CONI – Collegio di Garanzia dello Sport – Sezione Consultiva – coni.it – atto non ufficiale – Parere n. 1/2016 del 16/03/2016 – (richiesta CONI su sospensione termini procedimento sportivo se su un medesimo fatto è esercitata azione penale)
Parere n. 1
Anno 2016
IL COLLEGIO DI GARANZIA
SEZIONE CONSULTIVA
composta da
Virginia Zambrano - Presidente e Relatore
Pierpaolo Bagnasco – Componenti
Alessandro Di Majo
Amalia Falcone
Marcello Molè
LA SEZIONE
Visto il decreto di nomina del Presidente del Collegio di Garanzia, prot. n. 00012/14 del 17 settembre 2014;
Vista la richiesta di parere prot. 10608/15, presentata dal Segretario Generale del CONI, dott. Roberto Fabbricini, in data 15.12.2015, ai sensi dell’art. 12 bis, comma 5, dello Statuto del CONI e dell’art. 56, comma 3, del Codice della Giustizia Sportiva; Visto l’art. 56, comma 3, del Codice della Giustizia Sportiva, in base al quale alla Sezione consultiva spetta, tra l’altro, l’adozione di pareri su richiesta del CONI;
Visto l’art. 3, commi 2-4, del Regolamento di organizzazione e funzionamento del Collegio di Garanzia dello Sport, che definisce la competenza della sezione consultiva dell’organo de quo; Visto gli articoli 2 e 3 del Regolamento di organizzazione e funzionamento del Collegio di Garanzia dello Sport;
Esaminati gli atti e udito il relatore, rende il seguente
PARERE N. 1/2016
1. Con atto del 15 dicembre 2015 il Segretario Generale del C.O.N.I., dott. Roberto Fabbricini, ha richiesto parere alla Sezione Consultiva Collegio di Garanzia dello Sport sulla questione del significato da attribuire all’art. 38, comma 5, lett. A) CGS laddove, in tema di sospensione dei termini, stabilisce che il “corso dei termini è sospeso (…) se per lo stesso fatto è stata esercitata l’azione penale, ovvero l’incolpato è stato arrestato o fermato o si trova in stato di custodia cautelare, riprendendo a decorrere dalla data in cui non è più soggetta ad impugnazione la sentenza penale di non luogo a procedere ovvero sono divenuti irrevocabili la sentenza o il decreto penale di condanna, fermo che l’azione disciplinare è promossa e proseguita indipendentemente dall’azione penale relativa al medesimo fatto”.
La formulazione non univoca dell’articolato sembrerebbe collidere con la previsione di cui all’art. 39, comma 7, CGS, ove, con norma di chiusura si stabilisce che “in nessun caso è ammessa la sospensione del procedimento (…)”.
Proprio la definizione della corretta interpretazione da attribuirsi alle norme de qua indirizza verso l’ulteriore questione relativa all’art. 34 bis Codice GS della FIGC che, nel far salva la facoltà del Collegio giudicante di disporre la prosecuzione del procedimento disciplinare, sembra entrare in patente contrasto con la previsione di cui all’art. 39, comma 7, CGS.
I quesiti sottoposti all’attenzione del Collegio, avuto riguardo alla stretta connessione logico- giuridica che li avvince, possono essere trattati congiuntamente.
Un profilo chiave, per ogni ulteriore riflessione sul quesito sottoposto all’attenzione di questo Collegio, attiene al dibattito circa la natura e i limiti del procedimento disciplinare sportivo; questione che non può non inserirsi – come noto – nel più ampio dibattito relativo ai rapporti fra ordinamento sportivo e ordinamento statale.
