F.I.G.C. – TRIBUNALE FEDERALE NAZIONALE – Sezione Disciplinare – 2020/2021 – figc.it – atto non ufficiale – DECISIONE N. 149/TFN del 18.5.2021 – (Deferimento n. 11011/495 pf20-21/GC/gb del 16.4.2021 nei confronti del sig. Santini Claudio – Reg. Prot. 126/TFN-SD) Decisione n. 149/TFN-SD 2020/2021 Deferimento n. 11011/495 pf20-21/GC/gb del 16 aprile 2021 Reg. Prot. 126/TFN-SD
Decisione n. 149/TFN-SD 2020/2021
Deferimento n. 11011/495 pf20-21/GC/gb del 16 aprile 2021
Reg. Prot. 126/TFN-SD
Il Tribunale Federale Nazionale – Sezione Disciplinare, composto da
cons. Nicola Durante – Presidente;
cons. Angelo Fanizza – Componente (Relatore);
avv. Maurizio Lascioli – Componente;
dott. Paolo Fabricatore – Rappresentante AIA;
ha pronunciato nella riunione fissata il giorno 11 maggio 2021, a seguito del Deferimento del Procuratore Federale n. 11011/495 pf20-21/GC/gb del 16 aprile 2021 nei confronti del sig. Santini Claudio,
la seguente
DECISIONE
Il deferimento Con nota Prot. 11011/495pf20-21/GC/gb del 16 aprile 2021 la Procura federale ha deferito al Tribunale federale nazionale - sezione disciplinare il sig. Claudio Santini, calciatore del Calcio Padova, per violazione degli artt. 4, comma 1, e 28, commi 1 e 2, del Codice di Giustizia Sportiva, per violazione dei doveri di lealtà, probità e correttezza, per avere, durante la partita Sambenedettese-Padova del 17 gennaio 2021, utilizzato parole di contenuto discriminatorio e denigratorio per motivi di razza nei confronti del calciatore Shaka Mawuli, tesserato della Sambenedettese, proferendo le seguenti parole “nero di merda”.
In estrema sintesi è accaduto che durante il secondo tempo della partita sopra indicata il calciatore deferito avrebbe pronunciato l’espressione discriminatoria nel corso di un’azione di gioco e che, nelle immediate vicinanze vi sarebbe stato un altro calciatore della Sambenedettese e, poco più distante, l’arbitro della gara.
L’evidenza dell’episodio è stata originata da una intervista resa dal sig. Giovanni Improta ad una emittente televisiva (trasmissione “Cuore di Calcio” in onda su VeraTv in data 19 gennaio 2021), ripresa dal Corriere dello Sport del 20 gennaio 2021.
Nel corso del procedimento sono stati auditi dalla Procura federale il sig. Giovanni Improta, direttore tecnico della Sambenedettese; il sig. Domenico Serafino, presidente della Sambenedettese; il calciatore della Sambenedettese calciatore Mawuli Shaka Eklu; il calciatore della Sambenedettese (poi transitato nella società Lecco 1912) Patrizio Masini; il calciatore del Calcio Padova Claudio Santini, dopo aver chiesto di essere audito (22 marzo 2021) ha rinunciato a tale audizione (14 aprile 2021). Nel corso del procedimento il deferito ha depositato una memoria nella quale ha opposto di non aver proferito alcuna frase razzista e che l’accertamento della sua responsabilità, da parte degli organi della Procura federale, non sarebbe sorretto da valido supporto probatorio.
Le parti sono state convocate per l’udienza dell’11 maggio 2021.
Il procedimento
All’udienza dell’11 maggio 2021 il rappresentante della Procura federale, avv. Giorgio Ricciardi, dopo aver illustrato il deferimento, ne ha chiesto l’accoglimento e, per l’effetto, l’irrogazione delle seguenti sanzioni: per il calciatore sig. Claudio Santini 10 (dieci) giornate di squalifica.
Si è, inoltre, effettuata l’audizione del deferito, sig. Claudio Santini, e della Presidente del Padova Calcio. Il difensore del deferito ha formulato richieste istruttorie, alle quali il rappresentante della Procura federale si è opposto.
