T.A.R. LAZIO SEDE DI ROMA – SEZIONE PRIMA – SENTENZA DEL 12/08/2022 N. 11169
Pubblicato il 12/08/2022
N. 11169/2022 REG.PROV.COLL.
N. 12323/2021 REG.RIC.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Ter)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 12323 del 2021, proposto da-OMISSIS- rappresentato e difeso dagli avvocati Enrico Lubrano, Filippo Lubrano, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Enrico Lubrano in Roma, via Flaminia 79;
contro
C.O.N.I., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Alberto Angeletti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
a)Richiesta di inibire alla -OMISSIS- ogni ulteriore attività di invio di comunicazioni a terzi, che, per le ragioni sopra esposte, potrebbe comportare la produzione di altro pregiudizio nei confronti dello stesso ricorrente;
b)Richiesta di condanna della -OMISSIS-al risarcimento del danno arrecato al dott. -OMISSIS-a causa delle comunicazioni effettuate dal -OMISSIS-e delle conseguenti determinazioni assunte dalle -OMISSIS-, che hanno sospeso l'attività del dott. -OMISSIS-
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di C.O.N.I.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 luglio 2022 il dott. Luigi Furno e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con ricorso regolarmente notificato e depositato, l’odierno ricorrente ha chiesto, - previo accertamento del carattere illegittimo delle condotte tenute dalla -OMISSIS-– di volere:
I) in sede cautelare (e poi successivamente, anche in sede di merito), inibire alla -OMISSIS- ogni ulteriore attività di invio di comunicazioni a terzi, che, per le ragioni sopra esposte, potrebbe comportare la produzione di altro pregiudizio nei confronti dello stesso ricorrente:
II) in sede di merito, previo accertamento della illegittimità del contegno assunto dalla -OMISSIS-, la condanna di quest’ultima al risarcimento del danni arrecati a seguito delle comunicazioni effettuate dal -OMISSIS-alle strutture -OMISSIS-, e delle conseguenti determinazioni assunte da queste ultime strutture, che hanno sospeso l'attività del ricorrente.
Si è costituito in resistenza nel presente giudizio il C.O.N.I, chiedendo il rigetto del ricorso in quanto ritenuto infondato.
In data 28 gennaio 2022 questo Collegio ha respinto la domanda cautelare.
Con la decisione numero -OMISSIS-, il Consiglio di Stato ha disposto , ai sensi dell'art. 55, comma 10, C.P.A., la sollecita fissazione dell'udienza per la trattazione del ricorso.
In vista dell’udienza del 19 luglio 2022 tutte le parti hanno depositato memorie con le quali hanno ulteriormente arricchito le argomentazioni poste a sostegno delle rispettive posizioni.
All’udienza del 19 luglio 2022 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
Per una migliore comprensione della presente decisione, appare opportuno ricostruire, sulla base degli atti versati nel presente giudizio, il quadro fattuale da cui prendono le mosse i provvedimenti impugnati nel presente procedimento.
All’esito delle indagini svolte dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di -OMISSIS-, avviate a seguito del decesso di un giovane ciclista, la -OMISSIS-deferiva l’odierno ricorrente dinanzi al -OMISSIS-per la violazione degli artt. 2.7, 2.8, 2.9 e 3.2 delle Norme Sportive Antidoping.
L’assunto accusatorio mirava a dimostrare il coinvolgimento dell’odierno ricorrente nelle pratiche dopanti compiute dai componenti di una squadra ciclistica e da altri ciclisti dilettanti.
A conclusione del relativo giudizio, il -OMISSIS-riteneva provate le violazioni, da parte dell’odierno ricorrente, degli artt. 2.9 e 3.2. delle Norme Sportive Antidoping, in particolare ritenendolo responsabile di aver fornito assistenza ad atleti, in violazione della normativa di settore antidoping.
