F.I.G.C. – CORTE FEDERALE D’APPELLO – Sezione Consultiva – 2017/2018 – figc.it – atto non ufficiale – Decisione pubblicata sul C. U. n. 71/CFA del 19 dicembre 2017 (motivazioni) – RICHIESTA DI PARERE INTERPRETATIVO DEL PRESIDENTE FEDERALE, AI SENSI DELL’ART. 31, COMMA 1, LETT. D) C.G.S., IN ORDINE ALLA PORTATA INTERPRETATIVA DELL’ART. 22 BIS DELLE N.O.I.F..

RICHIESTA DI PARERE INTERPRETATIVO DEL PRESIDENTE FEDERALE, AI SENSI DELL’ART. 31, COMMA 1, LETT. D) C.G.S., IN ORDINE ALLA PORTATA INTERPRETATIVA DELL’ART. 22 BIS DELLE N.O.I.F..

 

PREMESSO

Con nota prot. 7395 del 18 ottobre 2017 il Presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio ha richiesto alla Sezione Consultiva di questa Corte Federale d’Appello un parere in ordine all’interpretazione da darsi all’art. 22 bis delle NOIF, in relazione agli articoli 444, 445, comma 1 bis, e 653 del codice di procedura penale.

Chiede, in particolare, il Presidente Federale, «se la sentenza conseguente a patteggiamento» possa essere «equiparata ad una ordinaria sentenza di condanna, ai fini dell’applicazione della norma». Nell’istanza di interpretazione il Presidente Federale evidenzia di aver disposto, nell’aprile 2017, la decadenza dalle cariche dirigenziali sportive del Presidente della società Sampdoria, operando in conformità di un parere reso, in fattispecie analoga, da questa Corte in data 7 marzo 2016 (C.U.  n. 087/CFA   s.s.  2015/2016).

Il Presidente della Sampdoria ha, tuttavia, contestato il provvedimento prima citato, riproponendo la questione interpretativa sotto profili diversi da quelli già esaminati  dalla  Corte,  che hanno, appunto, suggerito al Presidente Federale il ricorso ad un ulteriore parere interpretativo. «La novità della prospettazione», si legge nella nota federale, «è ravvisabile nello spunto  di  riflession secondo cui «il patteggiamento di una pena fino a due anni esclude, ai sensi dell’art. 445 c.p.p., l’applicazione di pene accessorie» e, di conseguenza, a dire del Presidente della Sampdoria, «l’art. 22 bis delle NOIF non andrebbe applicato nei  casi  in  cui  il  soggetto  interessato  abbia  patteggiato  una pena inferiore ai due anni: e ciò nel presupposto, da accertare a cura di codesta Corte, che la decadenza sancita dall’art. 22 bis delle NOIF possa essere  ricondotta  al  concetto  di  “pena accessoria”».

Vista, pertanto, la richiesta di parere avanzata dal Presidente Federale, letta l’istanza del Presidente della Sampdoria ed esaminate le relative prospettazioni interpretative, visto l’art. 31, comma 1, lett. d), del codice di giustizia sportiva, questa Corte rende il seguente parere.

CONSIDERATO

1) La richiesta di interpretazione avanzata dalla Presidenza Federale a questa Corte sottende, in via necessariamente e logicamente preliminare, uno specifico esame della fattispecie relativa alla natura giuridica ed agli effetti propri della pronuncia penale di condanna. Detto esame sarà, ovviamente, condotto in funzione dei fini, che qui interessano, della verifica della possibilità di equiparare la sentenza emessa a seguito di patteggiamento alla sentenza di condanna, ai sensi e per gli effetti dell’Ordinamento federale e, segnatamente, di quelli di cui all’art. 22 bis NOIF.

Anche alla luce della  prospettazione  sollecitata  dallo  stesso  Presidente  Federale  – segnatamente, sotto l’ulteriore profilo degli eventuali margini di autonoma determinazione dell’Ordinamento  sportivo,  pur  nel  rispetto  della  garanzia  dei  principi  di  onorabilità  dei  soggetti  nel contesto associativo, di cui lo stesso Ordinamento si è dotato, in ordine ad una applicazione non automatica del meccanismo sancito dall’art. 22 bis NOIF nella ipotesi di sentenza di patteggiamento ad una pena inferiore ad anni duequesta Corte ritiene che, tenuto anche conto della evoluzione degli orientamenti interpretativi in materia e, in particolar modo, di alcuni significativi arresti della giurisprudenza, sia opportuna una complessiva rivisitazione sistematica della fattispecie medesima e che, l’esito di siffatto riesame suggerisca di integrare le argomentazioni sottese al precedente parere reso nel marzo 2016 e, in parte, di rettificarne, di conseguenza, le conclusioni, nei termini qui di seguito indicati.

