Massima n. 288403

Decisione G.U.I.. – C.O.N.I.: Decisione n. 14/06 del 15 dicembre 2006 – www.coni.it Decisione impugnata: Delibera dalla C.A.F. (F.I.G.C.) pubblicata sul C.U. 11/C del 19 settembre 2006 - www.figc.it Impugnazione – istanza: Ufficio di Procura Antidoping del CONI contro W.B. Massima: La finasteride è considerata un agente mascherante, inserito nella lista della sostanze proibite e per la quale non è neanche possibile ottenere l’esenzione a fini terapeutici. Orbene, nel caso di specie è risultato di tutta evidenza: A) come la finasteride sia inserita nella lista delle sostanze vietate e metodi proibiti quale mascherante ed abbia effetto anabolizzante; B) come detta sostanza sia inserita nella lista WADA delle sostanze vietate per doping dal 1/1/2005; C) come l’unico momento nel quale l’atleta riferisce ad un medico l’uso della finasteride, sia quello del giorno nel quale l’atleta, su richiesta del proprio medico sociale, denuncia a quest’ultimo l’uso del prodotto vietato. Alla predetta data, sono trascorsi oltre otto mesi dall’entrata in vigore della normativa WADA che prevede l’inserimento della finasteride nell’elenco delle sostanze proibite; D) che non sia emersa alcuna prova che l’altleta abbia riferito ai medici delle società di avere usato la finasteride, né, tanto meno, per combattere la caduta dei capelli; circostanza comunque irrilevante dato che all’epoca la finasteride non era vietata; E) che durante i prelievi effettuati dagli ispettori medici della FMSI, l’atleta non abbia riferito di avere assunto finasteride; F) che non è emersa alcuna prova che l’atleta abbia controllato, sia prima del 7/9/2005 (rectius dal 1/1/2005), che dal 7/9/2005 al 1/5/2006 - 13/5/2006, che la finasteride fosse una sostanza proibita per doping; G) come, inoltre, la lista WADA delle sostanze specifiche (nella quale NON è compresa la finasteride) ha carattere tassativo e NON meramente esemplificativo, dal momento che è parte integrante della lista delle sostanze e dei metodi proibiti, aggiornata e pubblicata annualmente dalla WADA ai sensi dell’art. 4.3 del Codice WADA e contenente la tassativa elencazione di tutte le sostanze ed i metodi proibiti; si consideri, al riguardo, che la mera presenza di una sostanza proibita o dei suoi metaboliti o markers nell’organismo di un atleta costituisce violazione del regolamento antidoping (e quindi doping), in base al principio di responsabilità oggettiva adottato dalla WADA; ne deriva che ogni atleta deve essere messo in grado di conoscere quali siano le sostanze ed i metodi proibiti, e deve personalmente accertarsi di non assumerli nel proprio organismo; tale assunzione di responsabilità non avrebbe alcun senso ove si ritenesse che la lista abbia natura generica e meramente esemplificativa. Last but not least, l’articolo 1.2.1 del Regolamento Antidoping, prevede che per l’accertamento della violazione predetta non sia indispensabile dimostrare che via sia stato dolo, colpa, negligenza od uso consapevole da parte dell’atleta. Ne consegue, pertanto, che è evidente la violazione da parte dell’atleta dell’articolo 1.2.1 del Regolamento Antidoping, non essendosi egli personalmente assicurato che la finasteride rientrasse nell’elenco delle sostanze vietate.  Massima: La giurisprudenza del TAS conferma che un atleta deve personalmente accertarsi di non assumere alcuna sostanza vietata e come il tesserato sportivo debba dimostrare, di non sapere o sospettare o non poter ragionevolmente sapere o sospettare, pur esercitando la massima cautela, di assumere una sostanza proibita. Ai sensi dell’articolo 19.2 del Regolamento Antidoping, la sanzione prevista per la violazione in questione è la squalifica per un periodo di due anni. Tuttavia, è possibile addivinere ad una attenuazione della sanzione ai sensi dell’articolo 19.5.2, tenuto conto che l’atleta ha utilizzato un prodotto che sino al gennaio 2005 non era vietato e che, pertanto, non può essere ritenuto responsabile di colpa o negligenza significativa, con conseguente riduzione della sanzione sino alla metà.   