documenti ufficiali e dei mezzi di prova di cui agli artt. 61 e 62 o comunque su segnalazione del Procuratore federale”.

Ma nella specie risulta, tuttavia, evidente:

1) che non vi è stato nei rapporti degli ufficiali di gara o del commissario di campo (art. 61 del codice di giustizia sportiva) alcun riferimento al percepimento della frase oggetto del presente giudizio;

2) che, nonostante alcuni iniziali dubbi – veicolati, per la verità, da alcuni dirigenti  del Chievo Verona –  circa l’esistenza di una prova della frase pronunciata dal calciatore Marconi (si sarebbe trattato di una registrazione dell’audio sulla piattaforma DAZN in occasione della partita), non è emerso alcun riscontro relativo ai cc.dd. mezzi audiovisivi di cui all’art. 58 del codice di giustizia sportiva (riprese televisive; filmati di operatori ufficiali dell’evento), neppure scaturenti da fonti non ufficiali;

3) che nella relazione del collaboratore della Procura federale, dott. Fiorenza, non è stata espressa alcuna diretta percezione e/o conoscenza dell’accadimento contestato al deferito, né, tantomeno, sono stati raccolti ed evidenziati da quest’ultimo elementi di oggettivo e qualificato accertamento; più semplicemente, è stata evidenziata l’attività di indagine condotta dal medesimo collaboratore, il quale si è recato nello spogliatoio degli arbitri durante l’intervallo della gara e, invero, ha verificato che non sarebbe esistito alcun audio in grado di provare che la frase contestata fosse stata pronunciata.

Nel merito, il deferimento è infondato e, pertanto, va respinto.

Il tema della prevenzione e repressione dei comportamenti discriminatori nello sport e, per quanto più specificamente riguarda l’art. 28 del codice di giustizia sportiva, nel contesto delle competizioni calcistiche ha assunto, ormai da alcuni anni, una rilevanza centrale nell’ordinamento di settore, sospinto dalla progressiva consapevolezza che l’affermazione dei principi che presiedono all’attività sportiva non possa essere disgiunta dalla normalizzazione di condotte, ispirate ad una funzione di vero e proprio incivilimento, a giusto titolo richieste ai diretti protagonisti di tale attività, cioè ai calciatori, nonché ai dirigenti ed alle società sempre per perseguire un efficace contrasto al fenomeno della violenza negli stadi e, nel contempo, garantire la serena partecipazione del pubblico, complemento naturale ed essenziale di ogni evento.

Non a caso lo statuto delle Federazione prevede che “la FIGC promuove l’esclusione dal giuoco del calcio di ogni forma di discriminazione sociale, di razzismo, di xenofobia e di violenza” (art. 2, comma 5): una disposizione che evidenzia, in partenza, una finalità di ordine programmatico, ma che oggi sembra aver  trovato  proprio  nel predetto art. 28 una compiuta realizzazione.

Con palese intento di chiarificazione, espressione della naturale tensione dell’ordinamento dello sport – quale ordinamento di settore – a delimitare i confini applicativi della propria disciplina, il legislatore ha definito come comportamento discriminatorio “ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporta offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine etnica, condizione personale o sociale, ovvero configura propaganda ideologica vietata dalla legge o comunque inneggiante a comportamenti discriminatori” (comma 1).

L’art. 28 conferma l’avvenuto recupero di una tradizione giuridica di antica matrice, quella, cioè, propugnata dalla dottrina penalistica che ha individuato nella dignità umana il bene giuridico protetto; non è affatto sorprendente, pertanto, che anche alla disciplina delle competizioni calcistiche il legislatore abbia voluto imprimere un regime di doppia tutela, vale a dire:

a)  in funzione preventiva, prevedendosi al comma 6 che prima dell’inizio della gara la società ospitante avverta il pubblico “delle sanzioni previste a carico della stessa società in conseguenza a comportamenti discriminatori posti in essere da parte dei sostenitori”, costituite dall’ammenda  ai sensi dell’art. 8, comma 1 del codice di giustizia sportiva;

b) in funzione repressiva di comportamenti che, in quanto discriminatori, determinino una compromissione della personalità dell’uomo come singolo e come soggetto di comunità, in entrambi i casi ledendosi un patrimonio di valori fondamentali per motivi di “razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine etnica, condizione personale o sociale” o – alla stregua di una valutazione, certo più sofisticata ma, comunque, pienamente equiparata sul piano delle conseguenze sanzionatorie – per condotte che siano in grado di concorrere al dilagare di una cultura contraria al bene protetto sotto forma di “propaganda ideologica”.

