F.I.G.C. – CORTE FEDERALE D’APPELLO – Sezione I – 2025/2026 – figc.it – atto non ufficiale – Decisione n. 0053/CFA pubblicata il 27 Novembre 2025 (motivazioni) – Sig. Nicolò Alfonsi – società U.S. Sambenedettese SSDaRL

Decisione/0053/CFA-2025-2026

Registro procedimenti n. 0048/CFA/2025-2026

 

LA CORTE FEDERALE D’APPELLO

I SEZIONE

 

composta dai Sigg.ri:

Mario Luigi Torsello – Presidente

Sergio Della Rocca - Componente

Renato Grillo - Componente (Relatore)

ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul reclamo n. 048/CFA/2025-2026 proposto dal Procuratore federale interregionale in data 21 ottobre 2025,

per la riforma della decisione del Tribunale federale territoriale presso il Comitato regionale Marche pubblicata con il Comunicato Ufficiale n. 59 del 15.10.2025;

Visto il reclamo e i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore all’udienza dell’11.11.2025, tenutasi in videoconferenza, il Cons. Renato Grillo, e uditi gli Avv.ti Mario Fogliamanzillo per il Sig. Nicolò Alfonsi, Luca Gualazzini per la società U.S. Sambenedettese SSDARL A e Giulia Conti per la Procura federale.

RITENUTO IN FATTO

Con atto del 9 settembre 2025, nell’ambito del proc. n. 6393/1146pfi24-25/PM/am, il Procuratore federale interregionale deferiva davanti al Tribunale federale territoriale presso il C.R. Marche, il sig. Nicolò Alfonsi, calciatore tesserato all’epoca dei fatti per la U.S. Sambenedettese ASS DRL, nonché la stessa società per rispondere dei seguenti fatti:

- il Sig. Nicolò Alfonsi, all’epoca dei fatti calciatore tesserato per la società U.S. Sambenedettese ASS DRL:

della violazione dell’art. 4, comma 1 del Codice di giustizia sportiva per avere lo stesso il giorno 4.4.2025, riferendosi alla direzione arbitrale del sig. T.K.T. in occasione della gara U.S. Sambenedettese ASS DRL – Fermo ASS DRL del 2.4.2025, valevole per il girone C del campionato Under 17 Regionali,  rivolto allo stesso che stava attendendo il pullman all’uscita da scuola, l’espressione “guarda come mi hai ridotto”, riferendosi alle stampelle con il cui ausilio stava camminando, nonché ancora per avere lo stesso, nel medesimo frangente e riferendosi alla stessa direzione arbitrale, proferito con tono minaccioso all’indirizzo del direttore di gara, appena citato, le seguenti testuali espressioni: “hai rovinato una partita handicappato”... “hai rovinato un campionato”... “stai attento, so dove stai”;

- la società U.S. Sambenedettese ASSDRL a titolo di responsabilità oggettiva ai sensi dell’art. 6, comma 2, del Codice di giustizia sportiva per gli atti ed i comportamenti posti in essere dal sig. Nicolò Alfonsi, così come descritti nei precedenti capi di incolpazione.

Tale deferimento era scaturito a seguito delle indagini promosse ed espletate dalla Procura federale interregionale cui era pervenuta una segnalazione via email datata 10 aprile 2025, da parte del Presidente della Sezione A.I.A. di Ascoli Piceno sig. Massimiliano Bachetti, precedentemente informato dall’arbitro associato AIA sig. Thomas Karim Terrasona di un comportamento minaccioso subito da parte di un calciatore della società U.S. Sambenedettese ASSDRL, tale sig. Nicolo’ Alfonsi, in data 4 aprile 2025.

Nella sua informativa allegata alla segnalazione, il detto arbitro aveva comunicato di essere stato avvicinato in quel giorno, mentre usciva da scuola, da un calciatore della U.S. Sambenedettese ASSDRL che, con fare aggressivo e minaccioso, gli aveva rivolto alcune frasi del seguente tenore: “Arbitro hai rovinato una partita, sono in stampelle per colpa tua” ed ancora “Stai attento, ti ho avvisato”. L’episodio denunciato andava ricollegato alla gara disputatasi il 2 aprile precedente tra le squadre della U.S. Sambenedettese ASSDRL e il Fermo ASSDRL nell’ambito del Campionato Under 17 Regionali che il detto arbitro aveva diretto.

Avviate le indagini da parte della Procura federale, si procedeva ad ascoltare, in data 13 maggio 2025, l’arbitro della gara Sig. Thomas Karim Terrasona il quale, nel confermare quanto precedentemente segnalato al Presidente della Sezione AIA di Ascoli Piceno, forniva ulteriori particolari sull’accaduto, precisando che, dopo essere uscito dal liceo artistico Osvaldo Licini di Ascoli Piceno, da lui frequentato, si era avviato alla fermata del pullman per raggiungere alcuni suoi amici in sosta lì vicino. In quella circostanza in quello stesso gruppo era presente anche il sig. Nicolò Alfonsi che aveva iniziato a guardarlo insistentemente facendo anche intendere di parlare di lui con i propri amici. Il Terrasona, che aveva riconosciuto, sia pure con qualche iniziale esitazione, l’Alfonsi perché giocatore della U.S. Sambenedettese arbitrata due giorni prima, aveva chiesto conferma a due sue amiche presenti in quel momento (Monica D’Angeli e Melissa Pompei) del fatto che il ragazzo autore di quegli sguardi insistenti fosse proprio l’Alfonsi, ricevendone risposta affermativa. Nel frangente quest’ultimo, staccatosi dal gruppetto di ragazzi, si era avviato verso esso Terrasona esordendo con la frase “Salve Sig. arbitro”. Dopo la sua risposta affermativa riferita alla gara Sambenedettese – Fermo del 2 aprile 2025, il Terrasona aveva chiesto al suo interlocutore cosa fosse successo: di rimando l’Alfonsi pronunciava altre frasi del seguente tenore: “Guarda come mi hai ridotto” riferendosi alle stampelle con le quali in quel momento camminava, e subito dopo, in tono minaccioso, altre espressioni “hai rovinato una partita handicappato”; “hai rovinato un campionato” riferendosi alla partita del 2 aprile 2025 che la U.S. Sambenedettese aveva disputato e perso con il Fermo e in ultimo “Stai attento, so dove stai” (riferendosi alla scuola da lui frequentata). Dopo di che, giunto il pullman, l’Alfonsi si era allontanato salendo a bordo del mezzo. Il Terrasona indicava le sue due amiche D’Angeli e Pompei, non tesserate FIGC, come testimoni dell’accaduto.