DIRITTO
Sulla natura del procedimento disciplinare – La potestà disciplinare nei confronti di “tesserati, affiliati e degli altri soggetti secondo le norme di ciascuna Federazione” (art. 44, comma 1, CGS del CONI), rappresenta un mezzo importante ed imparziale di autoregolamentazione interna delle condotte patologiche che si realizzano nel “micro-ordinamento” di appartenenza, in presenza di condotte senz’altro ostative al corretto raggiungimento dei fini istituzionali dell’Ente. La condotta non conforme a siffatte regole, fermo restando le eventuali concorrenti responsabilità “generali” (penale, civile, amministrativa, artt. 49 e 56 CGS), origina reazioni interne, espressive della potestà disciplinare di cui al micro-ordinamento di appartenenza. La funzione che persegue la sanzione disciplinare è, in quest’ottica, quella di prevenire, dissuadere e, nel contempo, sanzionare, dall’interno, violazioni di regole che rappresentano i pilastri su cui si fonda l’ordinamento sportivo. Né la violazione di siffatte regole di condotta interessa esclusivamente l'ordinamento di appartenenza.
Nella loro più intima radice esse non sono un mero strumento di garanzia del mantenimento dell’ordine interno, ma assumono un respiro più generale in considerazione della rilevanza “esterna” dell’azione svolta dall’Ente di riferimento. A conferma della proiezione che assumono le regole di condotta valga addurre l’esempio della P.A. ove tale potere riposa sul principio di buon andamento della amministrazione (art. 97 Cost.) e sul conseguenziale rapporto di supremazia speciale del datore pubblico presentando qui, attesa la specialità del rapporto, una connotazione fortemente autoritaria, inevitabilmente influenzata da un diritto penale la cui pervasività si è tuttavia – di recente e con la privatizzazione del pubblico impiego – ampiamente attenuata (TENORE, La responsabilità disciplinare nel pubblico impiego dopo la riforma Brunetta, Milano, Giuffrè, 2010; MAINARDI, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, art.2106, in SCHLESINGER (a cura di), Il codice civile. Commentario, Milano, 2002). Laddove un discorso diverso vale – come noto – nel lavoro privato ovvero nelle libere professioni, come riconoscono i giudici in C. cost., 19 maggio 2008 n.182, ove sottolineano che “l'esercizio della funzione disciplinare nell'ambito del pubblico impiego, della magistratura e delle libere professioni si esprime con modalità diverse che caratterizzano i relativi procedimenti a volte come amministrativi, altre volte come giurisdizionali, [...] in rispondenza a scelte del legislatore, la cui discrezionalità in materia di responsabilità disciplinare spazia entro un ambito molto ampio (sentenza n. 145 del 1976)”.
A dispetto del suo presentarsi come generica manifestazione del potere punitivo di chi ha il compito di organizzare il lavoro altrui per il perseguimento di un interesse pubblico o privato, l’esercizio del potere disciplinare finisce, dunque, con il riflettere le peculiarità dell’ordinamento di riferimento, senza che possa immaginarsi un unico “modello” disciplinare cui attingere. Pur nell’unicità dell’obiettivo da perseguire, e in presenza di un nucleo di principi comuni che caratterizzano tutte le tipologie di procedimento disciplinare, i sistemi disciplinari interni, quindi, inevitabilmente mutano (in considerazione degli scopi che l’ordinamento di riferimento si prefigge), rendendone difficile una reductio ad unitatem. Ciononostante, e sia pur con talune eccezioni rinvenibili nella peculiarità dei singoli ordinamenti, taluni principi generali esistono e connotano il procedimento disciplinare. Questi possono individuarsi in quelli a) dell’obbligatorietà dell’azione disciplinare e della segnalazione disciplinare; b) del principio della proporzionalità e gradualità della sanzione disciplinare rispetto ai fatti commessi nonché del divieto di automatismo sanzionatorio che, altrimenti, finirebbe con il negare in nuce la funzione stessa della norma disciplinare; c) del principio di parità di trattamento; d) della tempestività dell’azione disciplinare, al fine di garantire sia l'effettività del diritto di difesa dell'incolpato (dal momento che, minore è il lasso di tempo tra la commissione della presunta infrazione ed il procedimento disciplinare, maggiore è la possibilità per l'incolpato di reperire valide argomentazioni difensive e prove di supporto), sia la funzione deterrente del procedimento; e) della natura tassativa delle sanzioni; f) del contraddittorio procedimentale; g) della trasparenza del procedimento; h) della corrispondenza tra contestazione degli addebiti e fatti sanzionati nel provvedimento punitivo finale. In tale ambito, secondo i principi che ispirano la disciplina del “patrimonio costituzionale comune” vanno garantiti all'interessato alcuni essenziali strumenti di difesa, quali la conoscenza degli atti che lo riguardano, la partecipazione alla formazione dei medesimi e la facoltà di contestarne il fondamento e di difendersi dagli addebiti (cfr. C. cost. 46072000 e nn. 505 e 126/1995). Nello stesso senso, secondo l'interpretazione della Corte di giustizia delle Comunità europee, il diritto di difesa impone che i destinatari di decisioni che pregiudichino in maniera sensibile i loro interessi siano messi in condizione di far conoscere utilmente il loro punto di vista» (Corte di giustizia, sentenza 24 ottobre 1996, C-32/95 P., Commissione Comunità europea c. Lisrestal). A questi principi non fa eccezione, ovviamente, il procedimento disciplinare sportivo seppure con gli adattamenti necessari a dare conto della specificità dell’ordinamento.