Passando all’analisi delle condotte descritte dall’art. 28, il legislatore ha posto le definizioni di “offesa, denigrazione o insulto”.

Il riferimento all’offesa presenta caratteri peculiari e, dunque, di estremo interesse  in  relazione  alla considerazione della sua rilevanza oggettiva; si vuol dire, cioè, che l’art. 28 ha inteso concepire in termini di assolutezza l’idoneità discriminatoria del comportamento ai fini della configurazione dell’illecito, disancorandone l’entità dalla percezione soggettiva che, necessariamente o meno, possa averne avuto la persona o il gruppo leso dalla condotta.

Piuttosto, è sufficiente ad integrare l’illecito la manifesta sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie descritta nella norma e, sulla base di un nesso causale, la verificazione dell’effetto discriminatorio prodottosi direttamente o indirettamente, quindi anche sfuggendo dalla sfera intenzionale o di controllo del soggetto o del gruppo agente.

Il richiamo alla denigrazione è, invece, da collegare alla lesione della reputazione, dell’onore e del decoro del soggetto passivo del comportamento discriminatorio, ma, anche in questo caso, in una prospettiva oggettivizzata, vale a dire non secondo uno stato emotivo o un sentimento individuale, indipendente dal mondo esteriore: sicché deve verificarsi se l’aggressione al bene protetto sia stata rivolta al senso di dignità che  un  singolo  o  una comunità ha consolidato nell’opinione comune.

Da ultimo, il riferimento all’insulto allude alle modalità di espressione dell’azione  discriminatoria, venendo in rilievo, a tal riguardo, l’uso di espressioni ingiuriose (anche nella forma dell’antifrasi) o il porre in essere atti di spregio volgare, come ad esempio nel caso di “cori, grida e ogni altra manifestazione che siano, per dimensione e percezione reale del fenomeno, espressione di discriminazione”, come è possibile ricavare – sia pure in via di interpretazione implicita – dalla formulazione espressa al comma 4.

Dall’esame della disciplina trasfusa nell’art. 28 si evince, allora, che oltre alla necessaria esistenza di una condotta materiale qualificata  e tipica sia, altresì, necessaria l’oggettivizzazione  data da una percezione certa e diffusa dell’espressione discriminatoria.

Sotto tale aspetto, l’attività di indagine che ha condotto al deferimento evidenzia profili di evidente insufficienza probatoria.

Anzitutto, nessuno degli ufficiali di gara ha percepito la frase contestata e nessuna percezione vi è stata da parte del collaboratore della Procura federale.

Di contro, gli unici elementi oggetto di reale valutazione sono le dichiarazioni – di opposto tenore – rilasciate, in esito ad apposita audizione, da calciatori e dirigenti del Chievo Verona (in particolare, come si legge nell’atto di deferimento, dei signori Obi Joel Chukwuma, Luca Garritano e Marco Piacione), da un lato, e dal deferito sig. Marconi, dall’altro.

L’esistenza di un contrasto di versioni, tale da ingenerare notevole incertezza sull’effettiva commissione, o meno, dell’illecito oggetto del presente giudizio, ha determinato l’avvio dell’azione disciplinare, regolato dall’art. 118 del codice di giustizia sportiva, ove si prevede che “il Procuratore federale esercita in via esclusiva l’azione disciplinare nei confronti di tesserati, affiliati e degli altri soggetti legittimati quanto non sussistono i presupposti per l’archiviazione”.

Questa  permanente  incertezza  ha  pure,  con  ogni  evidenza,  precluso  che  la  Procura  federale  disponesse l’archiviazione ai sensi dell’art. 122 del codice di giustizia sportiva, con la conseguenza del disposto deferimento ai sensi del successivo art. 125.

Vanno, a questo punto, analizzate le singole dichiarazioni.