La causa è stata, pertanto, trattenuta in decisione.
Motivi della decisione
Preliminarmente, vanno esaminate le richieste istruttorie proposte dal deferito, nel dettaglio relative all’audizione dell’arbitro della partita Sambenedettese-Padova e del calciatore del Padova Simone Della Latta.
Tali richieste sono inammissibili.
Ai sensi dell’art. 60 CGS (rubricato “testimonianza”) dispone, al comma 2, che “le parti possono richiedere l’ammissione di prove testimoniali, indicando, a pena di inammissibilità, i dati di individuazione e di recapito dei medesimi nonché i capitoli di prova. I testimoni sono convocati a cura e spese delle parti che ne fanno istanza, previa ammissione degli stessi da parte dell’organo di giustizia”; non dissimilmente il successivo art. 114 (rubricato “procedimento innanzi al Tribunale federale”) prevede, al comma 4, che “le istanze di ammissione dei testimoni devono indicare, a pena di inammissibilità, i dati di individuazione e di recapito dei medesimi nonché i capitoli di prova. I testimoni sono convocati a cura e spese delle parti che ne fanno istanza”.
La puntualità di tali previsioni – nel senso della specificazione, sotto comminatoria di inammissibilità, non soltanto dei dati di identificazione dei testimoni ma, soprattutto, dei capitoli di prova – trova il proprio fondamento nella necessità di una preventiva circoscrizione dell’ambito oggettuale dell’attività istruttoria, in difetto della quale l’ammissione dei testi è preclusa poiché, diversamente opinando, tale incombente finirebbe per acquisire un’ampiezza indeterminata ed una connotazione esplorativa, ledendo il diritto di difesa, la parità delle armi e il contraddittorio, insomma i principi del giusto processo delineati, anche in materia sportiva, dall’art. 44 CGS.
Neppure si ravvisano i presupposti per disporre tale testimonianza d’ufficio.
L’art. 60, comma 1 CGS, infatti, contestualizza l’esercizio di tale potere “quando, dal materiale acquisito, emerga la necessità di provvedere in tal senso”.
Tale disposizione, quindi, prefigura una situazione di precarietà probatoria che, però, nella specie non si registra. Senza contare che la testimonianza dell’arbitro non sarebbe, comunque, decisiva ai fini del decidere, risultando evidente che se tale soggetto avesse percepito la frase razzista si sarebbe certamente regolato di conseguenza. Ma il non averla percepita non costituisce, di per sé, circostanza automaticamente neutralizzante i riscontri probatori sui quali la Procura ha fondato il deferimento.
Pari irrilevanza va, in ultimo, attribuita alla testimonianza del calciatore Simone Della Latta, al quale il calciatore Mawuli, al termine della gara, avrebbe raccontato lo spiacevole episodio e che, riferendosi al calciatore Santini, avrebbe proferito la frase “Lascialo stare quello è comunista”. Un accadimento idoneo, al più, a sostanziare una sdrammatizzazione postuma dell’accadimento, ma che non qualifica la posizione del predetto calciatore in punto di attendibilità sull’accertamento dei fatti.
Tanto precisato, il deferimento è fondato e, pertanto, va accolto.
Il tema della prevenzione e repressione dei comportamenti discriminatori nello sport e, per quanto più specificamente riguarda l’art. 28 del codice di giustizia sportiva, nel contesto delle competizioni calcistiche ha assunto, ormai da alcuni anni, una rilevanza centrale nell’ordinamento di settore, sospinto dalla progressiva consapevolezza che l’affermazione dei principi che presiedono all’attività sportiva non possa essere disgiunta dalla normalizzazione di condotte, ispirate ad una funzione di vero e proprio incivilimento, a giusto titolo richieste ai diretti protagonisti di tale attività, cioè ai calciatori, nonché ai dirigenti ed alle società sempre per perseguire un efficace contrasto al fenomeno della violenza negli stadi e, nel contempo, garantire la serena partecipazione del pubblico, complemento naturale ed essenziale di ogni evento.