Nel corso delle ulteriori attività di indagine, si procedeva alla audizione dell’Alfonsi il quale ammetteva di avere incontrato l’arbitro alla fermata del pullman e di avergli contestato, senza adoperare modi o toni offensivi né ad alta voce, come non adeguata la direzione della gara, aggiungendogli poi che, a causa di un incidente di gioco che gli era valsa l’ammonizione, era costretto a camminare con le stampelle. Si era trattato di un colloquio brevissimo (una ventina di secondi in tutto) e a tale incontro aveva assistito – tra gli altri – il suo amico Emanuele Angelozzi, calciatore tesserato della FIGC con il Castel di Lama.

Sentito l’Angelozzi, questi confermava l’incontro tra il suo amico Nicolò Alfonsi e il Terrasona alla fermata del pullman senza che da parte dell’Alfonsi venissero usati toni offensivi o modi minacciosi, accennando allo svolgersi di una normale conversazione. Dichiarava di non essere in condizione di ricordare cosa in due si fossero detti, in quanto, disinteressato a tale discussione, si era allontanato. L’iniziativa di ascoltare le due ragazze sortiva esito negativo in quanto nessuna delle due intendeva rendere dichiarazioni.

All’esito dell’attività istruttoria, il Procuratore federale interregionale, dopo la conclusione delle indagini e la presentazione di una memoria difensiva ex art. 123, comma 1, CGS da parte della difesa della società, deferiva i tesserati coinvolti dinnanzi al competente Tribunale federale territoriale presso il C.R. Marche.

Il relativo procedimento si concludeva con la decisione pubblicata nel C.U. n. 59 del 15 ottobre 2025, con la quale il Tribunale, ritenuta l’insufficienza del materiale probatorio acquisito in atti, proscioglieva da ogni addebito sia il calciatore interessato Nicolò Alfonsi che la società U.S. Sambenedettese.

Avverso tale decisione ha interposto reclamo il Procuratore federale interregionale sulla base di un unico articolato motivo.

1. Erronea valutazione delle evidenze probatorie acquisite agli atti del procedimento in ordine alla sussistenza delle violazioni contestate nei confronti del sig. Nicolò Alfonsi e della società U.S. Sambenedettese ASSDRL.

Con tale motivo la Procura federale reclamante ritiene anzitutto errata e non in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale penale della Corte Suprema recepito da tempo dalla Corte federale, l’affermazione del Tribunale circa la non sufficiente valenza probatoria attribuibile alla dichiarazione della persona offesa, laddove unica fonte probatoria dell’accusa a fronte della contrapposta dichiarazione dell’incolpato. Aggiunge la reclamante che la dichiarazione dell’arbitro è scevra da condizionamenti, oltre che precisa e coerente e dunque pienamente attendibile, tanto più che non emergono ragioni di astio da parte dell’arbitro verso il calciatore oggi incolpato. Ritiene del tutto inesatta l’affermazione del Tribunale secondo la quale la dichiarazione dell’arbitro ha lo stesso valore di quella, contraria, del deferito, atteso anche il ruolo istituzionale dell’arbitro caratterizzato da un particolare rigore comportamentale superiore a quello di tutti gli altri tesserati che rende particolarmente attendibile ex se la dichiarazione. E in ultimo sottolinea che la testimonianza del calciatore Angelozzi non assume alcuna particolare valenza dimostrativa in favore della tesi portata avanti dall’incolpato, in quanto l’Angelozzi ha dichiarato di non avere ascoltato le frasi che l’incolpato e l’arbitro si sono scambiati.

Sulla base delle suesposte censure, il reclamante Procuratore interregionale ha chiesto che, in accoglimento del reclamo ed in riforma della decisione impugnata, venisse irrogata al calciatore sig. Nicolò Alfonsi la sanzione di sei giornate di squalifica e alla società U.S. Sambenedettese ASSDRL l’ammenda di 700,00.

Nel corso dell’udienza del 18 novembre 2025, celebratasi in video conferenza presenti da remoto i difensori degli incolpati Avv.ti Mario Fogliamanzillo (per il sig. Nicolò Alfonsi) e Luca Gualazzini (per la società U.S. Sambenedettese ASSDRL), nonché l’Avv. Giulia Conti (per la Procura federale), quest’ultima si riportava al reclamo in atti, insistendo per il suo accoglimento con conseguente dichiarazione di responsabilità dei tesserati deferiti e correlata irrogazione delle sanzioni richieste in calce al reclamo stesso.