2) Ai sensi dellart. 22 bis N.O.I.F., «Non possono assumere la carica di dirigente di società o di associazione (art. 21, comma, N.O.I.F.), e l'incarico di  collaboratore  nella  gestione  sportiva  delle stesse (art. 22, comma, N.O.I.F.), e se già in carica decadono, coloro che si trovano nelle condizioni di cui all'art. 2382 c.c. (interdetti, inabilitati, falliti e condannati a pena che comporta l'interdizione dai pubblici uffici, anche temporanea, o l'incapacità ad esercitare uffici direttivi) nonché coloro che siano stati o vengano condannati con sentenza passata in giudicato per i delitti previsti dalle seguenti leggi: […] Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata (legge 16/03/1942, n. 267) – Titolo VI – Capo I e II – Reati commessi dal fallito – Reati commessi da persone diverse dal fallito – da art. 216 a art. 235 […]».

3) La questione prima che, dunque, si pone, in generale e, per quanto qui specificamente rileva, con riferimento alla Nota prot. 20378 del 4 aprile 2017, con la quale veniva comunicata la decadenza ai fini sportivi del Presidente della società Sampdoria «ai sensi dell’art. 22 bis, comma 1, delle NOIF, per effetto della sentenza emessa dal G.U.P. del Tribunale di Busto Arsizio, nell’ambito del procedimento penale R.G. N.R. 3267/11, R.G. 1811/15», è quella di stabilire se la sentenza ex art. 444

c.p.p. possa essere ritenuta “sentenza di condanna (ai fini di cui all’art. 22 bis  NOIF citato) o  se la stessa, siccome frutto di un “accordo tra P.M. ed imputato sul merito  dell’imputazione”  (così  come definita da Corte Costituzionale n. 251/1992) in assenza di un autentico  accertamento  di responsabilità penale in relazione al fatto contestato, non possa svolgere alcun effetto nell’ambito dei rapporti disciplinati dalle NOIF, in specie con riguardo ai presupposti di operatività delle “disposizioni per la onorabilità”.

Per inciso, occorre evidenziare come nel provvedimento di decadenza di cui trattasi, disposto dalla FIGC, si dava conto della irrilevanza, «ai fini della presa d’atto della decadenza», della «circostanza che la pena di anni 1 e mesi 10 in relazione a fattispecie di reato ricadente nel novero di quelle tassativamente indicate al comma 1, lett. a), dell’art. 22 bis NOIF, sia stata applicata, dal  suddetto Tribunale, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., avendo la Corte Federale di Appello affermato l’equiparazione del patteggiamento della pena a sentenza di condanna (cfr. C.U. 87 del 7.3.2016)».

4) E’ noto che, con riferimento alla natura della sentenza ex art. 444 c.p.p., si siano delineati, nel tempo, due contrapposti indirizzi interpretativi e sistematici.

a) Una prima corrente di pensiero nega che alla  sentenza  di  patteggiamento  possa riconoscersi la natura propria di una pronuncia di condanna, differenziandosi da questa per l’assenza dell’affermazione di colpevolezza dell'imputato,  pur  non  essendo  negabile  il  tratto  assimilante costituito dall'inflizione di una pena (in questo senso, Corte Costituzionale, 6 giugno 1991, n. 251; Cassazione penale, S.U., 26 febbraio 1997; Cassazione penale, sez. V, 20 marzo  1998;  Cassazione penale, sez. I, 14 marzo 1997; Cassazione penale, sez. IV, 30 settembre 1996; Cassazione penale, sez. I, 6 giugno 1994). Nella medesima direzione, dalla più accreditata dottrina è stato osservato che l'art. 444 c.p.p. impone al giudice una verifica negativa in ordine al dovere di sentenziare ai sensi dell'art.