Non a caso lo statuto delle Federazione prevede che “la FIGC promuove l’esclusione dal giuoco del calcio di ogni forma di discriminazione sociale, di razzismo, di xenofobia e di violenza” (art. 2, comma 5): una disposizione che evidenzia, in partenza, una finalità di ordine programmatico, ma che oggi sembra aver trovato proprio nel predetto art. 28 una compiuta realizzazione.
Con palese intento di chiarificazione, espressione della naturale tensione dell’ordinamento dello sport – quale ordinamento di settore – a delimitare i confini applicativi della propria disciplina, il legislatore ha definito come comportamento discriminatorio “ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporta offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine etnica, condizione personale o sociale, ovvero configura propaganda ideologica vietata dalla legge o comunque inneggiante a comportamenti discriminatori” (comma 1).
L’art. 28 conferma l’avvenuto recupero di una tradizione giuridica di antica matrice, quella, cioè, propugnata dalla dottrina penalistica che ha individuato nella dignità umana il bene giuridico protetto; non è affatto sorprendente, pertanto, che anche alla disciplina delle competizioni calcistiche il legislatore abbia voluto imprimere un regime di doppia tutela, vale a dire:
a) in funzione preventiva, prevedendosi al comma 6 che prima dell’inizio della gara la società ospitante avverta il pubblico “delle sanzioni previste a carico della stessa società in conseguenza a comportamenti discriminatori posti in essere da parte dei sostenitori”, costituite dall’ammenda ai sensi dell’art. 8, comma 1 del codice di giustizia sportiva;
b) in funzione repressiva di comportamenti che, in quanto discriminatori, determinino una compromissione della personalità dell’uomo come singolo e come soggetto di comunità, in entrambi i casi ledendosi un patrimonio di valori fondamentali per motivi di “razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine etnica, condizione personale o sociale” o – alla stregua di una valutazione, certo più sofisticata ma, comunque, pienamente equiparata sul piano delle conseguenze sanzionatorie – per condotte che siano in grado di concorrere al dilagare di una cultura contraria al bene protetto sotto forma di “propaganda ideologica”.
Passando all’analisi delle condotte descritte dall’art. 28, il legislatore ha posto le definizioni di “offesa, denigrazione o insulto”.
Il riferimento all’offesa presenta caratteri peculiari e, dunque, di estremo interesse in relazione alla considerazione della sua rilevanza oggettiva; si vuol dire, cioè, che l’art. 28 ha inteso concepire in termini di assolutezza l’idoneità discriminatoria del comportamento ai fini della configurazione dell’illecito, disancorandone l’entità dalla percezione soggettiva che, necessariamente o meno, possa averne avuto la persona o il gruppo leso dalla condotta.
Piuttosto, è sufficiente ad integrare l’illecito la manifesta sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie descritta nella norma e, sulla base di un nesso causale, la verificazione dell’effetto discriminatorio prodottosi direttamente o indirettamente, quindi anche sfuggendo dalla sfera intenzionale o di controllo del soggetto o del gruppo agente.
Il richiamo alla denigrazione è, invece, da collegare alla lesione della reputazione, dell’onore e del decoro del soggetto passivo del comportamento discriminatorio, ma, anche in questo caso, in una prospettiva oggettivizzata, vale a dire non secondo uno stato emotivo o un sentimento individuale, indipendente dal mondo esteriore: sicché deve verificarsi se l’aggressione al bene protetto sia stata rivolta al senso di dignità che un singolo o una comunità ha consolidato nell’opinione comune.
Da ultimo, il riferimento all’insulto allude alle modalità di espressione dell’azione discriminatoria, venendo in rilievo, a tal riguardo, l’uso di espressioni ingiuriose (anche nella forma dell’antifrasi) o il porre in essere atti di spregio volgare, come ad esempio nel caso di “cori, grida e ogni altra manifestazione che siano, per dimensione e percezione reale del fenomeno, espressione di discriminazione”, come è possibile ricavare – sia pure in via di interpretazione implicita – dalla formulazione espressa al comma 4.