Il difensore della società incolpata, nel riportarsi alle memorie difensive in atti, ha ribadito l’insussistenza della responsabilità oggettiva per la correlata insussistenza della responsabilità del calciatore incolpato e, in ogni caso, l’inconfigurabilità della colpa “organizzativa” in capo alla società, instando per il rigetto del reclamo e la conferma della decisione impugnata.

Il difensore dell’incolpato Nicolò Alfonsi si è richiamato alle considerazioni svolte dall’Avv. Gualazzini, chiedendo il rigetto del reclamo.

All’esito della discussione il reclamo veniva trattenuto in decisione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il motivo di ricorso è ad avviso della Corte parzialmente fondato e va conseguentemente accolto per quanto di ragione.

1.1 Il reclamante, nell’affermare che il Tribunale ha erroneamente valutato il materiale probatorio acquisito in atti, denuncia l’errore di diritto in cui è incorso il primo giudicante nella misura in cui ha ritenuto di non attribuire particolare rilevanza alle dichiarazioni dell’arbitro rispetto alle dichiarazioni dell’incolpato. Così facendo, il Tribunale si è irragionevolmente discostato da quell’orientamento ormai da tempo consolidato nella giurisprudenza penale di legittimità in merito alla incidenza probatoria delle dichiarazioni del testimone-persona offesa quando le stesse costituiscono il fondamento della tesi accusatoria rispetto alle contrarie dichiarazioni dell’imputato, in assenza di riscontri esterni.

2. Va anzitutto ricordato che nel nostro sistema processuale penale non vi è alcuna discriminazione sia in ordine alla capacità a testimoniare della persona offesa dal reato, sia in ordine alla valenza probatoria delle sue deposizioni rispetto a quelle di altre persone.

Ne consegue che là dove la persona offesa risulta essere l'unico testimone che abbia avuto percezione diretta del fatto da provare o, comunque, l'unico in condizioni di veicolare tale percezione all’interno del processo, anche la sola deposizione di essa può, nell'ambito del libero convincimento del giudice, essere posta a fondamento del giudizio di colpevolezza dell'imputato.

Sarà poi compito del giudice di merito valutare con particolare attenzione tutti gli elementi, sia di natura intrinseca che estrinseca, su cui ha basato il proprio convincimento sulla attendibilità e veridicità delle deposizioni della persona offesa, dando conto di tale valutazione con motivazione dettagliata e rigorosa, specificamente riferita alla detta qualità (in termini Cass. Pen. Sez. 1^ 20.9.1989 n. 6390).

2.1 Si tratta di un principio fissato in costanza del previgente codice di procedura penale (art. 590 c.p.p. 1930) che, con l’avvento del successivo, ha trovato ulteriore elaborazione con la nota sentenza Bell’Arte a Sezioni Unite del 19 luglio 2012, n. 41461, nella quale la Corte Suprema ha affermato che le regole dettate dall'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen., secondo cui “le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato  o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell’art. 12  sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità” “non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone”.

2.2 Tale approdo ermeneutico è stato costantemente ribadito nel tempo, come confermato da una recentissima pronuncia, non massimata, della V Sezione della Corte di Cassazione n. 40504 del 19 settembre 2024, la quale, nel richiamare il principio fissato dalle Sezioni Unite, ha anche ricordato che lo stesso vale anche in quei casi nei quali la persona offesa si sia costituita parte civile e come tale risulti portatrice di un interesse contrastante con lo stesso accusato; il che esige un controllo di attendibilità ancor più rigoroso rispetto a quello generico cui di norma vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, eventualmente integrato, là dove necessario, con l’apporto di altri elementi di riscontro (in questo senso Cass. Pen. Sez. V 13.2.2020 n. 12920; conforme Sez. IV 9.11.2021 n. 410).

2.3 Tale criterio interpretativo vale soprattutto in tema di accertamento di reati sessuali là dove sovente i protagonisti della vicenda in grado di raccontare i fatti sono soltanto la vittima e l’autore del reato, portatori di interessi tra loro radicalmente contrapposti, avendo avuto modo la Suprema Corte (Sez. IV 18.10.2011 n. 44644) di precisare in proposito che “la deposizione della persona offesa, seppure non equiparabile a quella del testimone estraneo, può essere assunta anche da sola come fonte di prova della colpevolezza, ove venga sottoposta ad un'indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l'ha resa, dato che in tale contesto processuale il più delle volte l'accertamento dei fatti dipende necessariamente dalla valutazione del contrasto delle opposte versioni di imputato e parte offesa, soli protagonisti dei fatti, in assenza, non di rado, anche di riscontri oggettivi o di altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall'esterno, all'una o all'altra tesi”.

2.4 Orbene tali principi – ferma restando l’autonomia dell’ordinamento sportivo rispetto al sistema ordinamentale statuale (nella specie penale) che esime l’organo di giustizia dall’applicare tout court le regole proprie del processo penale al processo disciplinare sportivo – sono stati recepiti da tempo dalla giurisprudenza di questa Corte che, nello scrutinare l’art. 57 del CGS in tema di assunzione e valutazione dei mezzi di prova, ha chiarito che  “La dichiarazione di un solo teste ben può essere posta a base di una sentenza di condanna se scrupolosamente vagliata sotto ogni profilo” (CFA, Sez. I, n. 59/2023-2024) ed ancora “che anche nelle ipotesi in cui la persona offesa sia titolare di un interesse contrapposto a quello dell’incolpato, la sua dichiarazione può essere assunta anche da sola come fonte di prova, purché sottoposta a un attento controllo di credibilità oggettiva e soggettiva” (in termini, da ultimo, CFA, Sez. I, n. 32/2025-2026; conformi CFA, SS.UU., n. 114/2020-2021; CFA, Sez. I, n. 52/2022-2023; CFA, Sez. I. n. 92/2021-2022; CFA, Sez. I, n. 118/2019-2020).