L’analisi della regola di dettaglio consente, dunque, di cogliere lo spirito con cui il legislatore sportivo si è mosso nel disegnare il procedimento disciplinare. È, in altri termini, il modo in cui si sviluppa il procedimento che concorre a definirne la natura amministrativa oppure giurisdizionale, incidendo altresì sulla natura dell’atto da assumere (provvedimento con carattere sanzionatorio, sentenza/decisione etc.), con tutte le relative conseguenze che ne discendono.
Orbene, ciò che appare evidente da una lettura sistematica delle norme contenute nel Codice è lo sforzo di circondare il procedimento disciplinare di una serie di garanzie processuali nel tentativo di conciliare tutela della persona e quell’esigenza di corretto raggiungimento dei fini istituzionali dell’Ente, cui si è fatto riferimento. Così, per un verso, tutto l’impianto del procedimento disciplinare si gioca sulla obbligatorietà e non mera discrezionalità dell’azione disciplinare. Emblematica, in tal senso, la previsione di cui all’art. 44, comma 1 e 3, CGS in cui la necessità di non mettere in discussione esigenze di certezza del diritto e di parità di trattamento traspare da un ordito normativo inequivocabile nel senso della obbligatorietà dell’azione penale.
Per l’altro, quelle esigenze di tutela della persona cui si faceva riferimento si trovano riflesse nella tempestività dell’azione, nonché nella definizione di termini molto brevi per la conclusione dell’iter punitivo, come si desume dalle regole che disciplinano l’attivazione della procedura di deferimento, così come lo svolgersi delle fasi processuali (artt. 32 ss. e art. 44, comma 4, CGS). Laddove il rimedio all’inerzia o al protrarsi delle indagini, sempre nella consapevolezza che il provvedimento disciplinare sportivo rischia di incidere pesantemente sulla posizione giuridica della persona (specie se atleta), trova riscontro in un regime della prescrizione che ancora il dies a quo al “giorno in cui occorre il fatto disciplinarmente rilevante” (art. 45, comma 2). Ma v’è più.
La peculiarità del procedimento disciplinare sportivo che, qui si lascia ispirare dalla corrispondente e complessa struttura statale, è suffragata da una serie di “paradigmi” il cui carattere fortemente giurisdizionale non può essere negato: dalla iscrizione delle notizie nell’apposito registro di cui all’art. 53 (art. 47) alla terzietà decisoria dell’organo giudicante, dalla difesa tramite avvocati (art. 27, comma 2), alla previsione di cui agli artt. 28 e 48 (patteggiamento a seguito di deferimento oppure senza incolpazione) alla possibile previsione di misure cautelari (art. 33 CGS), dall’intervento del terzo (art. 34) ai meccanismi di assunzione delle prove (art. 36).