Dall’esame della disciplina trasfusa nell’art. 28 si evince, allora, che oltre alla necessaria esistenza di una condotta materiale qualificata e tipica sia, altresì, necessaria l’oggettivizzazione data da una percezione certa e diffusa dell’espressione discriminatoria.
Sotto tale aspetto, l’attività di indagine che ha condotto al deferimento è pervenuta a risultanze che depongono per la sufficienza probatoria.
Ad avviso del Tribunale hanno rilevanza dirimente:
1) la dichiarazione del calciatore destinatario dell’insulto razzista, Mawuli Shaka Eklu, il quale nel corso dell’audizione ha specificato di comprendere la lingua italiana (“sono 6 anni che sono in Italia e comprendo bene l’italiano”); ha circostanziato l’episodio (“il calciatore detta Società Padova che ha proferito la frase "nero di merda" è il numero 7 Santini Claudio”; ed ancora: “mi ha proferito l’insulto raziale dopo un normale contrasto di gioco”); ha precisato di essersi attivato presso il direttore di gara sia nell’immediatezza dell’accaduto (“mi recavo verso l’arbitro che era a circa 2/5 metri da me per rappresentargli il fatto”) ed il conseguente riscontro del direttore di gara alla predetta sollecitazione (“lui mi rispondeva "vedi di non inventarti le cose””), nonché l’attivazione del calciatore offeso anche dopo la fine della gara (“specifico che al termine della gara tentavo di parlare con l’arbitro il quale senza ascoltarmi mi invitava in maniera perentoria, con il gesto della mano, a rientrare negli spogliatoi”); ha fornito elementi di riscontro all’accaduto (“avevo vicino un mio compagno di squadra Patrizio Masini (oggi al Lecco) che udiva l’insulto razziale”; ed ancora: “la frase è sfata udita dal mio compagno sopra citato e nessun altro”);
2) la dichiarazione del calciatore Patrizio Masini, in forza alla Sambenedettese all’epoca dei fatti, il quale ha confermato di aver ascoltato l’offesa perpetrata nei confronti del calciatore Mawuli Shaka Eklu (“non ricordo esattamente chi abbia proferito la frase. Ma rammento che si trattava di un calciatore calvo subentrato ad un titolare nel secondo tempo della gara”); ha, nel corso dell’audizione, identificato fotograficamente il calciatore Claudio Santini; ha offerto elementi di certezza circa l’accaduto (“Si, confermo senza ombra di dubbio”); ha offerto, altresì, elementi di riscontro fattuale dell’accaduto (“ricordo che si trattò di un normale contrasto di gioco”); ha precisato la posizione dell’arbitro (“ricordo che l'arbitro era nei pressi dell'azione di gioco. A memoria la distanza rispetto al luogo del fatto era di circa 3-4 metri”), nel contempo esprimendo una valutazione sulla percepibilità dell’insulto da parte del direttore di gara (“non credo che possa avere ascoltato la frase nessun altro in quanto in quella di zona di campo eravamo presenti noi tre ovvero me medesimo e gli altri due calciatori”).
Le due dichiarazioni, sopra illustrate, evidenziano elementi di piena congruenza sul contesto in cui si è verificato il fatto (contrasto di gioco; posizionamento dei calciatori; posizionamento del direttore di gara), ma, soprattutto, sulla inequivocità dell’insulto e sulla certezza che fosse stato proferito dal calciatore Claudio Santini nei confronti del calciatore Mawuli Shaka Eklu.
Non hanno, di contro, efficacia dirimente le dichiarazioni del direttore tecnico della Sambenedettese, sig. Giovanni Improta, né quelle del presidente della medesima società, sig. Domenico Serafino, trattandosi di testimonianze indirette di fatti appresi de relato.
Nondimeno, a fronte di una piena corrispondenza di elementi qualificanti, riscontrabile nelle dichiarazioni del calciatore offeso Mawuli Shaka Eklu e del suo compagno Patrizio Masini, dall’audizione – in occasione della riunione dell’11 maggio 2021 – del deferito non sono emersi elementi di discarico rispetto alla contestazione mossa dalla Procura Federale.