3. Orbene, questa essendo la cornice ermeneutica di riferimento, va rilevato che il Tribunale, con motivazione nient’affatto approfondita e basata solo su una supposta equivalenza tra le dichiarazioni dell’arbitro e quelle del calciatore incolpato, ha optato per la tesi della incertezza probatoria, prosciogliendo il tesserato in assenza di indizi gravi, precisi e concordanti.

4. Ben avrebbe potuto – ed anzi dovuto – il Tribunale soffermarsi sulle articolate, coerenti e precise dichiarazioni dell’arbitro che non solo ha avuto l’accortezza, obbedendo al suo ruolo istituzionale, di segnalare immediatamente l’episodio al Presidente della Sezione AIA di Ascoli Piceno, ma che, nel rispondere alle domande del Collaboratore della Procura federale, ha indicato subito persone in grado di confermare la sua versione, persone che, non essendo tesserate, non hanno poi ritenuto di rendere dichiarazioni in quanto non obbligate a farlo. Ma l’indicazione dell’arbitro costituisce la riprova implicita della sua sincerità e spontaneità, senza che la mancata audizione delle due ragazze possa ritorcersi in suo danno.

5. Ma vi è di più: quello che – secondo la versione, peraltro assolutamente anodina, dell’Alfonsi – avrebbe potuto costituire un elemento potenziale di riscontro alle sue difese (la testimonianza del suo amico Emanuele Angelozzi), si è rivelato assai fragile ed evanescente, posto che il detto testimone ha confermato l’avvicinamento dell’Alfonsi all’arbitro e lo scambio verbale, ma nulla ha saputo riferire sul contenuto delle frasi pronunciate nella circostanza.

5.1 Senza dire che lo stesso incolpato ha ammesso l’incontro nei termini in cui ne aveva parlato l’arbitro sia nella segnalazione alla sua Sezione AIA di appartenenza, sia in sede di audizione da parte della Procura inquirente, limitandosi a negare di avere usato un tono offensivo o minaccioso, ma ammettendo di aver rimproverato all’arbitro la sua non soddisfacente direzione di gara.

5.2 E – come correttamente rilevato dal rappresentante della Procura federale in sede di udienza – se c’era un soggetto che tra i due protagonisti della vicenda avrebbe potuto provare un risentimento, questi era proprio l’Alfonsi, non solo perché ammonito nel corso del primo tempo della partita per proteste (vds. referto arbitrale in atti che segnala l’ammonizione dell’Alfonsi per proteste al 38’ del primo tempo), ma perché risentito per la sconfitta della propria squadra. Le frasi “hai rovinato una partita, handicappato” e “hai rovinato un campionato” si coniugano perfettamente con le dichiarazioni dell’Alfonsi, circa il rimprovero mosso all’arbitro per la insufficiente direzione di gara.

Così come, il fatto che sia stato proprio l’Alfonsi ad assumere l’iniziativa – oltretutto assolutamente incongrua – di avvicinare l’arbitro (e non l’inverso, non avendo l’arbitro alcun interesse a farlo), costituisce una ulteriore riprova della intenzione del tesserato di esigere chiarimenti e giustificazioni dall’arbitro.

5.3 Né può giovare all’Alfonsi la testimonianza del suo amico Angelozzi quando questi ha parlato di un incontro senza toni aggressivi, tanto più che lo stesso arbitro ha sottolineato un incedere “spavaldo” dell’Alfonsi che non equivale affatto ad atteggiamenti o toni aggressivi.

6. Ne consegue che, a fronte di una dichiarazione dell’arbitro coerente, sia estrinsecamente rispetto alla comunicazione scritta inviata via e-mail alla sezione AIA, sia intrinsecamente perché esente da incertezze, nient’affatto generica e priva di enfatizzazioni che avrebbero potuto intaccarne la sincerità, si contrappone una dichiarazione ben più striminzita dell’Alfonsi, priva di riscontri esterni tali da rafforzarne la credibilità.

7. Certamente va respinta la tesi adombrata dal reclamante circa la fede privilegiata da accordarsi alla dichiarazione arbitrale in relazione al ruolo dell’arbitro, potendo assumere un tale connotato solo quella contenuta in un referto arbitrale e non una dichiarazione resa su fatti verificatisi fuori dalla gara ed in un contesto spazio-temporale di molto successivo; ma è altrettanto innegabile che, là dove la dichiarazione sia scevra da condizionamenti, genuina e puntuale nelle circostanze riferite, certamente si tratta di una dichiarazione credibile della quale deve tenersi conto perché meditata e non ricollegata a sentimenti di astio o ritorsivi.

Il compito del Tribunale di passare in rassegna tutti gli elementi traibili dalle dichiarazioni e valutarne la credibilità, costanza e coerenza di esse, sotto questo profilo, è mancato, venendo così meno a quel principio della motivazione rigorosa e quanto mai analitica esigibile nei casi di confronto tra la dichiarazione dell’arbitro e quella dell’incolpato quali uniche fonti di prova che si traduce in un vero e proprio difetto di motivazione.