Vero è che, per la fase a monte del procedimento disciplinare in senso stretto – ovvero per quelle indagini preliminari tese ad apprezzare la reale esistenza di fatti aventi gli estremi per essere qualificati illeciti disciplinari (es. attività di accertamento del Procuratore federale) ma in cui non si hanno prove di rango giurisdizionale proprio poiché tali elementi sono frutto di una iniziativa di parte spesso priva del contributo (spontaneo e consapevole) dell’indagato – la connotazione amministrativa è più pertinente. Del pari indubbio che, sul piano applicativo, siffatti aspetti inducono semmai a ritenere che il procedimento disciplinare sportivo presenti una natura atipica che, nondimeno, in pratica, (non diversamente da quanto accade per il procedimento disciplinare dei magistrati di cui al d.lgs. n. 109 del 2006), finisce con l’assumere, per le ragioni dette, connotati più simili a quelli giurisdizionali che non amministrativi.
Né ciò deve sorprendere ove si consideri che, principio ispiratore della riforma del Codice – anche al netto delle modifiche apportate nel dicembre 2015 – risulta essere quello della giurisdizionalizzazione del procedimento. Del resto, e questa volta da un punto di vista meramente testuale, già dall’art. 2, comma 6, CGS è possibile cogliere la linea lungo la quale si è indirizzato il legislatore sportivo. Il rinvio “per quanto non disciplinato, gli organi di giustizia conformano la propria attività ai principi e alle norme generali del processo civile” conferma della natura giurisdizionale del processo sportivo e cioè della volontà di attrarre il procedimento alle garanzie sostanziali dell’attività giurisdizionale. Lo stesso ricorso al termine “reclamo” quale mezzo per impugnare le decisioni del Tribunale Federale è manifestazione, in quest’ottica, di una logica più vicino alla giurisdizione che al procedimento amministrativo. Né la contaminazione di altri linguaggi e di altre epifanie, senza dubbio presenti nel Codice, il fatto – vale a dire – che si parli di indagini, deferimento etc. è da esasperare, attribuendovi una valenza che ecceda quella della semplice attenzione ad una terminologia eccentrica rispetto agli obiettivi che si prefigge il Codice, trattandosi di una inevitabile circolazione di singoli istituti più che di una “attrazione” ad altri ambiti ordinamentali.
Sgomberato il campo dagli equivoci che può generare la qualificazione della natura giuridica del procedimento disciplinare sportivo, e precisato che esso ha profili strutturali e funzionali del tutto atipici e peculiari, è anche vero che la questione della definizione della natura del procedimento de quo risulta attenuato dalla compiuta regolamentazione normativa del procedimento che si rinviene negli artt. 27-48, come completata dai poteri di attivazione ex officio del giudice sportivo (ex art. 14 CGS).
L’autonomia del procedimento disciplinare e di quello penale – In ambito sportivo, la peculiarità del procedimento disciplinare pone, dunque, in rilievo sia le norme che presiedono ai diritti ed ai doveri degli associati, ed alla qualificazione e sanzione delle condotte, sia quelle che regolano le modalità di accertamento e valutazione del fatto contestato. Si tratta di uno dei profili più controversi che si sono delineati all’interno del tradizionale dibattito circa i limiti di autonomia dell'ordinamento sportivo rispetto a quello statale, come pure definiti da C. cost. 49/2011.
Come noto, la Legge 17 ottobre 2003, n. 280, di conversione con modificazioni del D.L. 19 agosto 2003, n. 220, contenente «Disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva» nel tentativo di razionalizzare e riordinare - almeno nell'intenzione originaria - regole già elaborate in giurisprudenza e dottrina, si è ispirata sostanzialmente a tre principi: a) riservare all'ordinamento sportivo in via esclusiva la cognizione di determinate controversie; b) consentire l'intervento del giudice statale (ordinario o amministrativo) per le altre; ed infine c) porre una condizione di procedibilità ai ricorsi ai giudici dello Stato, quale la preventiva conclusione dei gradi della giustizia domestica - la c.d. pregiudiziale sportiva. Il riconoscimento, ex art. 1, l. 280/2003, dell’autonomia dell’ordinamento sportivo (ad eccezione delle ipotesi in cui il contenzioso riguardi situazioni giuridiche soggettive), in quanto pur sempre articolazione dell'ordinamento internazionale e non creazione esclusiva dell'ordinamento della Repubblica, è, dunque, il riconoscimento della legittimazione a regolare i propri rapporti interni senza alcun vincolo, a meno che non si tratti di diritti soggettivi o interessi legittimi, da una parte. E, dall’altra parte, l’art. 2, comma I, individua i limiti della giustizia sportiva, che viene circoscritta alla «osservanza e l'applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell'ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni», nonché ai “comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive”, mentre l’art. 3 disciplina – come noto – l’accesso al contenzioso sportivo del giudice ordinario e del giudice amministrativo (a questi riconoscendo una giurisdizione esclusiva in materia sportiva) hanno offerto alla dottrina e alla giurisprudenza ampio materiale di discussione, creando le condizioni per quell’actio finium regundorum di cui alla sentenza della C.cost. 49/2011, in cui i giudici saldamente ancorano il principio di autonomia ai precetti costituzionali (artt. 2 e 18 Cost.).
