F.I.G.C. – COMMISSIONE DISCIPLINARE NAZIONALE – 2012/2013 – Decisione pubblicata sul sito web: www.figc.it e sul Comunicato ufficiale n. 098 del 10 Giugno 2013 (312) – DEFERIMENTO DELLA PROCURA FEDERALE A CARICO DI: PIETRO FRANZA, VINCENZO FRANZA, FRANCESCO CAMBRIA, DOMENICO SANTAMAURA, CARMELO SAVINO CUTRÌ, STEFANO GALLETTI (Fallimento FC Messina Peloro Srl) ▪ (nota n. 6572/1459 pf09-10 AM/ma del 17.4.2013).

F.I.G.C. – COMMISSIONE DISCIPLINARE NAZIONALE – 2012/2013 – Decisione pubblicata sul sito web: www.figc.it e sul Comunicato ufficiale n. 098 del 10 Giugno 2013 (312) – DEFERIMENTO DELLA PROCURA FEDERALE A CARICO DI: PIETRO FRANZA, VINCENZO FRANZA, FRANCESCO CAMBRIA, DOMENICO SANTAMAURA, CARMELO SAVINO CUTRÌ, STEFANO GALLETTI (Fallimento FC Messina Peloro Srl) ▪ (nota n. 6572/1459 pf09-10 AM/ma del 17.4.2013). Il deferimento Con provvedimento del 17 aprile 2013, il Procuratore federale ha deferito a questa Commissione i Sig.ri: - Pietro Franza, per la violazione dell’art. 1, comma 1, del CGS, per aver posto in essere – in qualità di (a) procuratore speciale con tutti i poteri dal 31 luglio 2002 e sino alla sentenza dichiarativa di fallimento, (b) Presidente del Consiglio di amministrazione dal 31 ottobre 2003 al 1 agosto 2008, (c) amministratore delegato dal 13 gennaio 2003 al 1 agosto 2008 e di consigliere dal 1 agosto 2008 e sino alla sentenza dichiarativa di fallimento della Società F.C. Messina Peloro Srl – condotte in danno della Società consistite, principalmente, in (i) attività distrattive, di varia natura, e comunque attività dannose per l’integrità del patrimonio sociale (ii) indebita restituzione di conferimenti effettuati dai soci a titolo di aumento di capitale, (iii) falsità del bilancio al 31.12.2005. Il tutto come dettagliatamente esposto nell’atto di deferimento, e più ampiamente richiamato in parte motiva. - Vincenzo Franza, per la violazione dell’art. 1, comma 1, del CGS, per aver posto in essere – in qualità di (a) procuratore speciale con tutti i poteri dal 31 luglio 2002 e sino alla sentenza dichiarativa di fallimento, (b) Vice Presidente del Consiglio di amministrazione dal 31 ottobre 2003 al 1 agosto 2008, (c) amministratore delegato dal 13 gennaio 2003 al 5 aprile 2004 e dal 5 aprile 2004 al 1 agosto 2008, (d) Presidente del Consiglio di Amministrazione dal 1 agosto 2008 e sino alla sentenza dichiarativa di fallimento della Società F.C. Messina Peloro Srl – condotte in danno del patrimonio della Società consistite principalmente in (i) attività distrattive, di varia natura, e comunque attività dannose per l’integrità del patrimonio sociale (ii) indebita restituzione di conferimenti effettuati dai soci a titolo di aumento di capitale, (iii) falsità del bilancio al 31.12.2005, (iv) indebita compensazione - in violazione della “par condicio creditorum” - tra crediti nei confronti dei soci per versamenti in conto capitale e corrispondenti debiti nei confronti dei medesimi (v) falsità del bilancio al 31.12.2006. Il tutto come dettagliatamente esposto nell’atto di deferimento, e più ampiamente richiamato in parte motiva. - Francesco Cambria, per la violazione dell’art. 1, comma 1, del CGS, per aver posto in essere – in qualità di amministratore delegato della F.C. Messina Peloro Srl dal 1 agosto 2008 sino alla sentenza dichiarativa di fallimento – una indebita compensazione – in violazione della “par condicio creditorum” - tra crediti nei confronti dei soci per versamenti in conto capitale e corrispondenti debiti nei confronti dei medesimi. Il tutto come dettagliatamente esposto nell’atto di deferimento, e più ampiamente richiamato in parte motiva. - Domenico Santamaura, Carmelo Cutrì e Stefano Galletti, per la violazione dell’art. 1, comma 1, del CGS, per aver omesso – in qualità, rispettivamente, di Presidente (Domenico Santamaura) e membri (Cutrì e Galletti) del collegio sindacale della F.C. Messina Peloro Srl – di esercitare i doveri di vigilanza e i poteri ispettivi a loro assegnati su alcune operazioni poste in essere dagli amministratori, così concorrendo con costoro nelle attività distrattive poste in essere in danno del patrimonio sociale. Il tutto come dettagliatamente esposto nell’atto di deferimento, e più ampiamente richiamato in parte motiva. A sostegno del deferimento la Procura Federale ha prodotto copiosa documentazione trasmessa dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Messina ed acquisita nel corso delle indagini che hanno, poi, condotto al rinvio a giudizio dei deferiti per il delitto di cui all’art. 223, comma 1, del R.D. n. 267/42. La difesa della Società deferita Tutti i deferiti si sono costituiti nel procedimento – con l’assistenza del dott. Antonio Morgante e dell’Avv. Andrea Galli, presso il quale, in Perugia via Dante Alighieri 64 (06123 fax 075.5000023), hanno eletto domicilio - con unica memoria difensiva del 25.05.2013. Con l’ampia memoria depositata gli incolpati hanno richiesto che sia accertato: - in via preliminare: a) l’inammissibilità e/o improcedibilità del deferimento – anche alla luce dei criteri interpretativi forniti dalla Corte Federale con parere del 28.06.2007 – nei confronti dei Sig.ri Pietro Franza, Vincenzo Franza e Francesco Cambria, per violazione del principio del “ne bis in idem”, conseguente alla sussistenza di anteriore decisione emessa da questa stessa Commissione all’esito di precedente deferimento della Procura per violazione degli art. 21.2 e 21.3 (C.U. n. 37/CDN del 9.12.2010), b) la nullità e/o inammissibilità e/o improcedibilità del deferimento per eccessiva genericità degli addebiti contestati, ovvero per inconferenza e/o erroneità del richiamo all’art. 1, comma 1, CGS, quale norma asseritamente violata; - in via preliminare di merito: la prescrizione di parte delle condotte contestate; - in via interinale di merito: la sospensione del procedimento disciplinare in attesa della definizione del processo penale attualmente in corso a carico dei deferiti, anche in funzione di quanto previsto dall’art. 22bis delle NOIF. - nel merito: il proscioglimento di tutti i deferiti per la insussistenza delle violazioni a essi ascritte Alla riunione odierna, la Procura federale rappresentata dalla Dott.ssa Serenella Rossano ha insisto per la affermazione della responsabilità di tutti i deferiti, richiedendo la applicazione delle sanzioni che seguono: - Pietro Franza: inibizione di anni 5 (cinque) con preclusione alla permanenza in qualsiasi rango o categoria della FIGC; - Vincenzo Franza: inibizione di anni 5 (cinque) con preclusione alla permanenza in qualsiasi rango o categoria della FIGC; - Francesco Cambria: inibizione di anni 4 (quattro) oltre all’ammenda di € 40.000,00 (€ quarantamila/00); - Domenico Santamaura: inibizione di mesi 18 (diciotto) oltre all’ammenda di € 10.000,00 (€ diecimila/00); - Carmelo Cutrì: inibizione di mesi 18 (diciotto) oltre all’ammenda di € 10.000,00 (€ diecimila/00); - Stefano Galletti: inibizione di mesi 18 (diciotto) oltre all’ammenda di € 10.000,00 (€ diecimila/00); L’Avv. Andrea Galli ha insistito nelle proprie deduzioni difensive, e ha concluso per il proscioglimento di tutti i deferiti. Motivi della Decisione I.- Sulla eccezione di ne bis in idem 1.- La difesa dei deferiti Franza (2) e Cambria ha - in via logicamente “pregiudiziale/preliminare” – eccepito la “nullità o inammissibilità o improcedibilità del provvedimento per violazione del principio del ne bis in idem” con riferimento al precedente procedimento che ha dato luogo alle irrogazione - da parte di questa stessa CDN – delle sanzioni della inibizione, rispettivamente, per tre anni (P. Franza; V. Franza), e un anno (F. Cambria). Tale eccezione si fonda, nell’ordine: - sulla coincidenza letterale di talune proposizioni recate in entrambi i deferimenti. - sulla circostanza che la prima decisione – in aderenza al principio fissato dalla Corte Federale (CU 21/Cf 28.06.2007) in ordine alla necessarietà, ai fini della irrogazione delle sanzioni previste dall’art. 21.3. NOIF, dell’accertamento di profili di colpa dell’Amministratore, con conseguente esclusione di ogni automatismo - avrebbe già esaminato e valutato tutte le condotte ora oggetto dell’odierno procedimento e che, dunque, si differenzierebbero dalle prime soltanto in funzione della loro nuova “qualificazione giuridica”, mutuata dal provvedimento di rinvio a giudizio del processo penale 2.