8. Va quindi riformata sul punto la decisione impugnata ed affermata la responsabilità dell’incolpato per la violazione di cui all’art. 4, comma 1, CGS contestatagli, sottolineando a tale proposito che, come più volte affermato da questa Corte “il dovere di comportarsi secondo il principio di lealtà, correttezza e probità in ogni rapporto comunque riferibile all’attività sportiva rappresenta il principale parametro di condotta per tutti coloro che a qualsiasi titolo siano sottoposti all’ordinamento federale. L’obbligo in esame, sebbene solitamente riconducibile al canone di lealtà sportiva (c.d. fair play), già sotto il vigore del Codice previgente ha assunto una dimensione più ampia, riferibile anche al di là della competizione sportiva e della corretta applicazione delle regole di gioco, traducendosi in una più generale regola di condotta in ambito associativo alla cui osservanza sono tenuti tutti i soggetti comunque facenti parte dell’ordinamento federale e tale da ricomprendere in essa ogni violazione delle generali regole di correttezza e di lealtà da parte di coloro che a qualsiasi titolo entrino in contratto con ‘ordinamento federale (CFA, SS.UU., n. 5/2023-2024; CFA, SS.UU., n. 69/2021-2022).

8.1 Sotto altro profilo, va significativamente aggiunto che “l’art. 4 del CGS, lungi dal rappresentare una norma in bianco, non può essere ricostruita o applicata secondo i canoni propri del diritto penale e, in specie, di quelli di determinatezza e tassatività. Si tratta invero di una norma “di chiusura” del sistema (così Collegio di Garanzia dello Sport Sez. Consultiva, parere n. 5/2017) che consente al giudice sportivo di spaziare ampiamente secondo le esigenze del caso concreto che rende possibili decisioni che, secondo l’evidenza del caso singolo, completino ed integrino la fattispecie sanzionatoria anche attraverso valutazioni e concezioni di comune esperienza” (CFA, Sez. I, n. 6/2024-2025). Ed è proprio la mancanza di tipizzazione che rende la norma sportiva flessibile e suscettibile di essere adattata di volta in volta alle esigenze del caso concreto sottoposto al vaglio dell’organo di giustizia.

9. Altro e diverso problema, che questa Corte è tenuta a valutare e risolvere, è quello collegato alla c.d. responsabilità oggettiva contestata alla società di appartenenza del tesserato per i comportamenti da questi assunti.

9.1 Occorre, al riguardo, riassumere gli esiti cui è giunta la giurisprudenza sportiva in merito alla c.d. responsabilità oggettiva (CFA, SS.UU., n. n. 5/CFA/2023-2024):