Alla riconosciuta autonomia dell’ordinamento sportivo si legano altresì le riflessioni sul rapporto tra illecito penale e disciplinare che, pur presentandosi tra loro concorrenti, sono però connotati da autonomia strutturale e funzionale. La questione non è di poco momento. Essa infatti intercetta il delicato profilo del “controllo” della autonomia ogni qual volta l’ordinamento sportivo permetta – come accade nel caso della coesistenza di un procedimento penale – una qualche deroga ad esso.
Va da sé che la questione non incide su quelle controversie di natura prettamente tecnica (salvo il limite dell’incidenza su posizioni soggettive dei terzi) che ricadono nell'esclusiva sfera di competenza del giudice sportivo, ma investe tutte quelle situazioni in cui il tipo di illecito assume connotati più ampi, attivando la giustizia penale. Né, tanto meno, v’è dubbio che non ogni illecito disciplinare comporti un illecito penale o amministrativo-contabile e viceversa.
Per ciascuno di tali illeciti, al titolare della potestà punitiva competono autonomi poteri di accertamento dei presupposti sostanziali (oggettivi e soggettivi) per attivarsi. In ragione dei fini suoi propri, insomma, ciascun titolare della potestà “punitiva” individua i valori e i disvalori rispettivamente da tutelare, le condotte meritevoli di riconoscimento e quelle da reprimere, i mezzi per procedervi etc. In questo senso, la severità ed effettività delle disposizioni disciplinari servono le ragioni istituzionali dell’Ente e, perciò stesso, si sottraggono ad un qualsiasi controllo di congruità che non sia quello derivante dalla violazione di principi costituzionalmente rilevanti (il richiamo è nella specie all’art. 2 Cost.).
Diversa essendo, nella natura e negli effetti, la responsabilità penale da quella disciplinare (il cui disvalore si apprezza esclusivamente nell’ambito in cui è riconosciuta), ben si comprende come l’esito di un giudizio penale non assuma necessariamente portata vincolante in sede disciplinare, dovendo l’organo titolare dell’azione disciplinare procedere ad autonoma rivalutazione dei fatti acclarati in sede penale (vincolanti nella solo loro storicità ex art.653 c.p.p.), per stabilire se detti fatti – certi sul piano fattuale dopo il giudicato – assumano valenza disciplinare alla stregua dei parametri, oggettivi e soggettivi, fissati dalle norme di settore (per i magistrati ordinari dagli artt. 2 e 3, l. n.109 del 2006).
Tale principio generale è ribadito, in perfetta sintonia con gli art. 653 e 444-445 c.p.p., dall’art. 38, comma 5, lett. a), CGS secondo cui “l’azione disciplinare è promossa e proseguita indipendentemente dall’azione penale relativa al medesimo fatto”.
Ferme restando, così, le ipotesi di sospensione dei termini di cui all'articolo 38, comma 5 CGS, il legislatore (con norma di chiusura) ha inteso ribadire, pur nell’inevitabile tendenza a richiamarsi a parametri e soluzioni di diritto comune sempre che adattabili al procedimento de quo, la autonomia dall’azione penale. La commistione fra i due ordinamenti ritorna, tuttavia, ogni qual volta non sia possibile non tenere in considerazione l'intervento sostitutivo o caducatorio della giustizia ordinaria.