Decisione G.U.I. DOPING – C.O.N.I.: Decisione n. 9/05 del 30 novembre 2005 – www.coni.it Decisione impugnata: Delibera dalla C.A.F. (F.I.G.C.) pubblicata sul C.U. 9/C del 29 settembre 2005 - www.figc.it Impugnazione – istanza: M.S.,S.S. E N.S. Massima: E’ certa la violazione dell’art. 1.2.1 del Regolamento da parte degli atleti, i quali tutti hanno oggettivamente ingerito una sostanza vietata (compressa di LASIX) - durante il controllo antidoping al fine di favorire la diuresi e su istanza del medico sociale - e devono essere ritenuti responsabili dell’assunzione della furosemide. Ai sensi degli artt. 1.2.1 ed 1.2.2 del Regolamento ogni atleta è responsabile dell’assunzione di qualsiasi sostanza vietata e dei relativi metaboliti; la presenza di una sostanza vietata o dei suoi metaboliti nel campione biologico di un atleta costituisce violazione del Regolamento; per l’accertamento di tale violazione non è indispensabile dimostrare che vi sia stato dolo, colpa, negligenza o uso consapevole da parte dell’atleta. Nell’organismo dei tre atleti è stato rinvenuta la sostanza denominata furosemide, sostanza compresa tra quelle vietate in and out of competition tra i diuretici ed altri agenti mascheranti (lista WADA 2005). Per tale violazione – se è la prima - è prevista la sanzione di due anni di squalifica. Ai sensi del punto 19.5 del Regolamento, l’annullamento o la riduzione della squalifica per circostanze eccezionali è applicabile solo quando le circostanze – dedotte dall’atleta – siano realmente eccezionali; il riconoscimento della sussistenza di tali circostanze è tuttavia espressamente subordinato alla necessità che l’atleta fornisca effettiva dimostrazione di come la sostanza vietata (o il suo metabolita) sia penetrata nel suo organismo; ove tale prova non venga fornita, i predetti benefici non possono essere riconosciuti. Nel caso in questione, sono pacifiche le circostanze nelle quali la sostanza è stata volontariamente assunta dai tre atleti.   Decisione G.U.I.. – C.O.N.I.: Decisione n. 5/05 del 28 giugno 2005 – www.coni.it Decisione impugnata: Delibera dalla C.A.F. (F.I.G.C.) pubblicata sul C.U. 51/C del 20 giugno 2005 - www.figc.it Impugnazione – istanza: M.M. Massima: L’atleta, assumendo la sostanza proibita ha commesso una violazione del regolamento antidoping del C.O.N.I. Il Methylecgonine è, infatti, un metabolita della cocaina che rientra tra le sostanze vietate (gli stimolanti) per le quali la lista non stabilisce un quantitativo limite e rientra nell’ambito delle sostanze non specifiche. L’aver accertato, in occasione di una gara, la presenza di metaboliti di tale sostanza in un campione biologico dell’atleta costituisce, di per sé una violazione ai sensi dell’art. 1.2 del Regolamento antidoping. Non è, infatti, necessario dimostrare, per ascrivere all’atleta una violazione del regolamento, che costui abbia agito con dolo, colpa o negligenza o che abbia usato consapevolmente la sostanza od il metodo proibito (art. 1.2.1.). Il regolamento considera la violazione in materia di doping come un illecito sportivo di pericolo presunto e stabilisce una presunzione di responsabilità dell’atleta legata esclusivamente al canone obiettivo dell’accertata positività (vedi artt. 1.2.1 e 19.5). L’organo inquirente non è quindi tenuto, nel corso del procedimento, a fornire la prova che l’atleta fosse consapevole di usare la sostanza proibita ovvero che il suo impiego sia avvenuto per leggerezza o imprudenza. La verifica dell’attribuibilità psicologica della violazione antidoping alla volontà antidoverosa del soggetto può rilevare, invece, ai fini della concreta applicazione della sanzione e della determinazione della