Per tali ragioni il -OMISSIS-, con decisione n. -OMISSIS-, infliggeva al ricorrente la sanzione dell’inibizione per anni -OMISSIS-
La condanna passava in cosa giudicata all’esito della successiva decisione di conferma n. -OMISSIS-da parte della -OMISSIS-
Successivamente la -OMISSIS-riceveva una comunicazione dalla Federazione Ciclistica Italiana con la quale si segnalava il rilascio da parte del ricorrente di certificati di idoneità sportiva nei confronti di vari atleti.
A seguito di accertamenti finalizzati a riscontrare il contenuto della predetta segnalazione, la -OMISSIS-contestava al ricorrente la violazione dell’art. 11.14 del Codice Sportivo Antidoping per aver svolto attività vietata in costanza di inibizione.
Tale contestazione veniva integrata a seguito della ricezione di una ulteriore segnalazione inviata, in data -OMISSIS-ed inerente agli accertamenti eseguiti presso le strutture sanitarie -OMISSIS-, e ai successivi riscontri effettuati presso alcune associazioni sportive, mediante l’audizione a campione di alcuni atleti.
Da tali ulteriori accertamenti emergeva, in particolare, che il ricorrente aveva rilasciato ad alcuni atleti certificati di idoneità sportiva agonistica.
Quest’ultima segnalazione veniva trasmessa anche alla Procura della Repubblica presso il Tribunale-OMISSIS-.
Sulla base di tali presupposti fattuali, il -OMISSIS-provvedeva ad informare le strutture sanitarie presso le quali il ricorrente lavorava del fatto che a quest’ultimo, in ragione della inibizione inflittagli dalla giustizia antidoping, era vietato intrattenere rapporti professionali con atleti tesserati presso Federazioni e Discipline Sportive Associate.
Analoga iniziativa informativa veniva intrapresa dal -OMISSIS-anche nei confronti dei tesserati che avevano ottenuto certificati di idoneità sportiva agonistica dal ricorrente.
Le predette missive si incaricavano anche di evidenziare le gravi conseguenze cui, sotto il profilo della normativa di settore antidoping, le strutture sanitarie e gli atleti-tesserati sarebbero andati incontro, nel caso in cui avessero continuato ad avvalersi del ricorrente ai fini del rilascio di certificati di idoneità sportiva da utilizzare nell’ambito di competizioni sportive agonistiche.
Orbene, il ricorrente nel presente procedimento assume l’illegittimità di tali, a suo dire, minatorie missive, in quanto asseritamente adottate dalla -OMISSIS-al di fuori del perimetro delle proprie competenze.
A tali missive, nella prospettiva del ricorrente, sarebbero riconducibili, sotto il profilo causale, i successivi provvedimenti con i quali le predette strutture sanitarie hanno deciso di recidere il rapporto di lavoro professionale con il ricorrente, causandogli rilevanti danni sotto il profilo patrimoniale e non patrimoniale (cfr. la perizia medica prodotta agli atti del presente procedimento).
Sulla base di tali ragioni, l’odierno ricorrente nel presente giudizio chiede la inibizione al -OMISSIS-di ogni ulteriore attività di invio di comunicazioni a terzi che, per le ragioni esposte, potrebbe comportare la produzione di un pregiudizio nei confronti del ricorrente oltre al risarcimento dei danni patiti.
Le censure formulate dal ricorrente sono infondate.
Come noto, l’organizzazione per la lotta al doping è caratterizzata da un complesso sistema governato da specifiche norme internazionali recepite dallo Stato Italiano con la L. n. 230/2007.
Al vertice di tale sistema è posta la WADA, acronimo di World Anti-Doping Agency, dalla quale derivano funzionalmente le Organizzazioni Nazionali Antidoping istituite dagli Stati aderenti alla Convenzione Internazionale contro il Doping, adottata a Parigi il 19.10.05 dalla Conferenza Generale dell’UNESCO, cui l’Italia ha aderito, con la citata L. n. 230/07.