- A fronte dell’assorbente rilievo di tale eccezione, e della complessità delle questioni che essa pone, questa Commissione ha ritenuto opportuno compiere un percorso di approfondimento completo e organico ricomprendente: - una sintetica disamina del principio generale del “ne bis in idem”, e della evoluzione di cui esso è stato, anche di recente, oggetto in molti ordinamenti. - il recepimento di questo principio da parte degli ordinamenti sportivi, e, le concrete modalità, e i relativi limiti, entro i quali esso può trovare corretta applicazione. - il principio specificatamente fissato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite in ordine alla non invocabilità della eccezione “ne bis in idem” con riferimento alle distinte condotte configuranti - ciascuna anche in via autonoma - il reato di bancarotta fraudolenta di cui all’art. 216 L.F.. - la conseguente (non) applicazione - alla luce degli elementi che precedono – del principio del “ne bis in idem” alla fattispecie concreta in esame. 2.1.1.- Il principio – espresso dal brocardo “ne bis in idem” – che impedisce che un soggetto possa essere processato per due volte in relazione agli stessi fatti appare sorretto da due ben distinti ordini di ragioni Il primo e principale fondamento di questo principio attiene, invero, ai diritti fondamentali dell’individuo che ha, appunto, il diritto “naturale” di avere piena certezza che il giudizio cui sia stato eventualmente sottoposto si concluda con una decisione definitiva e inscalfibile, e - al tempo stesso, e sotto un profilo logicamente contiguo, ma più estremo - è anche individuabile nella necessità di evitare in radice che un sistema giudiziario – che dispone di mezzi economici e inquisitori maggiori, per definizione, dei mezzi di difesa a disposizione del semplici cittadini – possa, quale che ne sia il motivo, accanirsi, senza limite di tempo, contro un qualsivoglia individuo. La seconda ragione fondante è, invece, di natura assai diversa, e attiene non già alla funzione etica che gli ordinamenti assegnano all’idea e al concetto di giustizia sostanziale, quanto alle finalità pratiche di certezza, rapidità, regolazione dei rapporti delle Comunità e conseguente stabilità delle medesime (“ne cives ad arma ruant”) che – a prescindere dall’intervento di verdetti effettivamente giusti – risultano pienamente assolte già dalla mera esistenza - in fatto e in concreto - di una amministrazione “compiuta” e ordinata della giustizia. 2.1.2.- Nel tempo – e, soprattutto, negli ultimi decenni – il principio del “ne bis in idem” ha esteso la propria generale sfera di applicazione, sia all’interno dell’ordinamento statuale, che negli altri ordinamenti e nell’ordinamento europeo. Nell’ordinamento italiano – nel quale il principio in questione non assurge, in via diretta, a dignità costituzionale – costituisce sostanziale attuazione di questo orientamento estensivo, soprattutto in materia penale, il progressivo estendersi della preclusione stabilita dall’art. 649 c.p.p. (“… l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o con decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto”) anche a provvedimenti formalmente e sostanzialmente diversi dalla sentenza irrevocabile di merito, e, in particolare, alla semplice “attuale” pendenza di altro processo. La “progressione” del principio in esame è riscontrabile, inoltre, in sede di normativa europea ove esso – che come ricordato non aveva trovato spazio nella Costituzione italiana, pure considerata fra le più avanzate – risulta ora inserito – art. 50 – nel testo del CDFUE (Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea). 2.1.3.- Devesi, peraltro, sottolineare come (i) da un lato, tale applicazione più estensiva risulti dettata dalla sempre maggiore sensibilità che le Società moderne hanno sviluppato in favore delle richiamate esigenze pratiche che, come più sopra chiarito, costituiscono uno degli elementi fondanti del principio in esame, (ii) dall’altro, per un verso, resti ben saldo e “conservato” il principio sostanziale giusta il quale la preclusione insorge solo allorquando sia stato sottoposto a giudizio, in concreto ed effettivamente, il medesimo fatto, e, per altro verso, resti, comunque, escluso che - attraverso qualsivoglia formale e comunque troppo estesa applicazione di questo principio - si possa approdare, per taluni fatti costituenti reato, alla sostanziale, quanto inaccettabile, impunità dei loro autori. Espressione della corretta modulazione di questo principio, in termini di limiti della sua applicabilità, è rappresentata, nel nostro ordinamento penale, da una recente sentenza delle S.U. – che in quanto relativa, proprio a fatti di bancarotta fraudolenta (che costituiscono oggetto dell’odierno procedimento), sarà oggetto in appresso di più approfondita disamina – che ha ribadito l’indirizzo giusta il quale è possibile, in caso di fallimento, che siano celebrati successivi processi di bancarotta fraudolenta, ove, volta per volta, siano accertate le ben distinte – pur se previste dalla stessa norma – condotte, che, anche in via autonoma, integrano tale reato. Una significativa limitazione – discendente da evidenti e superiori ragioni di giustizia sostanziale - della applicazione del “ne bis in idem” si riscontra, invero - in un quadro ove le più sopra richiamate esigenze di celerità delle Società moderne devono segnare il passo rispetto a principi e interessi necessariamente prevalenti e non sacrificabili – sul piano transnazionale, negli statuti dei Tribunali Penali Internazionali. Tali Statuti, infatti – a fronte e a difesa di interessi e principi “collettivi” di gran lunga prevalenti rispetto a quelli della certezza e della celerità del sistema giudiziario, e facendo quindi ricorso a previsioni di segno evidentemente opposto a quelle “evolutive” sinora cennate - ha disposto che il principio del “ne bis in idem” non sia opponibile ai Tribunali penali Internazionali allorché la sentenza dello Stato nazionale abbia definito i crimini come “ordinari”, ovvero il sistema giuridico dello Stato che ha emesso la prima decisione non sia da considerare imparziale e/o indipendente 2.1.2.- L’Ordinamento sportivo – per quanto autonomo, e indipendente – deve - pur in assenza di norme interpretative e/o residuali, che dispongano un generale rinvio all’ordinamento Statuale – tener conto dei principi fissati dalle norme dello Stato e interpretati dalla giurisprudenza, e non può, soprattutto, contravvenire ai principi fondamentali introdotti dalla Costituzione Italiana e dalla Comunità Europea. E’ evidente, infatti, che le norme e i principi ordinari della normativa statuale – in quanto costituenti parte essenziale della costituzione materiale del Paese, e, comunque, immanenti ai rapporti e alle relazione dei suoi cittadini – debbano, in via generale, presiedere alla interpretazione e applicazione della - spesso assai sintetica e scarna – normativa sportiva. La interpretazione delle norme esistenti, la risoluzione di questioni che non trovano in esse compiuta regolamentazione, e ogni altra incertezza applicativa deve, insomma, essere preferenzialmente risolta sulla base dei principi dell’orientamento sportivo latamente inteso (normative federali - normative sportive internazionali e nazionali – normativa statuale di settore), ma mantenendo - come riferimento interpretativo finale - gli istituti principi e le norme ordinarie, che certamente consentono la più corretta risoluzione di questioni che – se pur insorte all’interno e nelle dinamiche di un ordinamento particolare – sono, tuttavia, sempre riferibili a rapporti, regole generali e consuetudini radicati nel Pese, e, dunque, influenzati dalle normative nazionali che normalmente li regolano. Quanto, invece, ai “superprincipi” e alle “supernorme” di rango costituzionale o europeo, non è dubbio che – fatta salva qualche maggiore autonomia applicativa discendente dalla particolarità degli ordinamenti sportivi – essi si pongono come regole non rinunciabili e fonte primaria per la interpretazione delle altre norme. In forza delle considerazioni preliminari innanzi esposte, il principio del “ne bis in idem” – con tutti i suoi elementi caratterizzanti – in quanto previsto sia dalla normativa statuale, che, soprattutto, da quella europea trova, dunque, immediato ingresso e diretta applicazione anche all’interno degli ordinamenti sportivi. Tale principio, peraltro, appare consono anche al generale principio di rapidità della giustizia fissato all’art. 4.7 dei Principi di Giustizia Sportiva stabiliti dal consiglio nazionale del CONI. 2.2.2.