Hanno, quindi, autorità di cosa giudicata nel giudizio disciplinare quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e dell'affermazione che il reato è stato commesso: a) la sentenza penale irrevocabile di condanna (art. 39, comma 1, CGS); b) la sentenza irrevocabile di applicazione della pena di cui all’art. 39, comma 2, CGS, la cui logica si richiama alla previsione di cui all’art. 444, comma 2, c.p.p.; nonché la sentenza di assoluzione che accerti che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso. Ma, al di fuori di queste ipotesi, e salva facendo quell’autonomia dell’ordinamento sportivo, che il legislatore non manca di ribadire continuamente, quello che emerge e che rafforza il profilo dell’autonomia fra procedimento penale e procedimento disciplinare è la volontà di evitare pericolosi automatismi sanzionatori (come ribadito dalla giurisprudenza anche costituzionale in rapporto ad altri tipi di procedimenti disciplinari, per tutte, C. cost., 27 aprile 1993 n. 197 (in Cons. St., 1994, II, 343 con nota di VIOLA, in Giur. cost., 1993, 1341, con nota di CANTARO, in Le Regioni, 1994, 345, con nota di F. PINTO, La cessazione dall'ufficio dei pubblici dipendenti nell'art. 1 l. 16/1992: destituzione o decadenza?, e in Giur. cost., 1993, 1349, con nota di CANTARO, Ancora su destituzione di diritto e decadenza: novità e conferme dalla più recente giurisprudenza costituzionale). Attesi gli obiettivi dell’ordinamento sportivo si è inteso scongiurare che l’acritico recepimento da parte degli organi disciplinari delle risultanze penali conducesse a sanzioni disciplinari fondate, solo e soltanto, sulle risultanze penali senza adeguata riponderazione delle stesse, per coglierne il risvolto disciplinare (sul divieto di automatismi sanzionatori anche in rapporto a liberi professionisti, e non solo nel pubblico impiego, C.cost., 31 gennaio 1990 n. 40 relativa al pregresso art.142, l. n. 89). Deroghe a siffatto principio trovano giustificazione in quella peculiarità dell’attività svolta cui si faceva riferimento in precedenza per spiegare la non unicità del modello disciplinare (cfr. per i magistrati la previsione di cui all’art.12, co. 5, d.lgs. n.109 del 2006). Proprio il carattere eccezionale di siffatte deroghe ribadisce, però, il principio generale dell’autonomia dell’illecito disciplinare da quello penale e della autonoma rivalutazione interna-disciplinare dei fatti acclarati in sede penale, che rinviene la sua evidente ratio nella riconosciuta autonomia dell’ordinamento sportivo.
Tale autonomia dalle statuizioni penali comporta, specularmente, che non sussiste alcuna preclusione alla (doverosa e tempestiva) attivazione del procedimento disciplinare a fronte di sentenze di “non doversi procedere” perché il fatto non sussiste (Cass., sez. un., 2009 n.17903 (in Ced Cassazione). Il giudicato penale non preclude, infatti in sede disciplinare una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale, essendo diversi i presupposti delle rispettive responsabilità. Unico limite, razionalmente rinvenibile, deve individuarsi nell’immutabilità dell'accertamento dei fatti nella loro materialità, così come compiuto dal giudice penale. Il che significa che se è vero che il giudice disciplinare non può ricostruire l'episodio posto a fondamento dell'incolpazione in modo diverso da quello risultante dalla sentenza penale dibattimentale passata in giudicato (in considerazione dei maggiori e più sofisticati strumenti che possiede il giudice penale), è anche vero che egli ha piena libertà di valutare i medesimi accadimenti nell'ottica, indubbiamente più rigorosa, dell'illecito disciplinare.