Ai sensi degli artt. 3 e ss. della Convenzione Internazionale contro il Doping, lo Stato Italiano si è impegnato ad adottare misure adeguate a livello nazionale e internazionale conformi ai principi sanciti dal Codice Mondiale Antidoping adottato dalla WADA, nonché a garantire l’applicazione della Convenzione e ad adempiere ai propri obblighi mediante apposite organizzazioni Antidoping.
In esecuzione della predetta Convenzione è stata istituita, con la legge 26.11.2007 n. 230 NADO-Italia, ovvero l’Organizzazione Nazionale Antidoping, derivazione funzionale della Agenzia Mondiale Antidoping/WADA.
Il Codice Sportivo Antidoping è stato adottato da NADO Italia in applicazione del Codice Mondiale Antidoping (Codice WADA).
Per quanto più propriamente rileva nel presente giudizio, l’art. 11.14 del Codice Sportivo Antidoping recante il titolo “Status durante la squalifica o la sospensione cautelare” dispone al paragrafo 1 che “nessun Atleta o altra Persona squalificata o soggetta a sospensione cautelare può partecipare a qualsiasi titolo, per tutto il periodo di squalifica o di sospensione cautelare, ad una competizione o ad un’attività (con l’eccezione dei programmi di formazione antidoping e riabilitazione autorizzati da NADO Italia) che sia autorizzata o organizzata da un Firmatario del Codice WADA, da un’organizzazione ad esso affiliata, da una società o altra organizzazione affiliata ad un’organizzazione affiliata a un Firmatario, oppure a competizioni autorizzate o organizzate da una lega professionistica o da una qualsiasi organizzazione di eventi sportivi a livello nazionale o internazionale, o qualsiasi attività sportiva agonistica di alto livello o di livello nazionale finanziata da un ente governativo”.
Correlativamente l’art. 2 del Codice Sportivo Antidoping inserisce tra le violazioni della normativa sportiva antidoping il “Divieto di associazione da parte di un Atleta o Altra Persona” (art. 2.10) disponendo, in particolare, che:
“2.10.1 L’associazione da parte di un Atleta o Altra Persona soggetta all’autorità di un’Organizzazione antidoping, in veste professionale o in altra veste sportiva, con una Persona a supporto dell’Atleta che:
2.10.1.1 se soggetta all’autorità di un’Organizzazione antidoping, stia scontando un periodo di squalifica, oppure
2.10.1.2 se non soggetta all’autorità di un’Organizzazione antidoping, e nel caso in cui la squalifica non sia stata trattata nell’ambito della procedura di gestione dei risultati ai sensi del Codice WADA, sia stata condannata o ritenuta colpevole solo nell’ambito di un procedimento penale, disciplinare o professionale per aver assunto una condotta che costituisca violazione della normativa antidoping se siano state applicate a tale Persona norme conformi al Codice WADA. Lo stato di squalifica di tale persona sarà valido per un periodo non superiore a sei (6) anni dalla decisione in sede penale, professionale o disciplinare ovvero per la durata della sanzione penale, disciplinare o professionale; oppure
2.10.1.3 funga da copertura o da intermediario per un soggetto descritto all’articolo 2.10.1.1 oppure
2.10.2 Per configurarsi una violazione dell’articolo 2.10, un’Organizzazione antidoping deve stabilire che l’Atleta o altra Persona siano a conoscenza dello stato di squalifica della Persona di supporto dell’Atleta.
Spetta all’Atleta o ad altra Persona stabilire che qualsiasi associazione con una Persona di Supporto all’Atleta descritta all’articolo 2.10.1.1 o 2.10.1.2 non sia a titolo professionale o sportivo e/o che tale associazione non avrebbe potuto essere ragionevolmente evitata.
Le Organizzazioni Anti-Doping che siano a conoscenza di Personale di Supporto dell’Atleta che soddisfi i criteri descritti all’articolo 2.10.1.1, 2.10.1.2, o 2.10.1.3 devono fornire tali informazioni alla WADA”.
Sulla base di un’interpretazione meramente letterale delle richiamate disposizioni, risulta del tutto plausibile che la persona di supporto dell’atleta professionista possa essere individuata nel medico sportivo che in suo favore rilascia certificati di idoneità sportiva.