- La vincolante applicazione del divieto di “bis in idem” è stata, peraltro, espressamente ribadita, con decisione recente, dall’Alta Corte di Giustizia Sportiva – la quale, tuttavia, non ha mancato di tornare a tracciare il corretto confine tra il divieto di un nuovo processo sugli stessi fatti, e la non estensibilità della preclusione del già deciso a fatti che, invece, necessitano e meritano una valutazione e una decisione sino a quel momento non intervenute: “…il divieto non può applicarsi quando vi sia una previsione normativa di possibilità di separazioni di questioni derivanti da pregiudizialità necessaria o da possibilità di distinzioni e separazione di oggetti delle pronunce per esigenze di economia processuale… In altri termini assume rilevanza, per applicare o meno il ne bis in idem, non tanto che il giudizio verta solo sullo stesso rapporto o sulla medesima causa petendi, ma che la resgiudicanda – o una sua parte – intesa anche come questione o domanda (a seconda del tipo di procedimento) sia enucleabile (in base a normativa unitaria e non stratificazione di interventi punitivi) e sia rimasta da decidere, perché non poteva o non doveva essere ricompresa nel thema decidendum del primo giudizio, in modo da essere giuridicamente (conformemente a previsione normativa) e logicamente compatibile e non sovrapponibile con la precedente procedura e decisione.” (Alta Corte di Giustizia Sportiva 11.05.2012 n. 7). 2.2.3.- Da ultimo – e a corollario di tutte le considerazioni che precedono – appare doveroso sottolineare come la peculiarità dell’ordinamento sportivo imponga – allorquando si tratti di fattispecie di particolare gravità soprattutto sul piano etico – di far ricorso a una valutazione comparativa ( logicamente analoga a quella che, con riferimento a diritti di ben altra rilevanza, ha fondato l’applicazione restrittiva del principio in esame nei confronti del Tribunale Penale Internazionale) tra le più volte richiamate esigenze pratiche che concorrono a fondare il divieto di “bis in idem” e gli elementi fondanti di lealtà e correttezza che informano, dalla radice, l’ordinamento sportivo. Appare, invero, evidente che un ordinamento ispirato da particolari valori umani, sociali ed etici, retto da uno Statuto che individua e quasi esaurisce i propri “principi fondamentali” (art. 2) nella previsione di una attività della Federazione di “leale collaborazione con le autorità pubbliche…”, volta a far si che i “giovani ricevano una formazione educativa e lavorativa” e si propone di “combattere ogni forma di discriminazione sociale, di razzismo, di xenofobia e di violenza”, e il cui Codice di Giustizia Sportiva prevede all’art. 1.1 unicamente “l’obbligo di comportarsi secondo i principi di lealtà, correttezza, e probità” non può che imporre - in via logica, quanto assolutamente necessaria - che il principio del “ne bis in idem” sia applicato con assoluto rigore, dovendosi per certo evitare - anche a costo di diseconomie processuali, e di svolgimento di attività (apparentemente) inutili - che fatti di gravità etica rilevante possano non essere oggetto di specifica e approfondita valutazione, e conseguente decisione. In altri termini - e in via esemplificativa di questo generale “distinguo” nell’atteggiamento degli ordinamenti - se comprensibili esigenze di certezza inducono gli ordinamenti statuali a consentire la impossibilità di processare e condannare un individuo, pacificamente colpevole di taluni reati, in quanto, in precedenza, erroneamente assolto con sentenza passata in giudicato, nell’ordinamento sportivo una tale fattispecie è poco compatibile con le peculiarità metagiuridiche di questo ordinamento, e, conseguentemente – ferma restandone la intangibilità - il principio del “ne bis in idem” sembra dover trovare applicazione nel senso più rigoroso di cui si è detto. 2.3.- Passando ora alla più specifica questione di merito oggetto della disamina in corso – la configurabilità del divieto di “bis in idem” nelle fattispecie processuali relative a fatti, configuranti il reato di bancarotta fraudolenta – devesi osservare come le Sezioni Unite della Cassazione siano, di recente, nuovamente intervenute per confermare il precedente e prevalente orientamento giusta il quale è possibile che un soggetto sia sottoposto, in caso di fallimento, a successivi processi per bancarotta, senza che la pendenza di quelli precedentemente instaurati ovvero anche l’intervento di sentenze irrevocabili possa costituire preclusione. Tale affermazione trova fondamento nella circostanza che i reati di bancarotta, e lo stesso specifico reato di bancarotta fraudolenta costituiscono illeciti commissibili con le più svariate e diverse condotte – spesso tra esse del tutto fungibili – si che ciò che rileva ai fini del giudicato preclusivo non è il “generale” reato oggetto del primo processo, ma, unicamente, gli specifici fatti che in esso risultano specificatamente contestati e accertati (“La bancarotta fraudolenta patrimoniale, quella fraudolenta documentale, quella preferenziale, le plurime e diverse ipotesi di bancarotta semplice, la bancarotta prefallimentare e quella post-fallimentare si concretizzano attraverso condotte diverse, determinano eventi diversi, hanno gradi di offensività non omologhi, sono sanzionate in modo differenziato, non tutte coincidono come tempo e luogo di consumazione (la bancarotta pre-fallimentare si consuma nel momento e nel luogo in cui interviene la sentenza di fallimento, mentre la cosumazione di quella post-fallimentare si attua nel tempo e nel luogo in cui vengono posti in essere i fatti tipici) …più condotte tipiche di bancarotta poste in essere nell’ambito di uno stesso fallimento mantengono la propria autonomia ontologica e danno luogo a un concorso di reati, che vengono unificati, ai soli fini sanzionatori, nel cumulo giuridico …“deve escludersi, con riferimento a condotte di bancarotta ancora sub iudice, la preclusione dell’eventuale giudicato intervenuto su altre e distinte condotte di bancarotta relative alla stessa procedura concorsuale” (Cass. Pen. Sez. Un. 27.01.2011 n. 21039) 2.4.