- fino all’entrata in vigore del Codice vigente, la responsabilità oggettiva era stata definita, a più riprese, come l’architrave della giustizia sportiva la cui caratteristica era rappresentata dal fatto che la società di calcio rispondeva disciplinarmente a prescindere dalla colpa o dal dolo. Si trattava, dunque, di una responsabilità senza colpevolezza, imputata per fatto altrui. V’era, dunque, un vero e proprio trasferimento, in capo alla società, della responsabilità soggettiva di tutte le persone che, a vario titolo, agivano nell’interesse della medesima società o comunque svolgevano attività rilevante per l’ordinamento sportivo (CFA, Sez. III, n. 124/2015-2016). Vero è che nei confronti di tale forma di responsabilità furono manifestate diverse prese di posizione volte a contestarne non solo l’opportunità, ma la stessa compatibilità con i principi di civiltà giuridica e con gli stessi fondamenti dell’ordinamento comune. Al contrario, però, si osservava che la responsabilità oggettiva, trovava una valida giustificazione nell’ottica della particolare autonomia dell’ordinamento sportivo e delle sue finalità (ex multis: CGF, SS.UU., n. 43/2011-2012). Ciò nel presupposto che il più caratteristico e qualificante momento espressivo dell'autonomia regolamentare di una formazione sociale che aspiri ad avvalersi della propria prerogativa di organizzarsi come un'istituzione è rappresentato dalla individuazione, in ragione dei fini suoi propri, dei valori e dei disvalori rispettivamente da tutelare e da reprimere e dalla strumentale identificazione dei mezzi per promuovere gli uni e condannare gli altri. Tale libertà ordinamentale si risolve sia nella costituzione, in positivo ed in negativo, del telaio delle condotte meritevoli di riconoscimento che nel quomodo, ossia nei mezzi attraverso i quali, premialmente o punitivamente, inverare tale scelta pregiudiziale. Tale libertà ordinamentale punitiva si è espressa, tra l’altro, con la previsione – da parte del Legislatore federale - dell’istituto della responsabilità oggettiva (CFA, Sez. I, n. 90/2019-2020). Fondamentale, dunque, appariva il richiamo all’autonomia dell’ordinamento sportivo – com’è noto costituzionalmente garantita - e l’ammissibilità di tale forma di responsabilità veniva indicata come la misura del grado di effettivo riconoscimento della autonomia medesima. Sotto il profilo della ratio, si sottolineava che la responsabilità oggettiva trovava la sua ragione nell’opportunità di assicurare il pacifico svolgimento dell’attività sportiva e delle competizioni agonistiche, incentivando (o meglio responsabilizzando) le società di calcio ad un controllo sui propri tesserati (ex multis: CFA, Sez. III, n. 124/2015-2016); ovvero nella necessità di tutelare al massimo grado il fine primario perseguito dall’organizzazione sportiva, vale a dire la regolarità delle gare, addossando anche sulle società le conseguenze disciplinari delle infrazioni realizzate dai propri tesserati (Tribunale Nazionale di Arbitrato per lo sport, lodo 26 marzo 2012, Lodo Atalanta Bergamasca; Collegio di garanzia dello sport, SS.UU., n. 71/2021). In particolare, si rilevava che la sua larga utilizzazione era correlata a necessità operative ed organizzative, trattandosi di strumento di semplificazione utile per venire a capo - in tempi celeri e compatibili con il prosieguo dell’attività sportiva e quindi con la regolarità delle competizioni e dei campionati - di situazioni di fatto che altrimenti avrebbero richiesto - anche al fine di definire le varie posizioni giuridicamente rilevanti in campo - lunghe procedure e complessi, oltre che costosi, accertamenti che l’ordinamento sportivo non poteva permettersi di lasciare impuniti o comunque privi di conseguenze sanzionatorie (ex multis: CGF, SS.UU., n. 43/2011-2012). Secondo un approccio parzialmente diverso, si sottolineava che nelle fattispecie di responsabilità oggettiva l’interesse protetto era già predeterminato dal legislatore sportivo, non dovendo essere lo stesso ricercato all’interno della categoria del danno ingiusto. Del danno (prefigurato) rispondeva (per l’ordinamento sportivo) un soggetto diverso dall’autore dell’illecito (responsabilità per fatto altrui), ovvero colui che rivestiva una data qualità o esercitava un certo mestiere o attività, a prescindere dalla sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa. E ciò in forza e conseguenza del principio cuius commoda eius et incommoda (CFA, SS.UU., n. 101/2017-2018). Parte della dottrina evidenziava che con tale forma di responsabilità non si perseguiva uno scopo punitivo, bensì il giusto equilibrio dei valori che determinano il risultato sportivo e che la sanzione disciplinare non era rivolta a colpire soggettivamente la società, ma a mutare oggettivamente una situazione di fatto verificatasi contro e nonostante le regole dell’ordinamento sportivo. In questa prospettiva, la giurisprudenza esofederale metteva in evidenza che, nella società contemporanea, l'ordinamento sportivo - ma anche quello statale - prevede casi in cui, soprattutto ove alcune attività possono determinare rischi per una collettività, determinati soggetti debbano rispondere di illeciti altrui pur in assenza di propria colpevolezza; si enfatizzava il c.d. principio di “precauzione”, in forza del quale l'esigenza di prevenire pericoli derivanti da illeciti è talmente forte che il criterio di imputazione della responsabilità, a carico della società calcistica, è talmente severo e rigoroso da consentire di irrogare sanzioni oltre e al di là di ogni individuazione di colpevolezza (e ciò, ovviamente, fatta salva la punibilità anche penale dell'autore materiale ove individuato). Il principio di precauzione era ben coerente con le finalità istituzionali perseguite dalle istituzioni e dagli altri soggetti operanti nel mondo dello sport: promuovere trasparenza, correttezza, ordine e rispetto dell'avversario in una libera competizione ove il migliore prevalga. Di conseguenza, la responsabilità oggettiva aveva un forte effetto dissuasivo, preventivo e riparatorio. Ma è anche vero che prescindeva da ogni giudizio di disvalore verso la società sanzionata. (Collegio di garanzia dello sport, SS.UU., n. 42/2015; Collegio di garanzia dello sport, SS.UU., n. 58/2015). Tale principio di precauzione imponeva dunque l’adozione delle misure idonee, prima che a sanzionare, a prevenire la possibilità di commissione di illeciti che potessero influire negativamente sul corretto svolgimento dell’attività sportiva (ex multis: CFA, Sez. IV, n. 68/2019-2020). D’altro canto, si rilevava che tale modello era stato riconosciuto e adottato in più occasioni anche dal Tribunale arbitrale dello sport di Losanna (TAS), il quale ne aveva sottolineato, in particolare, la funzione deterrente nei confronti degli episodi di violenza commessi dai sostenitori, statuendo che «The principle of strict liability for supporters’misbehaviour is a fundamental facet of the current football regulatory framework and one of the few legal tools that football authorities have at their disposal to deter hooliganism and, more in general, supporters’improper conduct”(CAS 2015/A/3875 Football Association of Serbia (FAS) v. Union des Associations Européennes de Football (UEFA), lodo del 10 luglio 2015). Veniva anche rilevato come tali norme rivestono natura negoziale in quanto sono il risultato dell’autonomia concessa alla Federazione, che è la stessa che viene riconosciuta a qualsiasi altro ente con personalità giuridica di diritto privato; autonomia che, comunque, era assoggettata ai limiti del giudizio di liceità e del controllo di meritevolezza e di proporzionalità come qualsiasi altro atto negoziale. Ma è proprio tale autonomia negoziale che era idonea ad escludere l’assimilabilità degli illeciti sportivi agli illeciti amministrativi o agli illeciti penali e quindi a contraddire una risalente pronuncia di un tribunale amministrativo che aveva desunto l’illegittimità delle norme che prevedono la responsabilità oggettiva invocando il principio della personalità della pena. Laddove - era stato notato - l'art. 27 della Costituzione si riferisce alla sola responsabilità penale. Talune perplessità sollevate in dottrina avevano comunque indotto la giurisprudenza a ispirarsi a criteri di proporzionalità della sanzione e pertanto, già prima del nuovo Codice - nella prospettiva della costruzione di un sistema di responsabilità dei sodalizi maggiormente conforme a giustizia e, in particolare, al principio di proporzionalità tra violazione dell’interesse e sanzione - era stato ritenuto corretto calibrare quest’ultima valutando attentamente la fattispecie posta di volta in volta all’attenzione degli organi di giustizia sportiva (Corte sportiva d’appello, Sez. II, n. 129/20172018).