Quanto poi alla locuzione “associazione” di un’atleta a una persona posta a suo supporto, non appare condivisibile l’argomento, evidenziato dalla parte ricorrente, secondo cui per associazione deve necessariamente intendersi un’attività organizzata di almeno tre persone verso la realizzazione di fini comuni, essendo piuttosto quest’ultimo il significato che tale termine assume in relazione ad un particolare istituto giuridico presente nell’ordinamento penale, vale a dire l’ associazione per delinquere.
Al di fuori di questo ambito, il termine associazione non presenta sempre lo stesso significato.
Come la più autorevole dottrina non ha mancato di evidenziare, la Costituzione non fornisce all'interprete una definizione del concetto di associazione, attenendosi in tal modo alla tradizione della dottrina pubblicistica italiana.
Il concetto di associazione, lato sensu inteso, comprende come genus le species costituite dalle corporazioni, dalle istituzioni, dagli enti, dalle società civili e commerciali, dagli istituti, da molti corpi morali, dai consorzi, dagli ordini professionali e religiosi, dalle confraternite e così via. In tutti questi casi, l'elemento distintivo, materiale e spirituale, è dato dalla circostanza che più persone decidano di svolgere insieme una data attività.
Occorre dunque, in primo luogo, che vi sia una collettività composta da due o più individui, così come accade nel fenomeno corporativo. Gli individui possono mutare e mutano, senza che l'associazione subisca alcun mutamento di sua parte. Qualcuno classifica perciò l'associazione fra le situazioni soggettive collettive, differenziate, cioè riferibili a formazioni particolari, identificate o identificabili, aventi la loro base nel principio di solidarietà fra gli uomini, e irriducibili allo Stato. In tal modo, secondo un'altra esatta notazione, tali collettività si distinguono dalle classi di individui, mera nozione di comodo volta a indicare particolari tipi di soggetti individuali, contraddistinti da talune caratteristiche comuni, mentre il concetto di associazione presuppone da un lato un rapporto giuridico fra i singoli individui che vi partecipano e dall'altro la rilevanza, e quindi la protezione, di interessi esistenti negli individui in quanto raggruppati.
Non occorre, secondo la più accreditata dottrina, che le collettività di cui parliamo abbiano un carattere di stabilità.
Coloro che ritengono che tale elemento sia essenziale perché possa parlarsi di associazione, sottolineano come solo il vincolo permanente fra i soci dia il carattere di continuità e di organicità, tipico dell'associazione; altri, pure nello stesso ordine di idee, parlano di «unione duratura» fra più persone.
Siffatti argomenti, come è stato attentamente rilevato in dottrina, peccano di una evidente petizione di principio: perché né la legge né, oggi, la Costituzione autorizzano l'interprete a depennare dal novero delle associazioni le collettività aventi un'organizzazione ed uno scopo destinati ad esaurirsi in breve tempo, od anche e addirittura occasionali. Per cui, sembrano assai più corrette le argomentazioni della dottrina maggioritaria, secondo le quali, se è vero che ordinariamente l'associazione ha in sé, istituzionalmente, carattere di permanenza, è pure vero che nel concetto di associazione debbono farsi rientrare anche quelle organizzazioni comunitarie la cui permanenza abbia carattere meramente relativo, o addirittura occasionale.
Sotto il versante strettamente etimologico, inoltre, la parola associazione deriva dal latino ed assume i seguenti significati: composto da, compagno, alleato.
Mentre sotto il profilo semantico indica un’unione o un’aggregazione, un’alleanza.
Del resto, ad ulteriore riprova del suo carattere polisemico, giova considerare che anche nell’ordinamento giuridico statale il termine associazione assume diversi significati a seconda del contesto normativo in cui viene utilizzato.
Basti sul punto menzionare, a titolo esemplificativo, l’istituto del contratto di associazione in partecipazione, a dimostrazione della circostanza per cui tale espressione non è affatto incompatibile anche con un accordo divisato soltanto tra due persone.