misura e durata della pena. L’art. 19.5.1 esclude, infatti, l’applicazione del periodo di squalifica stabilito dal regolamento, nel caso in cui l’atleta dimostri che la violazione è avvenuta del tutto senza sua colpa o negligenza. Laddove, invece, l’atleta dimostri che la violazione del regolamento non è avvenuta per colpa o negligenza significativa, potrà beneficiare di una riduzione di pena. La presenza di un substrato minimo di colpa necessaria non inerisce dunque al fatto illecito (inteso quale violazione antidoping) e al suo accertamento (dimostrato con l’esclusiva prova della positività dell’atleta), ma al momento applicativo della sanzione, potendo rilevare quale causa di esclusione della pena o incidere sulla sua esatta quantificazione (c.d. cause di annullamento o riduzione della squalifica). La prova di tali circostanze favorevoli, peraltro tassativamente indicate dal regolamento, dovrà essere esclusivamente fornita dall’atleta: con la conseguenza che una prospettazione difensiva non adeguatamente comprovata comporterà l’applicazione delle sanzioni stabilite dal regolamento, non essendo richiesto al giudice federale o superiore un’indagine di tal genere.   Decisione G.U.I.. – C.O.N.I.: Decisione n. 4/05 del 28 giugno 2005 – www.coni.it Decisione impugnata: Delibera dalla C.A.F. (F.I.G.C.) pubblicata sul C.U. 43/C del 10 maggio 2005 - www.figc.it Impugnazione – istanza: Ufficio di Procura Antidoping del CONI contro l’atleta G.P. Massima: Ai sensi degli artt. 1.2.1 ed 1.2.2 del Regolamento, ogni atleta è responsabile dell’assunzione di qualsiasi sostanza vietata e dei relativi metabolici. La presenza di una sostanza vietata o dei suoi metaboliti nel campione biologico di un atleta costituisce violazione del Regolamento. Per l’accertamento di tale violazione non è indispensabile dimostrare che vi sia stato dolo, colpa, negligenza o uso consapevole da parte dell’atleta. Massima: Nell’organismo del calciatore è stato rinvenuta la sostanza denominata benzoylecgonina, metabolita della cocaina, sostanza compresa tra quelle vietate in competition tra gli stimolanti (lista WADA 2004). Per tale violazione – se è la prima - è prevista la sanzione di due anni di squalifica. Ai sensi del punto 19.5 del Regolamento, l’annullamento o la riduzione della squalifica per circostanze eccezionali è applicabile solo quando le circostanze – dedotte dall’atleta – siano realmente eccezionali. Il riconoscimento della sussistenza di tali circostanze è tuttavia espressamente subordinato alla necessità che l’atleta fornisca effettiva dimostrazione di come la sostanza vietata (o il suo metabolita) sia penetrata nel suo organismo; ove tale prova non venga fornita, i predetti benefici non possono essere riconosciuti. Ebbene, nel caso in questione, il calciatore non ha affatto fornito la prova positiva di come la sostanza vietata sia penetrata nel proprio organismo, limitandosi ad evidenziare alcune possibili cause di assunzione, poi peraltro rivelatesi del tutto prive di fondamento (i farmaci indicati non contenevano cocaina né suoi metaboliti). Non vi è pertanto alcuno spazio per il riconoscimento a favore dell’atleta dell’assenza di colpa o di negligenza significativa e conseguentemente per poter concedere al calciatore la riduzione di pena accordatagli dalla Commissione di Appello Federale in ragione della comprovata lealtà processuale. Nell’attuale sistema normativo, derivante direttamente dal Codice Mondiale Antidoping WADA, la correttezza del comportamento processuale dell’atleta non ha infatti – al di là dell’istituto della collaborazione - alcuna influenza né ai fini della determinazione della pena (indicata dall’art. 19.2 per la prima violazione in due anni, senza previsione di un minimo o di un massimo edittali), nè ai fini del riconoscimento della riduzione di pena di cui all’art. 19.5.2 del Regolamento o di altra attenuante (sull’esempio di quelle cosiddette generiche previste dall’ordinamento penale). Unicamente al fatto e alle sue modalità attengono le riduzioni di pena stabilite dall’art. 19.5.2 come risulta dal chiaro riferimento della norma regolamentare al termine “ violazione”.  