129 c.p.p., e che, conseguentemente, la pronuncia di patteggiamento non risulta subordinata all'accertamento della responsabilità dell'imputato, bensì ad un difetto di convincimento in ordine alla sua innocenza. Da qui l’assunto per cui, in sede di applicazione della pena su richiesta, si realizzerebbe un capovolgimento della regola di giudizio codificata dall'art. 530, comma 2, c.p.p., determinato dal fatto che il giudice deve applicare la pena patteggiata anche quando manchi, sia dubbia o contraddittoria la prova positiva dell'innocenza dell'incolpato: ciò che, sul piano logico, vuole dire, appunto, che non è stato raggiunto il convincimento della sua colpevolezza.

Sensibili le analogie tra la sentenza disciplinata dall'art. 444, comma 2, c.p.p. e le decisioni di proscioglimento, le quali non  sempre  contengono  un  accertamento,  dovendo essere  pronunciate anche se dal processo non sia scaturita alcuna convinzione sul thema decidendum (cfr. Cordero, Giudizio, in Digesto pen., V, Torino, 1994, 510), diversamente dalle sentenze di condanna che, al contrario, appunto, non possono prescindere dall'accertamento del fatto e della responsabilità.

b) Dall'equiparazione della sentenza di patteggiamento ad una pronuncia di condanna, come operata dall'art. 445, comma 1, c.p.p., ha tratto fondamento un secondo orientamento, secondo cui, tenuto anche conto delle argomentazioni svolte da Corte Costituzionale 2 luglio 1990, n. 313, la predetta decisione non prescinde dall'accertamento del fatto e della colpevolezza dell'imputato (tra le altre, Cassazione penale, sez. I, 9 dicembre 1991; Cassazione penale, sez. V, 29 ottobre 1993).

Nello sfondo di detta divergenza di opinioni è interessante notare come le Sezioni Unite della Cassazione si siano evolute da posizioni inizialmente asserenti un accertamento implicito della responsabilità, sia pure basato sulla verifica negativa del presupposto ex art. 129 c.p.p. (Cassazione penale, S.U., 27 marzo 1992), a posizioni volte a negare qualsivoglia legame tra il giudizio di colpevolezza e la sentenza emessa ex art. 444 c.p.p. (Cassazione penale, S.U., 8 maggio 1996; Cassazione penale, S.U., 25 novembre 1998; Cassazione penale, S.U., 25 marzo 1998; Cassazione penale, S.U., 26 febbraio 1997), solo limitandosi, più di recente, ad affermare la “stretta interpretazione della clausola di equivalenza ex art. 445, comma 1 bis, c.p.p. (cfr. Cassazione penale, S.U., 29 novembre 2005; in senso conforme Cassazione penale, sez. I, 19 ottobre 2007; Cassazione penale, sez. I, 12 aprile 2006).

Trattasi di sentenze che, attentamente esaminate, appaiono limitarsi ad asserire, in linea di principio, una forte assimilazione tra sentenza c.d. di patteggiamento e sentenza di condanna, senza tuttavia approfondire il punto specifico dell’esistenza, all’interno dei compiti del giudice chiamato a pronunciarsi ex art. 444 c.p.p., di una verifica sul fatto e sulla  responsabilità  dell’imputato  e   per quanto nella presente sede  rileva – mai affermando lesistenza di un accertamento di responsabilità insito nella sentenza di patteggiamento” (altre pronunce hanno affermato una sorta di tertium genus della decisione, caratterizzato da un’“incompletezza di  accertamento”:  si  vedano  Cassazione  penale, sez. IV, 29 marzo 2004, n. 39445, che definisce la sentenza ex art. 444 c.p.p. quale «sentenza di accertamento del fatto, anche se incompleto, perché allo stato degli atti e senza possibilità di acquisizioni ulteriori, con effetti nei  confronti  di  colui  che  richiede  l'applicazione  della  pena»; Cassazione penale, sez. IV, 5 maggio 2005, n.  27931,  secondo  cui  con  la  predetta  sentenza,  «se anche non si fa luogo all'affermazione della responsabilità dell'imputato, si procede comunque all’accertamento del reato, sia pure sui generis’, essendo fondato sulla descrizione del fatto reato, nei suoi elementi, soggettivo ed oggettivo, contenuta nel capo d'imputazione, e non contestata dalle parti nel formulare la richiesta, perché stimata rispondente al  vero  o,  quanto  meno,  non  contestabile». Anche tali sentenze, comunque, è bene rimarcarlo, escludono espressamente il  momento dell’accertamento e dellaffermazione della responsabilità dell’imputato).