Le considerazioni appena svolte sono sufficienti a dimostrare la non decisività, ai fini che qui rilevano, del criterio interpretativo meramente letterale.
Tuttavia, in disparte tale ultimo rilievo, si può certamente ritenere che, anche sotto il profilo della interpretazione letterale, non appare implausibile ritenere che, con la locuzione associazione tra un atleta e una persona a suo supporto, si intenda il rapporto professionale tra medico ed atleta in virtù del quale il primo sottoponga il secondo a pratiche mediche ovvero nel corso del quale gli fornisca assistenza al fine di consentirne la partecipazione ad una competizione.
Tale approdo interpretativo rinviene decisivi argomenti di conferma nei risultati dell’interpretazione logica, teleologica e sistematica delle disposizioni in disamina.
Sul piano dell’interpretazione teleologica, la complessiva lettura del riportato impianto regolatorio lascia emergere una ratio che chiaramente riposa sull’esigenza di evitare che soggetti non tesserati e condannati per violazione della disciplina anti doping continuino a porre in essere atti funzionalmente connessi al mondo dello sport professionistico, quali certamente appare, a parere del Collegio, il rilascio di certificati all’idoneità sportiva professionistica, traducendosi gli stessi in un’attività di supporto dell’atleta, ove solo si rifletta sulla loro indispensabilità ai fini dell’espletamento di qualsivoglia tipologia di attività agonistica.
Né a diversi risultati conduce l’interpretazione logica, atteso che una diversa ermeneusi, che consentisse al medico interdetto di continuare a svolgere atti della professione funzionalmente collegati all’ordinamento sportivo, rappresenterebbe una patente elusione della sanzione interdittiva, la quale, per tale via, finirebbe per assumere una portata meramente teorica.
Sotto quest’ultimo angolo di visuale, appare del tutto evidente che, in relazione alla categoria dei medici, il divieto di partecipazione ad attività di carattere sportivo non può che concernere le prestazioni professionali connesse con le attività agonistiche degli atleti e, quindi, i rapporti che i medici intrattengono con atleti ai fini della loro partecipazione ad attività sportive agonistiche.
In linea con quest’ultima considerazione, mette conto di evidenziare che anche l’originaria sanzione dalla quale è stato colpito l’odierno ricorrente ha avuto origine da un’attività di supporto medico svolta da parte di chi non rivestiva la qualifica di tesserato. Non era tale, invero, l’odierno ricorrente anche al tempo dei fatti da cui sono scaturiti i procedimenti antidoping conclusisi con la sua condanna.
Da tutto quanto precede si ricava anche la ragione per la quale sono positivamente previsti doveri di avviso anche nei confronti di atleti, in ordine al rischio cui potrebbero andare incontro, laddove si avvalessero di certificati rilasciati da medici sportivi che siano stati destinatari.
Costoro, infatti, potrebbero in buona fede ignorare la circostanza di essersi rivolti ad un medico interdetto.
Del resto, a non differenti conclusioni si giunge anche alla luce di una più ampia interpretazione di sistema, rispetto alla quale assume particolare rilevanza quanto stabilisce l’art. 2 del Codice Mondiale Antidoping, certamente applicabile al caso di che trattasi nel presente procedimento in ragione del notorio carattere piramidale che contrassegna l’ordinamento sportivo, di cui si è dato conto in precedenza.
In particolare, l’art. 2.10 ultima parte del Codice Mondiale Antidoping dispone che affinché il divieto di associazione trovi applicazione, è necessario che l’atleta o l’altra persona siano stati informati preventivamente per iscritto da parte dell’organizzazione antidoping competente, ovvero della WADA, in ordine allo stato di squalifica del personale di supporto dell’atleta e alle potenziali conseguenze derivanti dal divieto di associazione.