Invero, il calciatore Santini, per autonome valutazioni che non ha neppure motivato, ha rinunciato alla propria audizione (mail del 14 aprile 2021) dopo averla espressamente chiesta (mail del 22 marzo 2021), salvo da ultimo opporre – con singolare e per certi versi paradossale inversione di rotta nella memoria depositata dal suo difensore in data 10 maggio 2021 – di non essere stato convocato dalla Procura in fase di indagine (cfr. pag. 5). E che, in ogni caso, ha potuto illustrare con pienezza il proprio punti di vista nel corso della riunione dell’11 maggio 2021.
Piuttosto, il punto capitale è nella considerazione che la testimonianza, assai circostanziata, del calciatore Masini ha pienamente avallato la versione fornita dal calciatore Mawuli, né potendo ritenersi verosimile che l’episodio di gioco evocato dal calciatore Santini (uno scambio di strattoni tra quest’ultimo e il Masini in area di rigore, senza che, però, a tale accadimento avesse fatto seguito l’adozione di decisioni arbitrali di qualsiasi genere) abbia determinato un risentimento tale da tradursi in una malevola ripicca sostanziatasi in una falsa testimonianza confermativa dell’insulto razzista oggetto del contendere.
Si vuol dire, in altri termini, che il deferito non ha allegato in giudizio il movente che avrebbe indotto il calciatore Masini ad accusarlo ingiustamente, tutto ciò restando, quindi, sul malfermo piano di congetture che non possono prevalere sulle risultanze, se non proprio sulle evidenze, dell’attività inquirente.
Il quadro emerso dall’indagine, quindi, consolida la prova del fatto contestato, nel senso che, a prescindere dalla condotta tenuta dal direttore di gara (il quale avrebbe risposto al calciatore offeso “non inventarti le cose” ed anche alla fine della partita avrebbe tenuto una condotta liquidatoria dell’accaduto), occorre considerare che è proprio la consonanza delle versioni ad aver determinato l’avvio dell’azione disciplinare, regolato dall’art. 118 del codice di giustizia sportiva, ove si prevede che “il Procuratore federale esercita in via esclusiva l’azione disciplinare nei confronti di tesserati, affiliati e degli altri soggetti legittimati quanto non sussistono i presupposti per l’archiviazione”.
La definitezza del quadro delle dichiarazioni assunte in sede di audizione, perciò, ha precluso che la Procura federale disponesse l’archiviazione ai sensi dell’art. 122 del codice di giustizia sportiva, con la conseguenza del disposto deferimento ai sensi del successivo art. 125.
Dunque, nella specie non rileva soltanto l’intrinseca gravità della frase razzista, ma le prove oggettive – indotte da elementi indiziari di tenore chiaro, preciso e concordante – raccolte dalla Procura. A tal proposito, la giurisprudenza ha enucleato i principi che regolano la prova indiziaria, sottolineando “che il procedimento indiziario deve muovere da premesse certe, nel senso che devono corrispondere a circostanze fattuali non dubbie e, quindi, non consistere in mere ipotesi o congetture ovvero in giudizi di verosimiglianza (Sez. 4, n. 2967 del 25/01/1993; Sez. 2, n. 43923 del 28/10/2009)” (cfr. Corte di Cassazione, 17 giugno 2019, n. 26604).
Nella specie, la soglia minima è stata raggiunta. Le testimonianze a carico del deferito, quindi, depongono per il consolidamento di una condotta discriminatoria sufficientemente accertata. In conclusione, il deferimento va accolto.
P.Q.M.
Il Tribunale Federale Nazionale – Sezione Disciplinare,
all’esito della Camera di consiglio, accoglie il deferimento e, per l’effetto, dispone l’applicazione della sanzione di 10 (dieci) giornate di squalifica, da scontarsi in gare ufficiali, nei confronti del sig. Santini Claudio.
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