Ciò chiarito in ordine ai rapporti fra “peso” della decisione penale in sede disciplinare, sul piano procedurale, nonché su quello delle interferenze procedimentali tra i due giudizi, bisogna osservare come la questione di cui è stato investito il Collegio riguardi un aspetto particolarmente delicato. In discussione, infatti, è la verifica del modo in cui l’autonomia dei procedimenti penale e disciplinare si coniughi con la previsione della sospensione dei termini di cui all’art. 38, comma 5, CGS, in ipotesi di esercizio dell’azione penale, con quella di cui all’art. 39, comma 7, CGS che non ammette – salvo che sorga una questione pregiudiziale di merito – la sospensione del procedimento disciplinare.
Da un lato l’art. 38, comma 5, lett. a), ult. parte, ribadisce l’autonomia dell’azione disciplinare statuendo che “L'azione disciplinare è promossa e proseguita indipendentemente dall'azione penale relativa al medesimo fatto”; dall’altro, nel contempo, prevede una serie di ipotesi di sospensione dei termini (art. 38, comma 5, CGS), così stabilendo una sorta di pregiudiziale penale, nel caso in cui “l’incolpato sia stato arrestato o fermato o si trova in stato di custodia cautelare, riprendendo a decorrere dalla data in cui non è più soggetta ad impugnazione la sentenza di non luogo a procedere ovvero sono divenuti irrevocabili la sentenza o il decreto penale di condanna”. Questa disposizione sembra intendersi come espressiva di un effetto sospensivo dell’inizio del procedimento penale su quello disciplinare intrapreso o da intraprendere sino alla sentenza penale definitiva, ferma restando, la previsione di cui all’art. 39, comma 7, CGS.
L’apparente contrasto fra siffatte disposizioni, pur chiaramente rilevabile, non deve tuttavia essere esasperato.
Costituisce principio ricorrente nella giurisprudenza, anche del giudice delle leggi che, dinanzi ad un dubbio interpretativo di una norma o di un'aporia del sistema, occorra verificare la possibilità di privilegiare, tra le probabili interpretazioni di una disposizione, quella idonea (ove possibile) a fugare ogni perplessità sulla conformità della stessa all’impianto normativo, sì da salvaguardarne la coerenza anche alla luce di una sua interpretazione sistematica (Corte cost. 30 novembre 2007, n. 403).
In quest’ottica, la norma va – ad avviso del Collegio – intesa nel senso di sancire un effetto sospensivo sul procedimento disciplinare, e sui relativi termini, solo nel caso in cui “l’incolpato sia stato arrestato o fermato o si trovi in stato di custodia cautelare”. Vero è che la normativa non brilla per chiarezza. Del pari indubbio che (alla luce della previsione di cui all’art. 39, comma 7, CGS) la chiave di volta per restituire coerenza al dettato normativo, nello spirito di quella interpretazione adeguatrice di cui si è detto, riposa sul corretto significato da attribuire all’espressione “ovvero”, qui utilizzato non nei termini di congiunzione disgiuntiva ma con valore esplicativo.
Né la lettura offerta è espressione di un mero esercizio letterario. Al contrario. Che obiettivo del legislatore sia stato quello di chiarire quanto precedentemente espresso si desume non solo – come si diceva – dall’art. 39, comma 7, CGS ma, altresì, dalla lettura delle altre cause che originano la sospensione. Il filo conduttore che però unisce tutte le ipotesi previste, dai casi di necessaria collaborazione dell’incolpato (lett. b) agli accertamenti di particolare complessità (lett. c); dalla richiesta di rinvio per impedimento dell’incolpato (lett. d) a quella per impedimento del collegio giudicante (lett. e) è rappresentato, a ben vedere, dall’impossibilità per l’incolpato di partecipare (per le ragioni dette) al procedimento e, dunque, a tutela del suo diritto alla difesa. Diritto che, ovviamente, non è compromesso dal mero esercizio dell’azione penale.