D’altronde, come puntualmente osservato dalla parte resistente, il commento a tale norma precisa che “gli atleti e le altre persone sono tenute ad astenersi dal collaborare con allenatori, preparatori o altro personale di supporto dell’atleta che risultino inammissibili a causa di violazione del regolamento antidoping ovvero che siano stati condannati in sede penale ovvero siano stati oggetto di misure disciplinari da parte di organismi professionali per questioni legate al doping. Tra le tipologie di associazione da ritenersi vietate figurano: ottenere consulenze relative ad allenamento, strategia, tecnica, alimentazione o di natura medica; ottenere terapie, cure o prescrizioni; fornire eventuali prodotti corporei per lo svolgimento di analisi; ovvero consentire al personale di supporto dell’atleta di fungere da agente o rappresentante. Affinché si concretizzi il divieto di associazione non è necessario che sia prevista alcuna forma di retribuzione”.
Appare del tutto plausibile, alla luce delle argomentazioni che precedono, ricomprendere nella locuzione “associazione tra uno sportivo professionista e una persona a suo supporto” gli allenatori, i preparatori atletici, i manager, il personale medico e paramedico, i genitori dell’atleta ed ogni altra persona che sottoponga l’atleta a pratiche mediche o che gli fornisca assistenza al fine della partecipazione ad una competizione.
Da ciò ulteriormente discende che tali attività dovranno intendersi proibite ogni qualvolta uno dei soggetti appena menzionati sia stato colpito da una sanzione ai sensi della normativa sportiva anti-doping durante l’intero corso di durata della sanzione.
Sempre sul versante sistematico, particolare rilevanza, ai fini della presente decisione, assume la disposizione che disciplina i poteri di indagine della procura antidoping.
L’art. 22 delle norme sportive antidoping stabilisce, infatti, che “Al fine di una efficiente ed incisiva strategia antidoping la PNA, anche in concorso con i soggetti di cui al successivo articolo 23, pone in essere tutte le più opportune attività di indagine – nel rispetto dei principi di equità, integrità ed imparzialità - volte a prevenire ed accertare violazioni della normativa antidoping, e segnatamente:
a)esiti atipici ed esiti avversi risultanti dal Passaporto biologico;
b)ulteriori violazioni della normativa antidoping con particolare riguardo a quanto previsto dall’articolo 7.7 del Codice WADA;
c)coinvolgimento del personale di supporto dell’Atleta o di altre persone nell’ambito di una violazione della normativa antidoping.
22.2 La PNA procede alla tempestiva conclusione delle indagini con conseguente provvedimento di archiviazione ovvero di deferimento alla competente sezione del TNA”.
Come si ricava da una piana lettura di quest’ultima disposizione, la -OMISSIS-è dotata di poteri di indagine che non si limitano, in via retrospettiva, a ricercare le prove in relazione ad una già avvenuta violazione della normativa antidoping.
Essa, al contrario, è attributaria anche del potere di svolgere ampie indagini in un’ottica marcatamente preventiva, in quanto finalizzate a scongiurare il pericolo che possano commettersi future violazioni della normativa antidoping.
Ne consegue che, proprio nel quadro di tali ampli poteri di indagine preventiva, si inscrive il potere di segnalare a strutture e atleti, che si avvalgono del supporto di medici destinatari di una sanzione interdittiva, i rischi cui possono andare incontro sotto il versante delle sanzioni dell’ordinamento sportivo o comunque sotto il profilo della validità dei certificati medici rilasciati.
Da tutto quanto precede ulteriormente discende che la sanzione interdittiva comminata all’odierno ricorrente avrebbe dovuto impedire allo stesso di intrattenere qualsivoglia rapporto con atleti tesserati per Federazioni Sportive o per Discipline Sportive Associate soggetti alla normativa antidoping, per ragioni o finalità riconducibili alle attività sportive svolte dagli atleti, tra le quali indubbiamente rientrano le prestazioni specialistiche ed il rilascio di certificazioni di idoneità sportiva che direttamente attengono allo svolgimento di attività sportiva agonistica.