- Alla luce delle considerazioni più sopra svolte la sollevata eccezione di ne bis in idem risulta, con tutta evidenza, priva di ogni fondamento. Appare opportuno precisare, in via preliminare, come tale eccezione non trovi fondamento nemmeno nel “titolo” della incolpazione: l’odierno deferimento è compiuto, infatti, ex art. 1.1. CGS mentre l’asserita preclusione consegue a un procedimento avente a oggetto la sola fattispecie prevista all’art. 21.3. NOIF. Devesi, peraltro, osservare come – giusta quanto più sopra illustrato in ordine alla natura sostanziale di questa preclusione e, più precisamente, al fatto che essa trae origine esclusiva dalla eventuale identità degli specifici fatti contestati e accertati risultando sostanzialmente irrilevante il titolo giuridico della imputazione e della condanna – nella specie la situazione non sarebbe di certo mutata anche se la Procura avesse di fondare l’odierno deferimento sempre sul medesimo art. 21.3. NOIF. Ove cioè la Procura avesse ritenuto che l’art. 21.3. NOIF costituisca una sorta di norma generale, “contenitore”, di molteplice condotte e corrispondenti indebiti – analoga alle norme che regolano le ipotesi delittuose di bancarotta, che si caratterizzano per la previsione di molteplici e autonome condotte, tutte idonee a integrare, anche singolarmente, la consumazione del reato (fermo l’eventuale intervento, “quoad penam” della particolare riduzione di pena conseguente alla c.d. “continuazione fallimentare”) – ma di contenuto ancora più generico e, dunque, più ampio, volto a sanzionare tutti i comportamenti indebiti degli amministratori che siano stati commessi in occasione di un fallimento (da quelli meno gravi, meramente colposi, a quelli dolosi di estrema gravità) le che, dunque – analogamente a quanto accade al sistema penale - la stessa norma possa essere posta a fondamento di successivi procedimenti aventi ad oggetto fatti diversi sotto il profilo temporale oggettivo e di gravità e, dunque, operato un odierno deferimento a questo stesso titolo, - non si sarebbe comunque dato vita ad alcuna “identità”, suscettibile di essere oggetto del divieto di “bis in idem”. La circostanza dirimente, infatti – rafforzata da quanto più sopra specificatamente rammentato in ordine alla non configurabilità, nelle fattispecie di bancarotta, di automatiche preclusioni discendenti dall’intervento di un giudicato per lo stesso titolo di reato - è infatti costituita dalla indispensabile identità dei fatti, e non dei titoli giuridici ad essi ascritti, che nella specie è radicalmente assolutamente da escludere. Dall’esame del primo procedimento emerge, invero, come sia il deferimento che la conseguente condanna abbiano avuto unicamente ad oggetto una sommaria valutazione del disordine gestionale che aveva condotto la Società al fallimento e lo specifico accertamento dei ruoli formali e sostanziali ricoperti, nel tempo, dagli incolpati al fine di poter motivatamente addebitare ad essi le rispettive responsabilità. In quel primo procedimento, peraltro, non era nemmeno presente alcun dato che consentisse di conoscere, accertare e valutare tutte le altre specifiche condotte – di assoluta gravità – oggetto in questo procedimento. Né, invero, una tale valutazione era sostanzialmente possibile atteso anche che gli accertamenti compiuti in occasione del primo procedimento sono stati completati anteriormente al 31.12.2009, mentre il decreto di rinvio a giudizio del GIP di Messina – a seguito del quale è stato avviato l’odierno procedimento e possibile avere cognizione delle risultanze delle approfondite indagini in quella sede svolte - risale al successivo 13.05.2010. Non solo, dunque, le odierne fattispecie non sono mai state contestate e accertate ma, a ben vedere, non era nemmeno possibile farlo (si che sembra ricorrere anche la specifica fattispecie semplificativa dell’Alta Corte più sopra rammentata: “…non doveva o non poteva essere ricompresa nel thema decidendum del processo …” Tutte le considerazioni più sopra svolte impongono dunque di ritenere priva di ogni fondamento la sollevata eccezione di ne bis in idem. II.- Validità dell’atto di deferimento 1.- Tutti gli incolpati hanno, quindi, avanzato ulteriore eccezione preliminare deducendo “la nullità, inammissibilità o improcedibilità del provvedimento di deferimento” per (i) “eccessiva genericità degli addebiti”, (ii) ovvero per “inconferenza o erroneità del richiamo all’art 1.1/CGS come norma asseritamente violata”. Entrambe le censure non hanno pregio. 2.- Quanto alla censura di “eccessiva genericità”, devesi osservare come, in sede di illustrazione di tale preteso vizio, la difesa degli incolpati si soffermi, principalmente, su aspetti non rilevanti (la assenza dei motivi e delle ragioni sottese alla commissione delle singole violazioni), ovvero, e assai diffusamente, sulla fondatezza di merito dei relativi addebiti che, con tutta evidenza, attiene alla difesa generale di merito e non alla correttezza del capo di imputazione. La Procura, invero – prima tracciando un quadro dettagliato in ordine alle cariche sociali assunte nei singoli periodi, da ciascuno degli incolpati, e, quindi, utilizzando integralmente il contenuto del dettagliato decreto di rinvio a giudizio emesso dal GIP di Messina (il relativo richiamo testuale non costituisce, dunque, un vizio, ma quanto una prudente cautela adottata proprio al fine di rendere un quadro di contestazione esauriente e specifico) – ha contestato con assoluta precisione tutte le condotte e i fatti oggetto della incolpazione. 3.- In ordine, invece, alla contestazione giusta la quale il deferimento compiuto ai sensi dell’art. 1.1. CGS sarebbe inammissibile in quanto fondato su una norma avente natura residuale, in spregio alla esistenza della norma dell’ordinamento (art. 21.3 NOIF) che specificatamente regolerebbe i fatti contestati, e solo in forza della quale si sarebbe potuto dare origine un valido deferimento, essa appare priva di fondamento, sotto più profili. Anzitutto, devesi osservare come il richiamato articolo 21.3 NOIF. – anche successivamente all’intervento interpretativo della Corte Federale (28.06.2007 C.U. n. 21 C/F) che ha ribadito la natura non meramente automatica della sanzione ivi prevista a seguito del fallimento – pur estendendo la propria sfera di applicazione anche a condotte non influenti nella determinazione del dissesto e, in questo quadro, ai “comportamenti scorretti sotto il profilo sportivo” – con ciò attribuendo alla dichiarazione di fallimento la natura di mera condizione di punibilità e non di elemento costitutivo dell’illecito – ha conservato, e, anzi, confermato il proprio contenuto sanzionatorio rivolto a punire, in caso di fallimento, i comportamenti colposi degli amministratori - in quanto tali, e non in quanto necessariamente causativi del dissesto – e, in generale, anche comportamenti di maggiore gravità, senza, tuttavia, ricomprendere nella propria elementare previsione i più gravi comportamenti che integrano, sul piano penale, il reato di bancarotta. Dalla precisazione che precede discende che i fatti ora contestati - a seguito delle risultanze delle indagini penali - concernenti condotte dolose di particolare gravità, che hanno concorso alla causazione del fallimento, o ne hanno, comunque, aggravate le conseguenze si pongono al di fuori e al di là della semplice previsione di cui all’art. 21.3. NOIF volta a generalmente sanzionare, in caso di fallimento, tutti i comportamenti posti in essere dagli amministratori, anche solo sotto il profilo della scorrettezza sportiva. Tali gravissimi fatti - non essendo oggetto di alcun’altra previsione normativa – possono, e debbono, dunque, essere contestati ai sensi dell’art. 1.1 CGS, che ricomprende tutti – senza eccezione alcuna - i comportamenti contrari ai principi di lealtà e probità, compresi quelli di particolare gravità configuranti il reato di bancarotta fraudolenta. Da ultimo, e per completezza di quadro, devesi osservare come – anche a voler ritenere la fondatezza della tesi degli incolpati, in ordine, alla astratta ricomprensione dei fatti contestati, nella previsione normativa di cui all’art. 21.3 NOIF (v. supra par. I; 2.4) con conseguente inammissibilità del ricorso alla richiamata previsione residuale di cui all’art. 1.1 CGS. - la correttezza sostanziale del deferimento, e, dunque, sotto questo profilo, anche di una decisione che, in questo grado ( in via di astratta ipotesi), o in fase di gravame, avesse a pronunciare un accertamento di responsabilità direttamente ex art.21.3 NOIF (così modificando