Identico ragionamento può farsi con riguardo all’indirizzo interpretativo del giudice delle leggi, che, dopo aver sostenuto, in un primo tempo, che la sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p. poggia su un accertamento di responsabilità, sia pure implicito (2 luglio 1990, n. 313, sopra citata) è, poi, pervenuta ad affermazioni primariamente esaltanti l’aspetto dell’accordo tra le parti quale dato peculiare del rito speciale, contenendo il compito del giudice a verifiche negative (così, Corte Costituzionale n. 251/1991; Corte Costituzionale n. 499/1995; Corte Costituzionale n. 155/1996, di cui appare utile richiamare il seguente passaggio motivazionale: «Quanto alla responsabilità, la sentenza che applica la pena concordata presuppone l'accertamento negativo da parte del giudice circa la possibilità di pronunciare sentenza di proscioglimento per una delle cause di non punibilità indicate dall'art. 129 c.p.p., la cui declaratoria immediata è obbligatoria in ogni stato e grado del processo (art. 444, comma 2, c.p.p.). L'anzidetto accertamento negativo non equivale di per sé, simmetricamente, a una pronuncia positiva di responsabilità. Infatti, la sentenza pronunciata a norma dell'art. 444 c.p.p. non assume le caratteristiche proprie di una pronuncia di condanna basata sull'accertamento pieno della "fondatezza dell'accusa penale" (sent. n. 251 del 1991)».

5) Ora, per quanto non risulti attualmente ben chiarita, nella pur ampia elaborazione giurisprudenziale, l’esatta natura della sentenza ex art. 444 c.p.p., appare corretto prendere le mosse dal disposto di cui all’art. 445 c.p.p., secondo cui il provvedimento terminativo del procedimento speciale non ha autorità nei giudizi civili o amministrativi, neppuresi badi – allorché risulti emesso a cognizione piena (ossia, all’esito del dibattimento), in deroga agli artt. 651 e 654 c.p.p..

Una siffatta scelta legislativa appare in sintonia con la peculiare natura di una sentenza che, pur assimilata ad una pronuncia di condanna, non accerta la sussistenza del fatto la responsabilità dell'imputato.

Ne discende, a questo modo, la piena autonomia del giudice civile nell’accertamento del fatto oggetto del giudizio penale (tra le tante, Cassazione civile, sez. Lavoro, 8 ottobre 1998, n. 9976; Cassazione civile, sez. Lavoro, 27 febbraio 1996, n. 1501), onde appare fondato concludere che la sentenza emessa a seguito del rito di applicazione di pena, pur essendo equiparata ad una condanna ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 445, comma 1, c.p.p. non è, tuttavia, ontologicamente qualificabile come tale, trovando la sua genesi in un accordo tra le parti caratterizzato dalla rinuncia dell’imputato a contestare le accuse mosse: ne consegue che non può farsi discendere dalla sentenza di cui all’art. 444 c.p.p. la prova della ammissione di responsabili da parte dell'imputato e ritenere che tale prova sia utilizzabile nel procedimento civile (in tal senso, ad esempio, Cassazione civile, sez. III, 12 aprile 2011, n. 8421; Cassazione civile, sez. I, 07 novembre 2011, n. 23025; Cassazione civile, sez. V, 24 maggio 2017, n. 13034, che attribuisce alla sentenza valore di mero elemento di prova).

Pertanto, si deve ritenere che la previsione di cui all’art. 445, comma 1 bis, secondo periodo, secondo cui «Salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna», contiene un’equiparazione non quanto alla natura della sentenza ed ai contenuti dell’accertamento affidato al giudice del patteggiamento (al quale compete solo verificare, in negativo, l’insussistenza dei presupposti di un proscioglimento immediato – peraltro, senza alcuna motivazione specifica e dettagliata, salvo il caso in cui dagli atti o dalle deduzioni delle parti emergano concreti elementi circa la possibile applicazione delle stesse: si veda Cassazione penale, sez. IV, 2 luglio 2013,