A ritenere diversamente, a ritenere – vale a dire – che la norma determini una sospensione del procedimento disciplinare già a partire dal semplice “esercizio dell’azione penale” e sino all’esito del giudicato, si finirebbe non solo con il contraddire la riconosciuta autonomia dell’azione disciplinare da quella penale, ma anche con il diminuire l’efficacia dell’azione disciplinare. Siffatta lettura null’altro rappresenterebbe se non una esasperata, irragionevole, applicazione “dell’ideale della pregiudiziale penale”. Certo, non può negarsi che la ratio sottesa a siffatta pregiudiziale sia ampiamente condivisibile, essendo ispirata alla esigenza di prevenire contrasti decisionali nonché di offrire all’organo disciplinare l’opportunità di avvalersi delle più approfondite istruttorie penali. Da strumento di stasi del procedimento, in funzione della formazione del giudicato nella sede pregiudiziale, la sospensione si presenta quindi come il meccanismo per assicurare al giudice del procedimento pregiudicato un più ampio orizzonte decisorio, attraverso i suggerimenti che possono derivare appunto dal “responso sulla questione pregiudiziale”.
Nel caso del procedimento disciplinare sportivo, però, occorre considerare che la speditezza, l’efficacia e la forza dissuasiva dell’azione disciplinare sono direttamente proporzionali alla sua tempestività, sicchè le attese che inevitabilmente comporta il consolidarsi del giudizio penale (che sopravviene dopo molti anni, con conseguenti intollerabili ritardi dell’azione disciplinare), finiscono con il depotenziare proprio la funzione del provvedimento disciplinare. Oltre che contrastare con una interpretazione sistematica dell’art. 38 CGS, far retroagire siffatto effetto sospensivo alla fase di esercizio dell’azione penale, finisce con l’essere in patente contrasto con un principio di logicità e ragionevolezza.
Ma v’è più. Che quella della pregiudiziale penale – pure corredata dalle giustificazioni di cui si è detto: a) prevenire contrasti decisionali e b) consentire all’organo disciplinare di giovarsi delle approfondite istruttorie penali e riscontrabile in altri regimi disciplinari – sia in corso di superamento e che, dunque, il sistema in generale stia evolvendo verso la totale autonomia del procedimento disciplinare da quello penale si desume dal sistema disciplinare nel pubblico impiego. Proprio per porre rimedio ai ritardi del “pregiudiziale” procedimento penale, e per l’autonoma valenza degli illeciti disciplinari, la cd legge “Brunetta” 4 marzo 2009 n.15, che, all’art. 7, co.2, lett. b), ha codificato il superamento della “pregiudiziale penale” (cfr. l’art.69 del d.lgs. n.150 del 2009 che ha introdotto l’art.55-ter al d.lgs. n.165 del 2001), consentendo agli uffici disciplinari di perseguire i fatti di propria competenza, senza dover attendere l’esito del procedimento penale e, dunque, senza subire pluriennali effetti sospensivi sull’iter punitivo intrapreso.
A questa stessa stregua, sembra doversi risolvere il problema della compatibilità della previsione di cui all’art. 34 bis, comma 5, del CGS della FIGC nella parte in cui prevede che “il corso dei termini di estinzione è sospeso nelle ipotesi previste dal Codice di Giustizia sportiva del CONI, fatta salva la facoltà del collegio giudicante di disporre la prosecuzione del procedimento disciplinare”.
Il dubbio sollevato, nel senso che vi sarebbe un intollerabile conflitto (lo stesso che si presenta nell’ordinamento generale e che fonda il presente parere) non ha ragione di porsi. Due convergenti ordini di ragioni concorrono a tale conclusione. In primo luogo, il Codice di Giustizia sportiva della FIGC è manifestazione di quell’esigenza di adeguamento degli ordinamenti Federali attivato dalla riforma della giustizia sportiva e, dunque, non può che recepirne valori e fini.
Il secondo momento di riflessione è rappresentato dalla ammissibilità della soluzione adottata solo nella misura in cui essa apre alla ammissibilità della scelta effettuata nei termini adeguativi di cui alla interpretazione offerta. Impregiudicato, sullo sfondo, l’invito al legislatore di intervenire a risolvere la rilevata aporia.
PQM
Si rilascia il presente parere.
Deciso nella camera di consiglio del 15 febbraio 2016.
Depositato in Roma, in data 16 marzo 2016.
Il Presidente e Relatore
F.to Virginia Zambrano
Il Segretario
F.to Alvio La Face