la “rubrica” del deferimento): - non è, in ogni caso, revocabile in dubbio. Ove anche, infatti, si avesse a ritenere che l’art. 21.3 NOIF. (i) preveda e punisca anche fatti diversi e assai più gravi dei meri “comportamenti colposi” dei quali gli amministratori delle Società fallite si siano resi responsabili - in ogni campo delle proprie attività e anche senza effetti causativi del dissesto, (ii) così ricomprendendo e sanzionando anche le condotte dolose di bancarotta fraudolenta, nessun rilievo di non corrispondenza tra chiesto e pronunciato, e, dunque, ostativo di una pronuncia di condanna potrebbe essere legittimamente avanzato in forza della assenza, nel capo di imputazione, di una formale contestazione della violazione della norma in esame. La violazione del principio di corrispondenza tra la fattispecie contestata e quella posta a fondamento della condanna si ravvisa, infatti, solo allorché “il fatto ritenuto nella decisione si trova, rispetto al fatto contestato, in rapporto di eterogeneità, nel senso che risultano variati o trasformati gli elementi costitutivi dell’ipotesi di reato descritta nel capo di imputazione, e non già quando gli elementi essenziali che caratterizzano la qualificazione giuridica del fatto sono rimasti invariati” (Cass. pen. sez. VI, 20.02.2003), nonché allorquando “la modifica dell’imputazione pregiudichi le possibilità di difesa dell’imputato” (Cass. pen. sez. III, 14.06.2011 n. 36817). Nella specie i fatti ancorché ritenuti sanzionabili unicamente ai sensi dell’art. 21.3 NOIF. non risulterebbero in alcun modo modificati da tale diversa qualificazione, con conseguente impossibilità di una qualche, anche minima, violazione dei diritti di difesa degli incolpati, i quali, peraltro - a conferma della conservata piena integrità, in fatto, dei propri diritti difensivi - non hanno mancato di espressamente difendersi anche con riferimento allo specifico merito previsto dall’art. 21.3 NOIF. Quanto al diverso titolo dell’illecito eventualmente posto a fondamento della condanna, esso non potrebbe comunque assumere alcun rilievo trattandosi di fattispecie meno grave rispetto a quella contestata (sul punto cfr. Cass. pen. sez. VI 03.10.1996 n 2793; Cass. pen. Sez. IV 31.01.2008 n. 8617 Cass. pen. Sez. V 13.12.2006 n. 189 ), e, dunque, astrattamente contenuta nella più ampia (se pur residuale) previsione dell’art. 1.1. CGS, in applicazione della quale – e a conferma di tale maggiore gravità – la procura ha coerentemente avanzato richiesta di condanna più grave rispetto a quella massima della preclusione prevista all’art. 21.3 NOIF (la Procura, infatti, oltre alla preclusione, ha richiesto la applicazione della sanzione all’ammenda a carico di ciascuno degli incolpati). III. Infondatezza della eccezione di prescrizione 1.- Tutti gli incolpati hanno avanzato eccezione di prescrizione in ordine alla metà dei capi di imputazione, con esclusione - con riferimento al paragrafo p) del deferimento - del capo B (condotte distrattive pacificamente conclusesi nel dicembre 2006) contestato agli incolpati Pietro e Vincenzo Franza e ai componenti del collegio sindacale, dei capi E-F- (illecite compensazioni in violazione della “par condicio” in favore del socio Co:FI.Mer operate nell’anno 2008) contestate a V. Franza e a Francesco Cambria, del capo G (falsità del bilancio 31.12.2006) contestato a V. Franza e a Cambria), e del capo di cui al paragrafo r del deferimento (violazione del D.lgs. 231/01 compiuta nel 2007) contestata a V. Franza. Gli incolpati sostengono, infatti, che tutte le incolpazioni relative a fatti intervenuti anteriormente al 30.06.2006 sarebbero estinte per prescrizione essendo trascorso - rispetto ai comportamenti contestati - il termine massimo della sesta stagione successiva (30.06.2012). Si tratta, infatti, di condotte – sempre eterogenee – compiute in epoca anteriore, se pur di pochi giorni, al 30.06.2006: falso in bilancio 2005, indebita restituzione in denaro e indebite compensazioni compiute in violazione della par condicio creditorum. La sollevata eccezione è priva di ogni fondamento per le ragioni – autonomamente concludenti – in appresso illustrate: 2.- E’ pacifico che la prescrizione dei reati fallimentari decorre unicamente dal momento in cui interviene la dichiarazione di fallimento. Che tale dichiarazione sia considerata elemento costitutivo di tali reati , ovvero semplice condizione obiettiva di punibilità, il risultato, sul piano prescrizionale, non muta ed è incontroverso: la prescrizione non può che decorrere dal momento in cui il reato risulta effettivamente integrato, in tutti i suoi elementi e, comunque, punibile. Anche la prescrizione dell’illecito “colposo” e, generico, prevista all’art. 21.3. delle NOIF decorre dal fallimento che – al di là della sua qualificazione giuridica – costituisce in concreto l’elemento che, secondo la richiamata norma, rende specificatamente (e più gravemente) punibili tutti i comportamenti che - solitamente, o occasionalmente – ruotano attorno alla fattispecie fallimentare, taluni dei quali, peraltro, irrilevanti, o comunque non punibili, in difetto di successiva effettiva decozione formale (p.es. il pagamento eseguito in violazione della “par condicio” che non costituisce indebito e ove l’impresa non si dichiara fallita). Tale decorrenza è, invero, pacifica non solo in considerazione di quanto stabilito per le violazioni analoghe nell’ordinamento penale di riferimento (reati di bancarotta), ma anche dei principi e della logica, - che non consentono certo che la prescrizione possa maturare allorché la azione necessaria alla sua interruzione non possa essere comunque intrapresa - e risulta invero confermata anche da questa Commissione in precedenti decisioni. E’ evidente, a questo punto, che la prescrizione dei comportamenti di bancarotta fraudolenta - specificatamente contestati in questa sede sportiva attraverso la trascrizione, nel deferimento - dei relativi capi di imputazione penale - non può che decorrere dal momento in cui viene ad esistenza l’elemento costitutivo (o condizione) di questo genere di illeciti. A pensarla diversamente - oltre a violare i principi generali e la logica - si perverrebbe al paradosso per il quale i gravi comportamenti dolosi qui contestati, “congiuntamente” al fallimento, e in rapporto causativo o, comunque, “aggravativo” del medesimo ex art. 1.1. CGS, sarebbero soggetti a una prescrizione più breve di quella che attiene ai meno gravi comportamenti meramente colposi rilevati in occasione del fallimento, previsti all’art. 21.3 CGS delle NOIF. A corollario della considerazione che precede – in funzione generalmente confermativa della correttezza della relativa prospettazione – devesi osservare come, ove si avesse a ritenere che i più gravi fatti di cui è processo avrebbero dovuto essere oggetto di un nuovo deferimento ex art. 21.3 ammissibile in funzione della assoluta diversità e della novità dei fatti contestati rispetto a quelli già oggetto di giudizio - la questione della prescrizione non sarebbe nemmeno prospettabile, considerata la sua pacifica decorrenza a far data dalla sentenza di fallimento La prescrizione degli indebiti contestati, dunque, non può che decorrere dalla dichiarazione di fallimento del Messina, intervenuta in data 21.11.2008, con conseguente compimento del relativo termine al 30.06.2015 3.