n. 33214ma non l’accertamento del fatto sulla scorta delle risultanze probatorie), ma limitatamente agli effetti riconosciuti dall’ordinamento alla sentenza penale. Si pensi, tra i numerosi casi di applicazione di detta equiparazione: i) alla possibili di tener conto di un precedente penale costituito da una sentenza ex art. 444 c.p.p. ai fini del diniego delle attenuanti generiche (cfr. Cassazione penale, sez. III, 30 aprile 2015, n. 23952); ii) alla possibilità di ravvisare nella sentenza ex art. 444 c.p.p. un titolo idoneo per la revoca, a norma dell'art. 168, comma 1, n. 1 c.p., della sospensione condizionale della pena precedentemente concessa (cfr. Cassazione penale, S.U., 29 novembre 2005, n. 17782; iii) all’utilizzabili di una sentenza ex art. 444 c.p.p. a fini probatori in altro procedimento penale, ai sensi dell'art. 238 bis c.p.p. (cfr. Cassazione penale, sez. V, 12 novembre 2014, n. 7723); iiii) alla possibilità di individuare nella condanna a pena patteggiata un precedente idoneo a determinare aumenti a titolo di recidiva (cfr. Cassazione penale, sez. II, 4 novembre 2008, n. 90); iiiii) alla possibilità di disporre l’ordine di demolizione, in relazione a fattispecie edilizie o ambientali, e, più in generale, sanzioni amministrative accessorie (cfr. Cassazione penale, sez. III, 20 gennaio 2016, n. 6128;  Cassazione penale, sez. IV, 23 novembre 2005, n. 2863; Cassazione penale, sez. VI, 10 giugno 2002, n. 2880; Cassazione penale, sez. VI, 19 dicembre 1997, n. 3228); iiiiii) alla possibilità di porre a carico dell’imputato patteggiante le spese di giustizia (cfr. Cassazione penale, sez. IV, 10 ottobre 1995).

Appare chiaro, pertanto, come il concetto di “equiparazione” (della sentenza conseguente a patteggiamento ad una ordinaria sentenza di condanna) sia correlato agli effetti propri e tipici di una sentenza penale di condanna (fatta esclusione per le pene accessorie, le spese del procedimento e le misure di sicurezza, ove la pena non superi i due anni di pena detentiva, per come espressamente previsto dall’art. 445, comma 1, c.p.p.), non già al riconoscimento in sé della quali di soggetto penalmente responsabile di un fatto di reato, riconoscimento che non può prescindere da un accertamento della vera e propria responsabilità penale, invero mancante nel giudizio sotteso all’emissione della sentenza ex art. 444 c.p.p..

6) Sulla base delle premesse argomentazioni non può condividersi che l’equiparazione tra sentenza ex art. 444 c.p.p. e sentenza di condanna a seguito di dibattimento comporti, ai fini qui rilevanti, che la sentenza di patteggiamento equivalga a “sentenza di condanna secondo la previsione dell’art. 22 bis NOIF. Oltretutto, una siffatta portata dell’equiparazione ex art. 445, comma 1 bis, c.p.p., nel caso specifico, non si limiterebbe agli effetti comunque correlabili ad una sentenza penale di condanna (come sopra esemplificativamente esaminati), ma investirebbe l’idea stessa di sentenza accertativa del fatto e della responsabilità penale, finendo per ignorare, erroneamente, il dato tipico ed essenziale della sentenza di patteggiamento quale sentenza caratterizzata da accertamento “sui generis” od incompleto, comunque, carente di una verifica della responsabilità dell’imputato.

Per altro verso, una tale conclusione condurrebbe a disattendere l’apparato premiale correlato alla scelta di “patteggiamento”, pervenendo ad una affermazione della natura di condanna della sentenza ex art. 444 c.p.p., pur a fronte di scelte difensive di mera opportunità od economicità.

Infine, appare  opportuno evidenziare  che  la specifica  materia qui interessata  (la “onorabilità” del dirigente della società) si distingue proprio in ragione della gravità delle condotte penalmente accertate (invero, non ogni condanna penale importa il divieto o la decadenza dall’incarico, a mente dell’art. 22 bis NOIF, rilevando condanne per reati di notevole gravità che investono particolarmente la sfera della reputazione del soggetto: reati contro la libertà personale, in materia di prostituzione, reati contro la P.A.; reati di mafia; reati fallimentari; ecc.), talché deve reputarsi erronea ogni interpretazione del presupposto della previa condanna (divenuta irrevocabile) che non identifichi la stessa in una cognizione piena che sfoci in un accertamento completo del fatto e della responsabilità penale dell’interessato.