Il calciatore sig. Obi, destinatario diretto della presunta frase razzista, ha riferito che “dopo un rinvio del pallone, io ho  cercato  di  anticipare  il  giocatore  del  Pisa  Marconi  che  sopraggiungeva  alle  mie  spalle.  Quest'ultimo  ha commesso fallo su di me ed io, con l'arbitro vicino, ho chiesto la punizione a favore ma lui mi ha detto di continuare perché non c'era fallo. Subito dopo Marconi mi ha detto la frase “la rivolta degli schiavi”. Il mio compagno di squadra

Michele Rigione che era vicino, in quel momento si è rivolto a Marconi dicendogli: “come ti permetti”. Alla fine del primo tempo ho chiesto al team manager Pacione di intervenire e fare qualcosa e lui intanto mi ha calmato. Nel secondo tempo, in varie fasi della gara Marconi ha cercato di scusarsi con me ed i miei compagni dicendo che non era razzista e che aveva amici di colore. Io non ho accettato le sue scuse e così i compagni miei di squadra”; ma, a precisa domanda, lo stesso calciatore Obi ha dichiarato di non aver riferito nulla all’arbitro; e, ad ulteriore domanda, ha dichiarato di aver “capito e compreso la frase che mi è stata rivolta non subito perché concentrato sul prosieguo del gioco ma dopo poco ho metabolizzato il tutto”, pur affermando che la frase in questione gli sarebbe stata direttamente rivolta.

Ad avviso del Collegio, tale testimonianza esprime, però, elementi di confusione ed anche di contraddittorietà tra la rilevante  gravità  della  frase  e  la  poco  spiegabile  inerzia  nel  denunciare  tale  accadimento  al  direttore  di  gara presente in campo a pochi metri (avendo preferito, il calciatore Obi, rivolgersi al team manager della  propria squadra), né potendo valutarsi scusante la circostanza che la frase in questione non sarebbe stata immediatamente percepita dallo stesso interessato, ma soltanto “dopo poco”.

Senza contare – sempre sul piano dell’insufficienza probatoria – che un altro calciatore del Chievo (sig. Michele Rigione), il quale avrebbe direttamente sentito la frase in questione, non risulta essere stato neppure audito dalla Procura.

Parimenti insufficienti sono le indicazioni che provengono dall’audizione dell’altro calciatore del Chievo Verona, sig. Garritano.

Quest’ultimo ha riferito che “personalmente a fine primo tempo, insieme ai miei compagni, abbiamo chiesto al quarto uomo se avesse sentito e visto quello che era accaduto tra Marconi e Obi e la frase rivolta ma tale arbitro ci ha risposto negativamente dicendo che non aveva udito alcunché”; ma, sollecitato dagli inquirenti se, nel corso di una intervista, avesse fatto riferimento alla circostanza che l’arbitro avesse sentito la frase in questione, il calciatore ha risposto “non ricordo questo”, soggiungendo, però, “nell'audio di Dazn io ho sentito chiaramente la seguente frase: pensa un po’ la rivolta degli schiavi”: audio che, però, non risulta in alcun modo aver avallato tale assunto (anzi tale assunto risulta smentito in quanto nella propria relazione il dott. Fiorenza, collaboratore della Procura, ha attestato che “a fine gara con il collega Di Ponzio del controllo prova TV non sono emersi riscontri probatori tali da far segnalare l'evento ai fini di eventuali provvedimenti disciplinari").

Sempre il calciatore Garritano, interrogato circa la distanza alla quale si trovasse rispetto ai calciatori Obi e Marconi, non ha saputo rispondere, limitandosi a riferire “io la frase l'ho sentita in campo. Di certo il quarto uomo era quello più vicino ai giocatori”: ma il quarto uomo, com’è emerso dalla testimonianza del team manager del Chievo Verona, di cui meglio si dirà appresso, ha escluso di aver sentito alcunché.

Non decisive risultano, infatti, proprio le dichiarazioni del team manager sig. Pacione, il quale ha riferito che “alla fine del primo tempo, penso negli ultimi 5 minuti, io ero in panchina e a seguito di un contrasto tra Obi e Marconi abbiamo tutti distintamente sentito il giocatore del Pisa dire: “la rivolta degli schiavi”. A questo punto ci siamo alzati ed abbiamo tutti protestato. Si è trattato di una frase mai udita su di un campo di calcio o sugli spalti perché è una frase particolare e diversa dalle solite”; ma, sollecitato dagli inquirenti sulla certezza di poter confermare che la frase fosse stata rivolta al calciatore Obi direttamente dal calciatore Marconi, il sig. Pacione non ha dato alcuna risposta chiara, essendosi limitato ad una affermazione generica ed evasiva, inidonea a sostanziare una conferma dell’accaduto (“Io non conosco personalmente Marconi ma lo conosco professionalmente. È un giocatore di personalità ed è molto rappresentativo in campo. È uno che parla molto, si fa sentire e la sua voce è riconoscibile”); piuttosto, il team manager ha confermato che nella zona in cui si è verificato il contrasto di gioco non ci fossero altri giocatori e, per il resto, ha riferito le condotte che egli avrebbe posto in essere nei tempi immediatamente successivi (ossia aver segnalato la circostanza presuntamente occorsa al quarto uomo ed essersi adoperato per evitare che il clima della gara degenerasse) e dichiarando, infine, di aver appreso dal quarto uomo che quest’ultimo non avesse “sentito alcunché”.