- i reati di bancarotta sono unificati - anche in forza di specifica previsione normativa (art. 219 LF) - dal vincolo della continuazione e dalla conseguente riduzione di pena (cd. “continuazione fallimentare”). Costituisce principio di diritto comune e consolidato che la prescrizione decorra – sia nel reato permanente, che in quello continuato - dall’ultima condotta di reato ricollegabile al medesimo disegno criminoso. Anche l’ordinamento penale italiano aveva stabilito, in origine, tale principio. Tra le modifiche di recente apportate al sistema prescrizionale (l. 5.12.2005 n. 1251) si annovera anche la modificazione dell’art. 158 c.p. nella parte in cui prevedeva la decorrenza della prescrizione “dal giorno in cui è cessata la continuazione” Senza entrare nel merito di tali modifiche normative, tuttora oggetto di costanti rilievi in sede europea, devesi osservare come esse – sia per il limitato periodo della loro vigenza, che per la “ratio” certamente di natura pratica (volta ad alleggerire l’eccessivo odierno peso dei ruoli della giustizia penale) – non risultino idonee a immutare un principio giuridico consolidato e fondato sulla sostanziale e rilevante unitarietà di taluni illeciti. Per quanto concerne l’ordinamento sportivo, devesi richiamare quanto più sopra illustrato (v. supra I; 2.2.3.) in ordine ai suoi principi informatori, e, dunque, alla esigenza - e, per dir meglio, alla necessità - che ogni scelta interpretativa e applicativa della norma sia orientata alla ricerca, al mantenimento e alla riaffermazione e alla difesa dei più alti valori umani, etici e sociali. In questo quadro – al cospetto di fatti indubbiamente gravi, sia in generale, che per il corretto svolgimento e la diffusione delle attività sportive – appare logico e dovuto ricorrere a una applicazione normativa volta a correttamente circoscrivere le ipotesi in cui il trascorrere del tempo, di per se considerato, e, quindi, in difetto di comportamenti di segno opposto consenta a soggetti resisi responsabili di gravi irregolarità di sfuggire ogni sanzione, e di permanere, senza soluzione di continuità o altre limitazioni, all’interno dell’ordinamento sportivo. Prediligere tale interpretazione orientata non significa non applicare rigorosamente le norme sulla prescrizione anche nel loro versante favorevole agli incolpati, tenendo conto, in caso di comportamenti indebiti di non grande rilievo, ovvero di fatti con riferimento ai quali i mezzi di difesa processuali tendono, nel tempo, a perdere la propria capacità ed efficacia (come tutte le fattispecie nelle quali l’impianto probatorio è unicamente orale e testimoniale) della necessità di considerare la inopportunità del loro perseguimento a distanza di tempo rilevante; ma coniugare – sempre nel rispetto di norme e principi – le esigenze sottese alla prescrizione con quelle generale del nostro ordinamento. In conclusione – e in via subordinata a quanto più sopra dedotto, ma egualmente risolutiva della eccezione avanzata – si ritiene che la prescrizione di tutti gli illeciti contestati non possa che decorrere dall’ultima condotta – le indebite compensazioni operate in sede di aumento di capitale nell’anno 2008 (capi C e D del paragrafo p) del deferimento) – che ha costituito espressione della unitarietà del disegno ad esse sotteso, con conseguente compimento della eventuale prescrizione al 30.6.2015. 4.- la contestata falsità dei bilanci 2005 e 2006 (capi D e G dl paragrafo p) del deferimento) integra con tutta evidenza – e “per difetto” - l’ illecito amministrativo previsto all’ art.8.1 CGS in caso di false comunicazioni agli enti federali. Il termine di prescrizione per i relativi singoli illeciti – in tal guisa autonomamente e “riduttivamente” considerati - si compie – all’esito della intervenuta interruzione, e, dunque, ex art.25.1 b) e 25.2 - al termine della nona ( 6+3) stagione successiva a quella nella quale risulta commesso il fatto. Fermo quanto precede, è anche qui evidente come sarebbe illogico e paradossale, e, dunque, non consentito, che tale illecito amministrativo “semplice” - pur aggravato” dal fallimento, e dalla circostanza di risultare inserito in una serie di condotte di pari o maggiore gravità che hanno determinato il dissesto, e pur contestato in tale più ampia e grave caratterizzazione – possa prescriversi in un termine più breve di quello previsto per l”’illecito-base”, senza, dunque, conservare il propria naturale termine di estinzione, e senza restare ancorato, quanto alla decorrenza del medesimo, alla sentenza dichiarativa del fallimento. IV. – Inammissibilità e infondatezza della istanza di sospensione Gli incolpati – in via subordinata alle assorbenti eccezioni preliminari - hanno avanzato richiesta di sospensione del procedimento. La più volte riaffermata autonomia dell’ordinamento sportivo rende inammissibile, in radice, tale istanza. A ciò sui aggiunga – sul piano concreto, e, ove cioè, si volesse far valere la opportunità di attendere i più penetranti accertamenti propri del processo penale – che, considerato lo stato attuale del procedimento penale in corso, attenderne la conclusione comporterebbe la inevitabile estinzione dell’odierno procedimento per prescrizione Da ultimo – e giusta quanto sarà chiarito nel paragrafo che segue – la sostanziale ammissione da parte degli incolpati della materialità dei fatti a essi ascritti consente di ritenere che la istruttoria sin qui svolta sia esaustiva e non necessiti di ulteriori accertamenti. V.- Fondatezza delle incolpazioni 1.- Gli incolpati non negano, invero - nella loro materialità - i fatti e le condotte a essi ascritte, e fondano le comuni difese su due cardini fondamentali: - La ravvisabilità, in questo fallimento, di circostanze del tutto particolari individuate. (i) nel fatto che il fallimento del Messina è avvenuto su istanza della Procura della Repubblica (ii) nella successiva “chiusura del fallimento” attraverso lo strumento del concordato (iii) nel pagamento in tale sede di tutti i creditori tributari privilegiati e del 42% di quelli chirografari - Il contenuto della relazione ( la “Relazione” ) resa dal consulente (Dott. Cacopardo) nominato dal GIP di Messina – il quale ultimo, poi, ne ha, invero, del tutto disatteso le risultanze – che, in via generale, afferma la ascrivibilità del dissesto della Società a fattori esterni, e la sostanziale regolarità in tutte le operazioni contestate agli amministratori. Entrambi tali elementi – oltre che inappropriatamente generici rispetto alla specificità delle incolpazioni - sono privi di consistenza. Quanto alla prima barriera difensiva – a carattere più suggestivo, che tecnico – devesi osservare come la circostanza della iniziativa sia stata avviata dal P.M. appare irrilevante, e, soprattutto, come essa risulti ancor meno rilevante ove si consideri non solo che il fallimento è stato poi dichiarato e confermato, non potendosi dunque revocare in dubbio la sussistenza delle condizioni per la sua dichiarazione, ma anche come la ritualità e correttezza anche di tale fase di avvio della procedura è stata confermata dalla Cassazione (Sez. I 27.04.2011 n. 9260; richiamata proprio dagli incolpati; v. infra). Irrilevante risulta poi, con tutta evidenza, la dedotta definizione concordataria, che non genera alcun effetto estintivo e/o riabilitativo, e che soddisfa esigenze meramente commerciali e pratiche. A ciò si aggiunge la circostanza che gli incolpati – dato atto delle percentuali di pagamento ei creditori privilegiati – nulla deducono in ordine agli effetti di questo concordato sul resto – economicamente e socialmente non trascurabile - della platea dei creditori. In ordine ai contenuti della Relazione - alla quale, è, in questa sede, interamente affidata la difesa degli incolpati, che esauriscono le proprie controdeduzioni nel testuale richiamo di corrispondenti “passi” di tale relazione – devesi subito osservare – riservando al prosieguo ogni altra specifica deduzione – come essa risulti, rispetto alla “funzione” assegnata e ai contenuti attesi, assolutamente atipica, in quanto prodiga di numerosissime considerazioni giuridiche in odine alla validità e correttezza delle operazioni esaminate, e, in generale, dell’andamento societario, che, oltre a certamente non competere al consulente, destano obiettive perplessità, allorché, ad esempio, si giunge a sostenere che il reato di bancarotta resterebbe escluso allorché le relative operazioni distruttive avvengano tra Società del medesimo gruppo, ovvero risulta omesso ogni valutazione in ordine alla sostanza, più che evidente, di talune operazioni palesemente incongrue, per poi concludere che si tratta di un quadro “verosimilmente aderente a tutte le realtà societarie che appartengono al settore calcistico”. Inoltre essa non investe specificatamente molti degli addebiti contestati, che, dunque, rimangano, in buona sostanza, ammessi nei fatti, e privi di difesa, in diritto. 