In sostanza – come è stato riconosciuto - gli organi di giustizia della Federazione avevano già mostrato di discostarsi da un’applicazione rigida dell’istituto, in favore di una moderazione dello stesso da valutarsi caso per caso. Inoltre, la dottrina aveva sottolineato che già prima del nuovo Codice alcuni casi di responsabilità cd. oggettiva rappresentavano esempi di responsabilità presunta, in quanto l’art. 13 del precedente Codice forniva alle società calcistiche la prova liberatoria in grado di esonerarle dall’addebito o, quantomeno, la possibilità di vederne attenuata la relativa sanzione;

- con il nuovo Codice del 2019 v’è stata una rimodulazione della responsabilità oggettiva, con la previsione di una “scriminante o attenuante” a favore delle società. Dal confronto tra l’art. 4, commi 2 e 3 del precedente Codice e l’art. 6, commi 2 e 3 del Codice in vigore, emerge in primo luogo, la soppressione del termine “oggettivamente”. Inoltre – e soprattutto - il nuovo art. 7 del CGS, che si applica a tutte le ipotesi di cui all’art. 6, rubricato “Scriminante o attenuante della responsabilità della società”, prevede che il giudice sportivo, al fine di escludere o attenuare la responsabilità della società, valuti l’adozione, l’idoneità, l’efficacia e l’effettivo funzionamento del modello di organizzazione, gestione e controllo di cui all’art. 7, comma 5, dello Statuto FIGC. In attuazione di tale disposizione, il Consiglio federale ha approvato le relative linee guida (C.U. n. 131/L del 4 ottobre 2019), dettando una serie di principi ai quali le società devono attenersi nell’adozione di c.d. “Modelli di prevenzione”. Il rispetto delle linee guida consente di accertare un’assenza di colpa in capo alle società. Queste ultime dovranno, dunque, provare di aver attivato ed effettivamente, correttamente ed appropriatamente utilizzato un modello organizzativo ed un organismo di vigilanza, controllo e prevenzione tali da consentire, da un esame concreto della fattispecie, un esimente o attenuazione di responsabilità. Si tratta di un modello di responsabilità (che ha riscontri anche nell’ordinamento civile ex artt. 2047 e 2048 c.c. al pari della responsabilità della PA per atto illegittimo) in cui si presume la sussistenza dell’elemento soggettivo fino a prova contraria fornita dalla società.

Si verifica, quindi, un’inversione dell’onere della prova, atteso che non è l’organo inquirente a dover provare la colpa della società, ma è quest’ultima che, per andare esente da responsabilità, deve provare l’assenza di colpa (CFA, SS.UU., n. 58/2021-2022; CFA, Sez. I, n. 77/2021-2022; CFA, Sez. III, n. 82/2021-2022; CFA, SS.UU. n. 91/2022-2023). Il nuovo codice evidenzia una transizione del legislatore sportivo dalle ipotesi di responsabilità senza colpa a forme di responsabilità per colpa presunta (o aggravata), tendente ad eliminare o, quantomeno, attenuare il carattere direttamente ‘oggettivo’ per l’attribuzione della responsabilità delle società. Ampliando il raggio d’azione del previgente art. 13, comma 1, lett. a), CGS, si attribuisce al giudice sportivo la potestà di «escludere o attenuare» l’addebito disciplinare riferito alle società incolpate che, comunque, si siano dotate di un assetto organizzativo interno adeguato a prevenire il rischio di illeciti, a meno che non sia provato il contrario. In dottrina si è correttamente evidenziato che tale scelta ricalca quanto avviene nell’ambito della responsabilità amministrativa delle società e degli enti, là dove l’adozione di modelli organizzativi atti a prevenire illeciti-presupposto (rectius: reati-presupposto) della specie di quello poi verificatosi, può essere impiegato per escludere o limitare la responsabilità delle figure apicali o delle persone sottoposte alla loro direzione o vigilanza (artt. 6 e 7, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231) (Corte sportiva d’appello, Sez. III, n. 144/2020-2021). Viene a delinearsi un sistema basato su una forma di attribuzione della responsabilità meno rigida, ancorata alla c.d. “colpa organizzativa”. Il modello, sottoposto al vaglio del giudice, dovrà essere esaminato da quest’ultimo al fine di verificare se vi sia stata un’incapacità della società nel prevenire l’illecito che si è verificato. L’accertamento circa un eventuale deficit organizzativo rispetto ad un “modello di diligenza esigibile” configurerà quella rimproverabilità posta a fondamento della fattispecie sanzionatoria. La mancata adozione del modello organizzativo da parte della società, qualifica dunque la sua responsabilità quale oggettiva in senso stretto, mentre là dove viene adottato, se ne verifica un suo affievolimento, demandandosi agli organi di giustizia sportiva la verifica in concreto se il modello adottato e le relative cautele prese possano costituire un esimente o un’attenuazione della responsabilità ex art. 7 CGS. Ove tale accertamento risulti negativo, riespande anche in tal caso la responsabilità di tipo oggettivo (CFA, SS.UU., n. 58/2021-2022; CFA, Sez. I, n. 77/2021-2022; CFA, Sez. III, n. 82/2021-2022).

9.2. E’ evidente il richiamo a quelle regole sulla responsabilità da reato delle persone giuridiche fissate dal d.lgs 231/2001 che, nel superare il principio secondo il quale societas delinquere non potest, hanno comunque elaborato una serie di accorgimenti atti a temperare la responsabilità delle società attraverso l’adozione dei cd. “modelli organizzativi”.