Massima: La sanzione nel minimo edittale prevista dal regolamento per positività derivante da sostanze non specifiche, non derogabile. La circostanza che, in precedenti decisioni di organi federali, siano state comminate sanzioni in misura inferiore a quelle consentite dal regolamento non può costituisce un “precedente” che vincola il G.U.I. Si tratta, infatti, di decisioni assunte da organi giurisdizionali differenti, in violazione delle norme regolamentari ma in un periodo in cui l’attuale G.U.I. non era stato ancora istituito e/o entrato in vigore. Anzi, va ribadito che l’attuale istituzione del G.U.I. risponde, per come precisato dallo stesso art. 4 del regolamento antidoping, proprio all’esigenza di assicurare l’omogeneità delle decisioni in materia di doping, nel rispetto delle previsioni regolamentari.   Decisione C.A.F.: Comunicato Ufficiale 33/C Riunione del 7 Marzo 2005 n. 11 – www.figc.it Decisione impugnata: Delibera della Commissione Disciplinare presso la Lega Professionisti Serie C - Com. Uff. n. 200/C del 9.2.2005 Impugnazione - istanza:Appello della Procura Antidoping del Coni avverso la sanzione della squalifica per mesi due inflitta al calciatore M.T. a seguito di proprio deferimento, per violazione dell’art. 18.3 del Regolamento Antidoping Massima: Non può affermarsi con giudizio di assoluta certezza (quella che è assolutamente necessaria ai fini di una decisione di condanna) che il calciatore è risultato positivo alla sostanza dopante non in conseguenza del trattamento farmacologico cui venne sottoposto tre settimane prima della gara, ma per effetto della deliberata ed esclusiva volontà di doparsi, quando il parere della Commissione scientifica è orientato in un modo ed il parere, portato dalla difesa espresso dall’Istituto Mario Negri (dichiarazione a firma del Direttore) è orientato in un altro , in base alla quale “una positività urinaria a 3 settimane” al metilprednisolone “è perfettamente compatibile” con il principio attivo e con i metaboliti del depo-medrol.  Massima: E’ esclusa ogni forma di responsabilità in capo al calciatore sotto il profilo della normativa antidoping, per essere risultato positivo al metilprednisolone, quando in sede di giudizio il calciatore ha fatto presente che la positività al metilprednisolone andava spiegata con le infiltrazioni al ginocchio destro che il medico della società gli aveva praticato circa tre settimane prima della gara per il riacutizzarsi di un certo dolore ed ha precisato poi che era stato il medico ad assumersi l’incarico di inoltrare la prescritta richiesta di esenzione (da lui sottoscritta) al Comitato per l’esenzione a fini terapeutici (Ceft) del Coni e che ciò non era avvenuto per omissione dello stesso medico. E’ risultato che in occasione del prelievo del campione di urine non aveva fatto cenno al trattamento medico cui si era sottoposto settimane prima perché, dato il tempo trascorso, se ne era dimenticato e che il medico della società, ha dato conferma dei fatti esposti dal calciatore assumendo su di sé la responsabilità dell’omesso inoltro al Ceft del Coni della richiesta di esenzione di cui all’art. 4.4 del Regolamento Antidoping. E soprattutto in relazione all’autorevole parere espresso dall’Istituto Mario Negri (dichiarazione a firma del Direttore), portato dalla difesa secondo cui “una positività urinaria a 3 settimane” al metilprednisolone “è perfettamente compatibile” con il principio attivo e con i metaboliti del depo-medrol. Massima: Il calciatore è responsabile di un comportamento negligente, per violazione di cui all’art. 1 C.G.S., in