2.- Si procede ora alla partita disamina della fondatezza delle singole incolpazioni individuate nel paragrafo p) dell’atto di differimento. 2.1.- Capo A – cessione del marchio al prezzo di € 20.000.000 e successiva indebita distrazione di una parte del relativo ricavo - € 13.214.6000 – in favore della Società Mondo Messina Service Srl (controllata dal Messina e amministrata da Vincenzo Franza), a titolo di investimento infruttifero. Gli incolpati – ricorrendo a taluni brani della Relazione – deducono come la cessione del marchio costituisca operazione generalmente consentita, e come la stessa avesse, nella specie, generato una rilevante sopravvenienza attiva con “evidenti ritorni positivi sul risultato economico dell’esercizio 2006”. Gli è che la ragione della incolpazione non risiede nella operazione di per sé, ma nel fatto - ammesso ma del tutto ignorato dalla difesa degli incolpati - che gran parte dell’ingentissimo ricavo della operazione era subito “rimbalzato”, a titolo di prestito infruttifero, in favore di altra Società amministrata dal medesimo Franza, in assoluto spregio di quanto considerato dalla stessa assemblea del Messina che aveva deliberato la cessione del marchio al fine di “reperire consistenti flussi finanziari… futuri investimenti programmati per il rinnovo della compagine”. Devesi, peraltro, osservare come a non essere plausibile, e a risultare, dunque, simulata appare proprio la stessa operazione di cessione del marchio verso un corrispettivo - € 20.000.000,00 – che non trova alcuna corrispondenza nel mercato. In buona sostanza sembra che – attraverso una triangolazione con la Locat – i gestori del Messina abbiano dato corso a una operazione di sostanziale finanziamento, congegnata, però, in modo da far apparire una plusvalenza idonea a “coprire”, altrettanto simulatamente i disastrosi dati di bilancio. In ogni caso, sia che si voglia accertare che - come probabile, e ancor più grave – fu creata una plusvalenza simulata idonea ad alterare i dati di bilancio e a incrementare la esposizione finanziaria del Messina, sia che, in ogni caso, si voglia circoscrivere la valutazione soltanto alla seconda parte (incontroversa) della operazione attraverso la quale il Messina ha operato un finanziamento infruttifero in favore di una sua controllata, spogliandosi delle risorse che essa stessa aveva indicato come necessarie, ci si trova di fronte a operazioni assolutamente indebite e di particolare gravità, anche per la ingentissima entità delle medesime. 2.2.- Capo B – distrazione di € 4.000.000,00 attraverso il riconoscimento in favore della Società Co.Fi.Mer. Srl di compensi ammontanti al richiamato importo per attività di consulenza, servizi e garanzie invero mai resi. La difesa degli incolpati non ha reso su questo punto alcuna difesa, né in fatto, né in diritto. È opportuno rammentare come i servizi di consulenza a fronte dei quali sono stati versati € 4.000.000,00, oltre a una prestazione di garanzia mai resa prevedevano una fantasiosa consulenza avente a oggetto le “attività” di “studio per la ottimizzazione finanziaria della operazione commerciale di cessione dei marchi…, ricerca e intermediazione di interlocutori di Società di leasing…” La gravità del comportamento sembra ravvisabile anche nella assoluta disinvoltura con la quale è stato dato corso – per importi rilevantissimi - a operazioni così evidentemente e gravemente simulate. 2.3.- Capo C – indebita restituzione - nonostante la già manifestata situazione di insolvenza - di conferimenti per l’importo complessivo di € 2.800.000,00 in favore del socio Co.Fi.Mer. Anche su questo punto gli incolpati non recano alcuna difesa. È evidente la natura indebita e la gravità – allorché si prospetta la insolvenza – della restituzione al socio dei conferimenti da esso effettuati a titolo di capitale. 2.4.- Capo D – falsità del bilancio 2005 per la indebita iscrizione tra le componenti positive del reddito dell’intero contributo di € 5.000.000,00 denominato “paracadute”, a essa concesso dalla lega calcio e in realtà iscrivibile tra tali componenti soltanto nella misura di € 2.500.000,00. Su questo punto la difesa degli incolpati non rende alcuna difesa specifica, limitandosi a ricorrere a un brano assai generico della relazione giusta la quale “i bilanci delle Società in osservazione appaiono redatti ad aderenza alla normativa civilistica… risultano osservati i principi di redazione di cui all’art. 2423 bis c.c…. adeguata alle modifiche e adeguazioni richieste dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio” . In realtà - come dedotto e non contestato - il versamento della Lega Calcio di € 5.000.000,00 non poteva essere iscritto per intero (ma solo per la metà) quale partita attiva dell’annualità 2005, con conseguente indebito occultamento di maggiori perdite per il corrispondente importo di € 2.500.000,00. 2.5.- Capi E ed F – indebita compensazione delle obbligazioni assunte dai soci ai fini della copertura degli aumenti di capitale deliberati dalla Società (delibere 20.10.2008 e 13.11.2008) con conseguente violazione della “par condicio creditorum”. 2.5.1- Alla incolpazione di cui all’epigrafe la difesa dei deferiti dedica ampio spazio sostenendone la assoluta liceità, anche in territorio fallimentare. e richiamando la sentenza emessa dalla Corte di Cassazione che ha, nello specifico, confermato la liceità delle operazioni di aumento di capitale effettuate dal Messina nell’autunno dell’anno 2008. Devesi, anzitutto, precisare come il richiamo al contenuto di questa sentenza. - che, peraltro, conferma ampiamente la gravità del dissesto economico e finanziario che ha condotto al legittimo fallimento del Messina – è corretto, ma non completo, in quanto si omette di precisare come quella stesa sentenza,, nelle righe immediatamente successive a quelle richiamate dagli incolpati, ha anche chiarito come una irregolarità, nella operazione di aumento di capitale del Messina, sia stata, comunque, effettivamente compiuta: “Cofimer, divenuto socio unico a seguito dell’ultima operazione su capitale, fece nuovamente ricorso alla compensazione e non versò effettivamente nella percentuale di legge l’importo de conferimento. Si è perciò sottratta all’obbligo sancito nell’art. 2481 bis c.c. comma 5, che impone al socio unico in caso di aumento del capitale mediante nuovi conferimenti di versare integralmente il conferimento in denaro all’atto della sottoscrizione. Nondimeno, la riscontrata violazione non ha invalidato l’operazione. Operando sul diverso piano della responsabilità, ha solo esposto la detta Società, in quanto socio unico, alla responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali sorte nel periodo in cui ha ricoperto tale veste, secondo quanto stabilito dall’art. 2462 comma 2 c.c.” (Cass. Sez. I 21.04.2011 n. 9260). Come sopra chiarito, nella sua interezza, il percorso logico-giuridico seguito da questa specifica sentenza – devesi, poi, osservare come l’orientamento da essa espressa è, anche in sede di legittimità, tutt’altro che pacifico, sussistendo un coevo orientamento – che risulta, peraltro, preferibile sul piano del rispetto sostanziale della normativa posta a favore dei creditori, giusta il quale il versamento dei soci in conto capitale rappresenta “accredito di denaro indisponibile ai soci, in quanto conferimento di capitale di rischio, che non genera pretesa esigibile dai soci nei confronti della Società, potendo invece essere loro restituiti soltanto per effetto dello scioglimento della Società. La compensazione dell’asserito debito societario verso i soci, che si giovi di detta provvista è, dunque, operazione che concreta distrazione fraudolenta” (Cass. Sez. pen. V 26.05.2010 n. 27610). 