Prive di rilevanza probatoria sono, altresì, le dichiarazioni del sig. Edoardo Busala, segretario del Chievo Verona, il quale ha riferito che “per la gara in questione io sedevo in tribuna. Alla fine del primo tempo sono sceso negli spogliatoi cercando l'addetto della Procura federale. Ho visto uscire la persona in questione dallo spogliatoio del

Pisa ed ho chiesto chiarimenti in merito all'episodio ed a tutto ciò accaduto successivamente”: si tratta, cioè, di dichiarazioni che attengono agli eventi successivamente verificatisi, ma non certo ad una diretta percezione della frase contestata.

Nel corso della propria audizione, infine, il calciatore Marconi ha dichiarato: “Non ho assolutamente proferito detta frase e vorrei evidenziare che sono io che ho subito il fallo e sempre io a rivolgermi all'arbitro per ottenere una punizione a favore della mia squadra. In quell'occasione ho sentito un grande urlo in riferimento alla mia richiesta di fallo e parlando con l'arbitro e riferendomi ai giocatori del Chievo, ho invece proferito una frase che mi pare possa essere stata: "Cosa vogliano questi scarsi di merda, che cazzo parlano". Escludo assolutamente di poter anche solo aver pensato di dire una frase del genere anche perché il mio testimone di nozze è un ragazzo di colore e la moglie di lui è la segretaria di mia moglie. Il ragazzo di colore cui mi riferisco, fra l'altro è stato anche il padrino di mio figlio. Inoltre frequento persone di colore”; ad ulteriore domanda, lo stesso calciatore ha affermato di non essersi scusato non avendone avuto motivo.

Alla luce di quanto rilevato, il Collegio è dell’avviso che non siano stati raggiunti sufficienti elementi probatori che rendano non solo manifesto, ma neppure verosimile, il comportamento discriminatorio sostanziato dalla  frase razzista attribuita al calciatore Marconi.

Né l’intrinseca gravità di una frase razzista potrebbe giustificare la deroga al basilare principio di prova che governa anche l’odierno procedimento disciplinare.

In totale difetto di prove oggettive e palesi, una diversa conclusione – da fondarsi a questo punto su elementi indiziari, ma che almeno debbano essere chiari, precisi e concordanti – avrebbe presupposto, come minimo, la linearità, coerenza ed esaustività delle dichiarazioni raccolte dalla Procura.

Ma la giurisprudenza ha chiaramente enucleato i principi che regolano la prova indiziaria, sottolineando “che il procedimento  indiziario  deve  muovere  da  premesse  certe,  nel  senso  che  devono  corrispondere  a  circostanze fattuali non dubbie e, quindi, non consistere in mere ipotesi o congetture ovvero in giudizi di verosimiglianza (Sez. 4, n. 2967 del 25 gennaio 1993; Sez. 2, n. 43923 del 28 ottobre 2009)” (cfr. Corte di Cassazione, 17 giugno 2019, n. 26604).

Nella specie, la soglia minima non è stata raggiunta.Le testimonianze a carico del deferito, infatti, hanno  semplicemente adombrato una condotta discriminatoria, senza però contribuire in alcun modo al suo concreto accertamento.In conclusione, il deferimento va respinto.

P.Q.M.

Il Tribunale Federale Nazionale – sezione disciplinare,
l’esito della camera di consiglio, definitivamente pronunciando sul deferimento (n. 8862/448pf20-21/GC/blp dell’8 febbraio 2021), lo respinge.

Così deciso nella camera di consiglio del 3 marzo 2021 tenuta in modalità videoconferenza, come da Decreto del Presidente del Tribunale Federale Nazionale n. 10 del 18 maggio 2020.

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