Più volte è intervenuta sul tema la giurisprudenza penale di legittimità che ha recentemente riaffermato che “ l’ente risponde per fatto proprio e, per scongiurare addebiti di responsabilità oggettiva, deve essere verificata una “colpa di organizzazione” dell’ente, dimostrandosi che non sono stati predisposti accorgimenti preventivi idonei a evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato” (Cass. Pen., 2 agosto 2024, n. 31665; Sez. IV 19.2.2019 n. 32477).

Principio certamente non nuovo e autorevolmente elaborato della Sezioni Unite della S.C., che ha fornito una definizione della c.d. “colpa di organizzazione” indicandola nel “rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli.” (Cass. Pen.  S.U. 24.4.2014 n. 38343).

9.3 A tali considerazioni questa Corte federale ritiene di aggiungere che, nell’esaminare il modello di organizzazione (anche) il giudice sportivo deve operare secondo la metodologia della cd. “prognosi postuma”, al fine di verificare se, seguendo il modello, l’evento sarebbe stato impedito.

Quindi, per verificare l’idoneità del modello di organizzazione, il giudice sportivo deve compiere un giudizio prognostico; deve, cioè, collocarsi idealmente al momento in cui l’illecito è stato commesso e chiedersi se, seguendo il modello “virtuoso” previsto dalla norma, l’evento non sarebbe accaduto.

Con la precisazione che tale prevenibilità va valutata secondo criteri di comune esperienza e conoscenze disponibili al momento del fatto.

Pertanto, se l’evento era prevenibile mediante adeguate misure organizzative, la mancata adozione o attuazione di un modello idoneo integra la colpa di organizzazione e comporta la responsabilità dell’ente.

Se, peraltro, il comportamento illecito era del tutto imprevedibile – poiché qualunque modello di prevenzione adottato non sarebbe stato in grado di prevenirlo – l’ente va esente da responsabilità.

È evidente, che si tratta di apprezzamento che deve essere effettuato di caso in caso, in relazione alle specifiche modalità della fattispecie.

Con la precisazione che – mutuando quanto previsto in alcuni settori dell’ordinamento generale – devono ritenersi prevedibili - e quindi prevenibili - anche gli eventi cd. rari, quando la loro verificazione non è ignota all’esperienza comune.

Tale precisazione si impone, poiché la ratio, sotto tale profilo, della responsabilità per c.d. colpa organizzativa – in ambito sportivo – non è dissimile da quella, a suo tempo, sottesa alla cd. responsabilità oggettiva, come sopra evidenziato: l’esigenza di tenere indenni l’ordinamento sportivo dal verificarsi di episodi che mettano in serio pericolo la tutela dei valori etici che devono costituire i principi cardine di ogni esperienza umana e sulla garanzia dei quali vigila la giustizia sportiva.

E permangono, d’altro canto, le ulteriori ragioni connesse a necessità operative ed organizzative dell’ordinamento sportivo, trattandosi di strumento di semplificazione utile a venire a capo, in tempi celeri e compatibili con il prosieguo dell’attività sportiva e quindi con la regolarità delle competizioni e dei campionati, di situazioni di fatto che altrimenti richiederebbero, anche al fine di definire le varie posizioni giuridicamente rilevanti in campo, lunghe procedure e complessi, oltre che costosi, accertamenti; l’ordinamento sportivo, del resto, non può permettersi di lasciare determinati eventi impuniti o comunque privi di conseguenze sanzionatorie.

10. Alla stregua di tali criteri, deve allora valutarsi il comportamento dell’Alfonsi avvenuto in modo assolutamente casuale, a distanza di due giorni dalla disputa della gara, in orario scolastico, in un luogo privato o comunque del tutto sganciato dall’impianto sportivo o dalle sue pertinenze e dunque non riferibile all’attività sportiva.

La collocazione spazio-temporale di tale comportamento esclude il rapporto di occasionalità necessaria con l’organizzazione sportiva.

D’altro canto, la colpa organizzativa non può estendersi fino al punto di dover vigilare per l’intero arco della giornata sulla vita privata del tesserato: il che vale a riaffermare la inidoneità, comunque, dei modelli organizzativi là dove afferenti a condotte inesigibili.

Sulla base di tali considerazioni, ferma restando la responsabilità dell’Alfonsi, la società incolpata va prosciolta dall’addebito.

11. Quanto alla entità della sanzione da infliggere all’Alfonsi, la stessa appare congrua nella misura di sei giornate di squalifica tenuto conto della natura e della gravità del fatto commesso e accertato. Compito del giudice è infatti quello – così come accade nel sistema penale – di rispettare i canoni della proporzionalità e ragionevolezza che contribuiscono a rendere la sanzione stessa efficace e dissuasiva, in coerenza con quanto previsto dall’art. 12 del CGS, il quale prescrive che gli organi di giustizia sportiva, nella determinazione della specie ed entità delle sanzioni, devono tenere conto della natura e della gravità dei fatti commessi e accertati alla luce della valutazione delle circostanze aggravanti ed attenuanti e dell’eventuale recidiva (CFA, Sez. I, n. 85/20242025; Collegio di garanzia dello sport, 8 maggio 2023, n. 40).

P.Q.M.

accoglie in parte il reclamo in epigrafe e, per l’effetto, in riforma della decisione impugnata, irroga al sig. Nicolò Alfonsi la sanzione della squalifica di 6 (sei) giornate da scontarsi in gare ufficiali.

Proscioglie la società U.S. Sambenedettese SSDARL.

Dispone la comunicazione alle parti con PEC.

 

L'ESTENSORE                                                                IL PRESIDENTE

Renato Grillo                                                                    Mario Luigi Torsello

 

Depositato

 

IL SEGRETARIO

Fabio Pesce

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