2.5.2. - Come sopra illustrata la posizione assunta dalla Cassazione, sia con specifico riferimento alla sentenza dichiarativa del fallimento del Messina, che, più in generale, sulla questione della compensazione dei debiti contratti dai soci a titolo di aumento di capitale, devesi osservare come la rilevanza disciplinare dei comportamenti in esame possa prescindere dalla risoluzione della questione in ordine alla generale validità delle compensazioni operate in favore dei soci debitori della Società per versamenti in conto capitale. Ciò che nella specie appare, infatti, pacifico – a prescindere dalla legittimità o meno della operazione in esame – è che gli incolpati – allorché era prossima la iniziativa del P.M., e, con ogni probabilità, al fine di indebitamente contrastarla e/p ritardarla – hanno congegnato una operazione di aumento di capitale idonea a creare una apparenza di ritrovata solidità, ma che, in realtà, non ha, né poteva, in alcun modo migliorato la situazione economica o finanziaria della Società, atteso che l’importo dell’aumento deliberato e sottoscritto era destinato ad essere subito compensato con il credito insorto in capo del socio Co.Fi.Mer., e a carico del Messina in dipendenza della estinzione delle posizioni debitorie dello stesso Messina in essere presso le banche In buona sostanza, insomma, la ricapitalizzazione del Messina sembra conseguire unicamente all’obbligo del socio fideiussore di ripianare i debiti del garantito ( il Messina appunto), e, soprattutto - diversamente da quanto accade allorché si tratta di una effettiva ricapitalizzazione, e non già di un mero triangolare contabile, e allorché, cioè, l’apporto di effettivo danaro fresco consente alla Società di più agevolmente gestire le proprie esigenze e situazioni debitorie – il Messina non ha tratto alcun beneficio da tale operazione, e, anzi, sul piano strettamente, finanziario gli è stata sottratta la possibilità di fruire della maggiore disponibilità finanziaria che sempre si accompagna alle operazioni di aumento di capitale Inoltre – e come ricordato dalla richiamata sentenza – la operazione di compensazione è stata perfezionata con riferimento all’intero importo dell’aumento sottoscritto, con conseguente violazione della norma che ne prevede il versamento in denaro in misura non inferiore al 25%. Ed è evidente che – anche ad ammettere la generale regolarità in astratto della operazione di compensazione – l’intero marchingegno, e, soprattutto, la sua fase conclusiva, pacificamente irregolare, come ora ricordato, costituisce la esecuzione di un disegno quantomeno ingannevole e dilatorio che deve trovare sanzione all’interno dell’ ordinamento sportivo. 2.6 – Capo G – falsità del bilancio 2006 per la indebita iscrizione tra le immobilizzazioni finanziarie, quale deposito cauzionale, dell’importo di E.2.500.000 in realtà versato a titolo di canone anticipato di locazione finanziaria. Anche questa irregolarità non è in alcun modo contestata e risulta pienamente accertata in sede tecnico-contabile, ove è stata anche individuata la artificiosa modificazione dei risultati di esercizio che tale erronea appostazione ha determinato. 2.7. – Paragrafo r) – violazione D. lgs. 231/01 per mancata predisposizione del modello organizzativo volto alla prevenzione dei reati poi accertati. Questa violazione – atteso il quadro sin qui emerso – è da ritenere sostanzialmente in re ipsa. 2.8. – Paragrafo t) – contestazione ai sindaci per omissione dei propri doveri di vigilanza e controllo con riferimento alle incolpazioni di cui ai capi A e B del deferimento. La fondatezza della contestazione ai sindaci per omessa vigilanza e controllo appare automatica e incontrovertibile, attesa la gravità e la assoluta evidenza delle irregolarità amministrative in questione. VI. - Conclusioni 1.- Superate le preliminari eccezioni di “ne bis in idem”, nullità dell’atto di deferimento, e prescrizione, questa Commissione ha ritenuto di aderire -.al titolo formale della incolpazione contestata dalla Procura, facendo ricorso alla norma residuale – quanto generale e fondamentale - di cui all’art.1.1 CGS. Tale incolpazione trae origine – come si è illustrato - dalla inidoneità allo scopo delle astratte fattispecie di cui (i) all’art. 21.3 delle N.O.I.F, in quanto concernente ipotesi punite a titolo di colpa ,e, comunque, meno gravi di quelle che ricomprendano anche comportamenti idonei a configurare, sul piano penale, il reato di bancarotta, e (ii) all’art. 8 CGS, che sanziona le comunicazioni inveritiere agli enti federali di per sé considerate, e non la più grave fattispecie che interviene ove tali comunicazioni integrino una fattispecie di reato, e si inseriscano, unitamente ad altre condotte, nel quadro di comportamenti che hanno provocato un fallimento, e/o ne hanno aggravato le conseguenze. Devesi, peraltro, ribadire come – se non si fosse aderito a questa costruzione, ritenendo che i fatti contestati potessero essere ricompresi, nella loro interezza e complessità, nelle richiamate fattispecie più specifiche – le conclusioni sanzionatorie non sarebbero mutate, né avrebbero trovato ostacolo nella modifica formale del capo di imputazione: gli accertamenti svolti hanno, infatti, avuto ad oggetto unicamente i fatti specificatamente contestati, e in relazione ai quali la difesa risulta, anche espressamente, compiuta in considerazione delle richiamate fattispecie più tipiche. 2. - Tutti i fatti contestati e, nella loro materialmente, sostanzialmente ammessi, sono stati accertati anche sotto il profilo della loro illiceità e/o irregolarità. Da tali fatti emerge, invero, un quadro di particolare gravità avuto riguardo alla molteplicità delle condotte, al loro coordinamento, al lungo tempo nel corso del quale esse hanno avuto esecuzione, agli elevati importi cui esse attengono, e, dunque, agli elevati danni che esse hanno determinato. 3. – Quanto alla posizione dei singoli incolpati, e alla misura delle sanzioni da applicare, è evidente che i deferiti Pietro e Vincenzo Franza risultano – sia per i ruoli apicali formalmente ricoperti, che per la gestione sostanziale che a essi faceva capo – responsabili di tutte le irregolarità commesse, e del piano generale che a esse era sotteso, e, che, dunque, risulti per essi opportuno disporre, oltre alla inibizione, la sanzione della preclusione di cui all’art. CGS. Francesco Cambria è responsabile, invece, di un’unica condotta, forse la meno grave, e, quindi, considerato anche la precedente sanzione irrogatagli (1 anno di inibizione)– per fatti diversi, ma pur sempre unificabili quoad penam a quelli oggi contestati – la sanzione per esso adeguata appare la inibizione per un anno ( che si somma a quella già scontata). Per quanto riguarda i tre sindaci, il carattere colposo, o, comunque, meramente omissivo della condotta a essi contestata induce a ritenere adeguata, anche per essi, la inibizione di un anno. P.Q.M. La Commissione disciplinare nazionale – in parziale accoglimento dei deferimenti effettuati dalla Procura Federale – dichiarata la responsabilità, per quanto di ragione, di tutti gli incolpati, infligge le sanzioni che seguono: - Pietro Franza: inibizione di anni 5 (cinque) con preclusione alla permanenza in qualsiasi rango o categoria della FIGC; - Vincenzo Franza: inibizione di anni 5 (cinque) con preclusione alla permanenza in qualsiasi rango o categoria della FIGC; - Francesco Cambria: inibizione di anni 1 (uno); - Domenico Santamaura: inibizione di anni 1 (uno); - Carmelo Cutrì: inibizione di anni 1 (uno); - Stefano Galletti: inibizione di anni 1 (uno).
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