L’interpretazione qui accolta è altresì confortata dalla prevalenza dell’autonomia assegnata all’Ordinamento giuridico sportivo che, com’è noto, rimane pur sempre capace di regolare, per il tramite delle sue strutture organizzative, fattispecie generali ed astratte con valenza verso la generalità degli associati, in funzione del perseguimento di specifiche finalità pur sempre rientranti nell’interesse generale in ragione del quale esso stesso è costituito (cfr. anche P. Sandulli, M. Sferrazza, Il giusto processo sportivo, Milano, 2015). Effetto, questo, che deve essere correttamente ricollegato ad un rapporto tra ordinamento sportivo ed ordinamento giuridico impostato non già in termini di gerarchia, bensì nell’ottica di «riconoscimento, da parte dell’ordinamento giuridico statale, dell’ordinamento giuridico sportivo già autonomamente esistente e perciò originario» (così già Cassazione, 11 febbraio 1978, n. 625), anche alla luce dell’ovvia premessa che l’ordinamento sportivo è collegato all’ordinamento giuridico internazionale, da cui attinge la sua fonte.

Se ne ricava, in altri termini, che una corretta interpretazione dell’autodichia dell’Ordinamento sportivo, debba tenere in debito conto che, seppure scevro dal connotato della sovranità, esso è pur sempre un ordinamento a formazione spontanea,  la  cui  minore  o  maggiore  capacità  di autodeterminarsi costituisce la misura stessa della sua  autonomia  rispetto  alla  posizione  di supremazia dell’Ordinamento giuridico generale dello Stato.

Del resto, lo stesso inquadramento giuridico delle Federazioni sportive quali  associazioni dotate di personalità giuridica di diritto privato, conduce ad affermare che la loro azione è, appunto, esercizio di autonomia e non già di  discrezionalità  amministrativa.  Ciò  che,  del  resto,  è  confermato dalla stessa giurisprudenza di legittimità, secondo cui «il fondamento dell’autonomia dell’ordinamento sportivo» deve essere rinvenuto «nella norma  costituzionale  di  cui  all’art.  18,  concernente  la  tutela della libertà associativa, nonché nell’art. 2, relativo al riconoscimento dei diritti inviolabili delle formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità del singolo» (cfr. Cassazione, 27 settembre 2006,

n. 21006; Cassazione, 28 settembre 2005, n. 18919).

Ne consegue, dunque, che, nel momento in cui si riconosce alle Federazioni sportive il potere di emanare norme interne per l’organizzazione associativa e l’ordinato svolgimento delle competizioni sportive, non può non attribuirsi alle Federazioni stesse anche la competenza ed il giudizio sull’osservanza delle medesime norme.

In definitiva, il richiamo alla sentenza penale di condanna contenuto nell'art. 22 bis NOIF dev’essere inteso  come riferito  alla pronuncia che  abbia accertato la  responsabilità penale dell'imputato, cui per quanto detto non è in alcun modo assimilabile la sentenza applicativa di pena su richiesta.

Per converso, la sentenza adottata ai  sensi  dell'art.  444  c.p.p.,  anche  quando  si  riferisca  ai titoli di reato indicati dall’art. 22 bis NOIF, non produce in automatico la perdita del requisito di onorabilità, dovendosi in tali  ipotesi  ritenere  venuto  meno  ogni  automatismo  decadenziale  tra sentenza penale e perdita del requisito di onorabilità, anche  se  con  l’inevitabile  conseguente riespandersi della sfera di autonomia dell'ordinamento sportivo, nel libero apprezzamento della gravità dei fatti ai fini di un'eventuale sanzione.

7) Conclusivamente, dunque, considerati assorbiti gli ulteriori profili non specificamente esaminati, ritiene, questa Corte, che, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 22 bis NOIF, la sentenza resa a seguito di patteggiamento, per le ragioni sopra esposte, non possa essere automaticamente equiparata ad un’ordinaria sentenza di condanna.

Si atto che il presente parere è stato deliberato a maggioranza nella seduta del 18 dicembre 2018.

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