Né, infine, appare condivisibile l’ulteriore assunto di parte resistente che, argomentando dalla risoluzione dei suoi rapporti di lavoro con le strutture sanitarie, verificatasi, a suo dire, per effetto delle missive inviate dalla procura antidoping, ne ricava l’ulteriore corollario per cui in tal modo la -OMISSIS-lo priverebbe tout court della possibilità di svolgere attività professionale di medico sportivo.
In senso contrario, occorre osservare che il -OMISSIS-non è mai intervenuto con lo scopo di impedire l’attività professionale svolta dal ricorrente in favore delle due strutture sanitarie, ma esclusivamente al più limitato fine di segnalare alle stesse, sulla base di quanto previsto dal Codice Sportivo Antidoping, che la posizione del ricorrente, in ragione della sanzione inflittagli, gli impediva di intrattenere rapporti professionali con atleti tesserati con Federazioni Sportive.
Detto in altri termini, ciò che al ricorrente appare precluso in ragione della condanna subita, è l’esercizio di un segmento della più ampia attività di medico sportivo e segnatamente quello afferente ad atti della professione medica funzionalmente collegati con l’attività sportiva agonistica,
Alla luce delle considerazioni che precedono la domanda risarcitoria formulata dalla ricorrente deve essere respinta.
Dal complesso delle osservazioni che precedono, infatti, sulla base delle quali è stata accertata la legittimità degli atti impugnati, consegue l’assenza di responsabilità da parte delle amministrazioni resistenti.
Sul punto invero è sufficiente richiamare la recente decisione della Adunanza Plenaria n. 7/2021 che, nel solco della storica sentenza delle Sezioni Unite numero 500 del 1999, ha ribadito la riconducibilità della responsabilità dell’amministrazione per l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o per il mancato esercizio di quella doverosa al paradigma della responsabilità da fatto illecito.
Secondo i principi ribaditi da quest’ultimo autorevole arresto giurisprudenziale, elemento centrale nella fattispecie di responsabilità da illegittima attività provvedimentale è l’ingiustizia del danno, da dimostrare in giudizio, diversamente da quanto avviene per la responsabilità da inadempimento contrattuale, in cui la valutazione sull’ingiustizia del danno è assorbita dalla violazione della regola contrattuale.
Declinata nel settore relativo al «risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi», di cui all’art. 7, comma 4, cod. proc. amm., il requisito dell’ingiustizia del danno implica che il risarcimento potrà essere riconosciuto se l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, che quest’ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, secondo la dicotomia “interessi legittimi oppositivi - pretensivi”.
Infatti, diversamente da quanto avviene nel settore della responsabilità contrattuale, il cui aspetto programmatico è costituito dal rapporto giuridico regolato bilateralmente dalle parti mediante l’incontro delle loro volontà concretizzato con la stipula del contratto-fatto storico, il rapporto amministrativo si caratterizza per l’esercizio unilaterale del potere nell’interesse pubblico, idoneo, se difforme dal paradigma legale e in presenza degli altri elementi costitutivi dell’illecito, a ingenerare la responsabilità aquiliana dell’amministrazione.
Alla stregua di tali condivisibili coordinate interpretative, manca - nel caso all’esame del Collegio - il presupposto dell’ingiustizia del danno, non ravvisandosi, per le ragioni indicate, un illegittimo esercizio del potere amministrativo da cui sia conseguita una lesione dell’interesse legittimo della ricorrente correlato al bene della vita agognato.
Da ciò logicamente discende l’assorbimento delle questioni attinenti alla colpa della Pubblica Amministrazione e al quantum risarcitorio (in quanto relative alla sfera del c.d. “danno – conseguenza”).
Sulla base delle ragioni che precedono il ricorso deve conclusivamente essere respinto.
Le spese del presente giudizio, in ragione della peculiare complessità e novità della presente controversia, possono essere compensate tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge nei sensi di cui in motivazione.
Compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il ricorrente.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 luglio 2022 con l'intervento dei magistrati:
Anna Maria Verlengia, Presidente FF
Raffaello Scarpato, Referendario
Luigi Furno, Referendario, Estensore