quanto, quale primo e più immediato destinatario della normativa antidoping, avrebbe dovuto preoccuparsi se non proprio di inoltrare materialmente la richiesta di esenzione di cui all’art. 4.4 del Regolamento certamente di accertarsi che detta richiesta fosse stata inviata. Come invece non ha fatto, dando luogo ad una omissione di cui deve essere ritenuto responsabile, visto che il dovere di correttezza e di diligenza nell’osservanza delle norme federali incombe su non altri che sul calciatore che, nel caso in esame, per ragioni terapeutiche assume una certa sostanza non consentita e sul quale grava per questo motivo lo specifico obbligo di chiedere la prescritta esenzione.  Decisione C.A.F.: Comunicato Ufficiale 28/C Riunione del 24 Gennaio 2005 n. 1, 2 – www.figc.it Decisione impugnata: Delibera della Commissione Disciplinare presso la Lega Nazionale Professionisti - Com. Uff. n. 160 del 25.11.2004 Impugnazione - istanza:Reclamo dell’ufficio di Procura Antidoping del Coni avverso la sanzione della squalifica per mesi 9 inflitta al calciatore B.J., per violazione dell’art. 2.1 del regolamento Antidoping della F.I.G.C. a seguito di proprio deferimento reclamo del calciatore B.J. avverso la sanzione della squalifica per mesi 9 inflitta a seguito di deferimento della procura antidoping del C.O.N.I. per violazione dell’art. 2.1 del regolamento antidoping della F.I.G.C. Massima: L’Organo giudicante, nel caso di prima violazione per incontestato riscontro dei metaboliti della cocaina nel campione biologico dell’incolpato, ove non ritenga di applicare la sanzione minima edittale, può solo ridurre ad un anno la sospensione dall’attività ove ricorrano le circostanze previste e sopra menzionate, od altrimenti è chiamato ad escludere del tutto l’applicazione di sanzioni in caso di totale assenza di colpa. Infatti, il nuovo impianto regolamentare in vigore dal 1° gennaio 2004 non lascia più quei margini di apprezzamento discrezionale precedentemente previsti in capo alla Corte giudicante, ed in particolare non consente più di esercitare il potere atipico modificativo (in senso riduttivo) della sanzione di cui all’art. 13, comma 1, lett. b), punto III) del previgente Regolamento Antidoping. Sulla base del regime applicabile, si è specificato, all’articolo 18.5, che l’annullamento o la riduzione della squalifica possono intervenire, infatti, solo per “circostanze realmente eccezionali” ed esclusivamente nei termini di seguito indicati dalle norme. Si ha, così, che la sanzione della squalifica viene annullata in caso di “nessuna colpa e negligenza” (art. 18.5.1), ovvero quando l’atleta dimostri che la violazione è avvenuta del tutto senza sua colpa o negligenza, con l’avvertenza però che in caso di presenza di una sostanza vietata o dei relativi metaboliti o marker nel campione biologico dell’atleta, l’atleta medesimo per conseguire l’annullamento della sanzione deve dimostrare in quale modo la sostanza vietata sia penetrata nel suo organismo. La sanzione edittale può essere ridotta, ma in ogni caso “non in misura inferiore alla metà del periodo minimo di squalifica teoricamente applicabile” (quando questa è a vita il periodo ridotto non può essere inferiore a otto anni), in caso di assenza di colpa o negligenza “significativa” (art. 18.5.2), con onere probatorio sempre a carico dell’atleta ed anche qui con l’avvertenza che in caso di presenza di una sostanza vietata o dei relativi metaboliti o marker nel campione biologico dell’atleta, l’atleta medesimo per conseguire la riduzione della sanzione deve dimostrare in quale modo la sostanza vietata sia penetrata nel suo organismo, nonché in caso di collaborazione fattiva dell’atleta stesso per la scoperta e/o l’accertamento di violazioni del Regolamento da parte del personale di supporto dell’atleta e di altri (art. 18.5.3).
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